La difesa della razza

by
di Teo Lorini
 
Senatore Bossi,
l’altro ieri il suo partito ha incassato il placet di Montecitorio su una mozione che istituisce classi «di integrazione» per bambini stranieri. Non è chiaro quanto a lungo dovrebbe durare questo regime di separazione né se il provvedimento si applicherà tanto ai bambini appena arrivati quanto ai figli di stranieri nati e cresciuti sul suolo italiano, ma è da vent’anni ormai che il movimento da Lei guidato ha dichiarato guerra a distinzioni e sottigliezze, preferendo invece gli slogan tosti, facili da ricordare e ottimi per guadagnare prime pagine e consensi.
Le scrivo, senatore, perché a me capita di abitare in Svizzera, e per la precisione in Canton Ticino, uno Stato di cui Lei tesse grandi lodi, tanto che, dopo l’ictus che L’ha colpita nel 2004, ha scelto di venire a farsi curare proprio qui e non in uno degli ospedali della sua amata Lombardia. Io, per buona sorte, non mi trovo qui per gli altissimi livelli degli ospedali, neppure però per motivi di vacanza. Sono solo uno dei tanti italiani all’estero.
Certo, la mia non è l’emigrazione dei carpentieri, dei gessatori, degli operai che sono arrivati qui dieci o vent’anni prima di me e i cui racconti sono stato ore ad ascoltare (mi permetterei anzi di consigliarli anche a Lei, senatore, e ai suoi compagni di partito tanto inclini a denigrare gli immigrati). Io non sono venuto a offrire muscoli e fatica fisica, ma preparazione culturale: avevo da poco passato la trentina quando è stato chiaro oltre ogni ragionevole dubbio che, per i miei anni di studio e di non disprezzabile carriera universitaria (laurea, dottorato, periodi di ricerca all’estero, specializzazioni, assegni di studio), la migliore prospettiva che lo Stato italiano era in grado, o si accontentava, d’offrire a me e a centinaia di giovani nella mia posizione era quella di aspettare fino ai 40, i 45, magari anche i 50 anni per arrivare a un vero posto di lavoro, a uno stipendio minimo ma regolare. E, constatazione ancora peggiore, solo a quel punto si sarebbe realizzata l’opportunità di insegnare davvero e non di limitarsi a improvvisare un seminario per riempire i buchi nell’orario di qualche barone. Le cose studiate (e, in taluni casi, scoperte) in anni di ricerca appassionata tra biblioteche, manoscritti, cataloghi microfilm, archivi e fondazioni, sarebbero rimaste, ben oltre il proverbiale «mezzo del cammin» delle nostre vite, lettera morta. Senza essere comunicate né condivise con classi di giovani, di studenti, di italiani di domani.
C’è il rischio di scivolare nella retorica, lo so. Come so che moltissimi in Italia fronteggiano problemi ben peggiori, specialmente adesso. Ma anche l’esperienza che ho appena raccontato è desolante: il lavoro, il sacrificio, e persino il compromesso (sgradevole, vischioso e umiliante come lo è ogni cedimento dalle proprie convinzioni), non valgono neppure a guadagnare una classe a cui trasmettere ricerche che resteranno invece seppellite all’aridità degli studi specialistici e di monografie destinate alla polvere di scaffali (o a essere tutt’al più compulsate da qualche altro eterno precario della cultura).
Andarsene, lasciare il posto dove si è cresciuti è difficile, doloroso, ma almeno un vantaggio c’è. Un adagio veneziano che forse non le sarà ignoto dice che viagiar descanta e cioè, letteralmente, dis-incastra, ci fa uscire dal cantuccio angusto dell’ignoranza e della comodità, dalla fascinazione, dall’incantamento che esercitano su di noi gli slogan e i pregiudizi. Può bastare anche un viaggio breve come la mezz’ora che ci vuole per arrivare dalla frontiera al paesino dove abito per conquistare subito un punto di vista più ampio. In Svizzera italiana, per dire, il migrante sono io.
Le confesso, senatore, che la prima volta in cui ho sentito qualche esponente del suo movimento parlare di classi differenziali perché la vicinanza con bambini stranieri «non rallenti l’apprendimento» dei piccoli italiani, ho pensato alle sparate con cui le seconde linee del partito cercano talvolta di ritagliarsi un briciolo di visibilità, di mostrarsi più realisti del re, rendendo più efficace l’adulazione servile su cui costruiscono la propria carriera. Ora leggo invece che non si tratta d’una boutade ruffiana, ma che la Lega vuole effettivamente istituzionalizzare la discriminazione, rendere legge il pregiudizio, con l’alibi dei piccoli italiani frenati nell’apprendimento da bimbi di madrelingua straniera.
