Per Saviano: condividere il rischio

by
di Carla Benedetti

 

Non basta dichiarare a Roberto Saviano solidarietà a parole, non basta lodarlo, non basta leggere in piazza pagine di Gomorra. Non basta nemmeno dire che egli è tutti noi. Ogni parola, anche sincera e intensa che noi possiamo pronunciare o scrivere in sua difesa o in sua lode è certo una cosa buona, ma non è proporzionale al rischio che egli sta correndo e continua a correre per aver osato sognare un paese diverso da questo, per aver avuto il coraggio e la libertà di appellarsi alla responsabilità civile e umana dei suoi concittadini. 

L’unica cosa proporzionata al suo fare è fare come lui. Perciò sottoscrivo la proposta di Giovanni Giovannetti. «Dieci cento mille scrittori, giornalisti e intellettuali che raccontino le pratiche e le culture mafiose nei luoghi in cui vivono, ognuno con gli strumenti a sua disposizione…. Sporcarsi le mani, condividere il rischio, praticare l’assunzione di responsabilità. Nel nostro piccolo, qualcuno di noi lo sta già facendo. Non potranno ucciderci tutti».

Sul blog del Primo amore abbiamo creato una categoria apposita. Si chiama «Condividere il rischio». Questo sito è  disposto a pubblicare le inchieste e gli articoli di chi vuole aderire a questa condivisione di rischio.

Vorrei anche che ci impegnassimo a promuovere un’iniziativa pubblica come quella che organizzammo a Milano tre anni fa assieme a Roberto, allora ancora un ignoto e coraggioso cronista-scrittore. Facciamo un secondo “Giornalismo e verità”, questa volta senza di lui, ma con lo stesso spirito, proseguendo e allargando il lavoro e inondando questo devastato paese con la sua stessa libertà e coraggio di prefigurare alternative all’esistente.  

Alla proposta di Giovanni vorrei però aggiungere una cosa,  provare a estenderla. La condivisione di rischio può andare più in là dell’inchiesta sulle mafie. Credo che anche chi non fa inchieste, anche chi si muove in altri ambiti e con altri strumenti  abbia un compito altrettanto cruciale. Perché il punto davvero importante è riuscire a prefigurare alternative all’esistente, avere la libertà e il coraggio di pensarle, con tutti gli strumenti che abbiamo a disposizione.

Saviano non ha fatto solo inchieste e denuncie. È anche riuscito a trasmetterci  il senso di un’intollerabilità per ciò che sta accadendo, e persino a farci sentire intollerabile la nostra stessa abitudine a considerarlo inevitabile. E su questo  possiamo tutti lavorare condividendo il suo rischio. Non è vero che siamo impotenti  di fronte a ciò che ci si presenta con il volto plumbeo e menzognero dell’ineluttabile. Non è vero che contro i poteri di morte che ci opprimono da ogni parte non si possa fare niente. «La paura è l’alibi maggiore» – scrive Saviano – e «non avere più paura non sarebbe difficile. Basterebbe agire, ma non da soli». Dalla possibilità che i suoi concittadini reagiscano, e con loro tutti gli italiani, mettendo in moto responsabilità civili e umane, riattivando energie buone ma a lungo sopite e represse, rigenerando forme di collettività e strutture di pensiero alternative, dipende ora la sua vita. Riuscire a lavorare in questa direzione vorrebbe dire fare qualcosa di proporzionale a ciò che egli ha fatto e continua a fare.

Vorrei tornare su questo argomento in un prossimo intervento, e spiegarmi meglio. Per il momento riporto le parole di Saviano dalla Lettera a Gomorra uscita su «Repubblica» del 22 settembre scorso: «Come abbiamo fatto a divenire così ciechi? Così asserviti e rassegnati, così piegati? […] Non posso credere che riescano a resistere soltanto pochi individui eccezionali. Che la denuncia sia ormai solo il compito dei pochi singoli, preti, maestri, medici, i pochi politici onesti e gruppi che interpretano il ruolo della società civile. E il resto? Gli altri se ne stanno buoni e zitti, tramortiti dalla paura? La paura. L’alibi maggiore. Fa sentire tutti a posto perché è in suo nome che si tutelano la famiglia, gli affetti, la propria vita innocente, il proprio sacrosanto diritto a viverla e costruirla. Ma non avere più paura, non sarebbe difficile. Basterebbe agire, ma non da soli. La paura va a braccetto con l’isolamento. Ogni volta che qualcuno si tira indietro, crea altra paura, che crea ancora altra paura, in un crescendo esponenziale che immobilizza, erode, lentamente manda in rovina. […] Chiedo alla mia terra se riesce ancora ad immaginare di poter scegliere. Le chiedo se è in grado di compiere almeno quel primo gesto di libertà che sta nel riuscire a pensarsi diversa, di pensarsi libera. Non rassegnarsi ad accettare come un destino naturale quel che è invece opera degli uomini. […] Bisogna trovare la forza di cambiare. Ora, o mai più».

Quello che segue è un passo di Simone Weil tratto da Prima radice. «Il rischio è un bisogno essenziale dell’anima. L’assenza di rischio suscita una specie di noia che paralizza in modo diverso da quanto faccia la paura, ma quasi altrettanto. […] La protezione degli uomini contro la paura e il terrore non implica la soppressione del rischio; implica invece la presenza permanente di una certa quantità di rischio in tutti gli aspetti della vita sociale; perché l’assenza di rischio indebolisce il coraggio al punto di lasciar l’anima, in caso di bisogno, senza la benché minima protezione interiore contro la paura. È necessario soltanto che il rischio si presenti in condizioni tali da non trasformarsi in un sentimento di fatalità».

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