In Ticino, dove vivo e insegno, la presenza di alloglotti nelle classi è realtà da sempre. E non sono necessariamente figli di stranieri venuti qui a “rallentare” l’istruzione degli studenti svizzeri, anzi! Tali allievi sono molto spesso cittadini a pieno titolo. Sì, perché questo è un paese che ha quattro lingue nazionali – con le difficoltà e le sfide che ciò può comportare – ma che non pensa di risolvere tali problemi con i muri e gli steccati nelle scuole, bensì con l’integrazione, parola assai poco presente nelle esternazioni leghiste (forse perché non conquista titoli né consensi). Nella scuola del Canton Ticino, invece, il problema non è discriminare, separare, dividere. Ma casomai integrare e valorizzare le differenze, inserendo gli alloglotti nelle classi di italofoni nella consapevolezza che dal confronto tra lingue e culture scaturisce ricchezza, non ritardo.
Quante lingue parla Lei, senatore Bossi? Basta l’infarinatura di latino e di inglese che dà un qualsiasi liceo della Repubblica per rendersi conto di quanto la comprensione delle sfumature espressive dell’italiano s’arricchisca tramite la ricerca etimologica o il parallelo con altre strutture grammaticali e sintattiche. Immagini ora la ricchezza d’un paese che sin dalle medie insegna quattro lingue e i cui allievi possono confrontarsi con coetanei della più varia provenienza. In questi anni sono stato docente sia per alunni provenienti da altri cantoni, di madrelingua francese o svizzero-tedesca, sia per i figli di persone che hanno lasciato la terra d’origine per cercare lavoro o asilo e a cui la Svizzera non ha negato né l’uno né l’altro. Mi permetta una piccola rassegna delle varie nazionalità dei bambini e ragazzi a cui ho assai proficuamente insegnato lingua e letteratura italiana in qualche anno di professione e che – basta un’occhiata al registro per verificarlo – compongono il quadro delle normali classi ticinesi: spagnoli e portoghesi, croati, macedoni, serbi e altri della diaspora jugoslava, turchi e armeni, rumeni, albanesi e kosovari, brasiliani, colombiani e dominicani, ucraini, polacchi, russi, maghrebini, cingalesi.
E italiani, naturalmente.
Lei, nato a 30 km dalla frontiera e fervido ammiratore della Confederazione, dovrebbe saperlo bene: i primi stranieri ad arrivare qui siamo stati proprio noi italiani, con la nomea poco gradevole che ci portiamo dietro. E che non sta certo migliorando adesso. Prima però che Lei scatti con la denigrazione di “terroni” e mafiosi che tante volte ho letto sui manifesti e ascoltato ai comizi leghisti del Nordest dove sono cresciuto, lasci che le dica che a peggiorare la reputazione e l’immagine dell’Italia all’estero non sono le già tristemente note mafie meridionali, quanto piuttosto lo stillicidio di casi di discriminazione e persecuzione razziale che, con cadenza quasi quotidiana, rimbalzano sui giornali di qui e, ancor peggio, le farraginose giustificazioni con cui vari esponenti del suo partito (il ministro Maroni in primis) s’affannano a negare la componente razzista di delitti come l’omicidio di Milano. Magari, da quando sono partito, l’accezione italiana del termine “razzista” sarà mutata. Qui invece è rimasta la stessa e include ancora chi ammazza un ragazzo sprangandolo in testa al grido di «sporco negro!».
Comprende poi l’idea di schedare i bambini prendendo loro le impronte, o quella di inserirli in classi-ghetto magari di trenta studenti, come si sente dire riguardo al progetto di riforma della ministra Gelmini. E soprattutto senza italofoni con cui fare amicizia, giocare e imparare la lingua, nella quotidianità di un’infanzia che è e dovrebbe restare il bene più sacro da tutelare e non l’ennesimo territorio in cui rosicchiare ciniche rendite elettorali.

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