prima parte
«I figli cadevano dal calendario / Jugoslavia Polonia Ungheria / I soldati prendevano tutti / E tutti buttavano via» (parole tratte da Khorakhanè, brano dell’album Anime salve): nel piccolo coro in ricordo dei gitani morti la voce di Fabrizio De Andrè si distingue per leggerezza e precisione. Ma di fatto, i “figli del vento” cominciarono a cadere molto prima del ciclone nazista. Gli zingari sono da sempre una razza perseguitata, periodicamente condannata ai campi nomadi, all’allontanamento, all’identificazione forzata. La loro è una storia infinita di persecuzioni, poco studiata e ancor meno conosciuta.
Con l’appellativo “zingari” sono designate quelle popolazioni nomadi provenienti dall’est, ma che affondano le loro radici nel territorio indiano: si è potuti risalire alle loro origini studiando la derivazione sanscrita della lingua zingara. Tra il XIV e il XV secolo le migrazioni dalla valle dell’Indo di queste popolazioni interessarono il continente europeo, toccando prima il mediterraneo orientale, poi tutta l’Europa centrale, in particolare la Germania, ma qui la permanenza per molti fu brevissima: ulteriori dispersioni portarono a insediamenti in Francia, Belgio, Italia, Spagna e in Nord Europa. La loro diffusione fu completa con la penetrazione, nel XVI secolo, in Scandinavia e Russia. Era un secolo di innovazione, in cui le scoperte geografiche giocarono un ruolo determinante nello scacchiere politico del vecchio continente. Gli zingari, nuovo e spinoso problema per le principali potenze europee, divennero oggetto di frequenti deportazioni nelle terre d’oltremare. Nonostante l’eccessiva dispersione e la disgregazione dei vincoli parentali, linguistici e sociali, la comunità zingara è riuscita a conservare nel tempo una propria unità ed una propria identità che prescinde dai confini geografici. Una coesione che eleva la comunità zingara a popolo senza territorio proprio ma con caratteri culturali comuni che la qualificano come minoranza transnazionale. Una minoranza particolare, la cui atipicità ed unicità risulta immediatamente riscontrabile anche dal problema legato alla sua corretta denominazione. In Italia il nome più diffuso è ancora oggi “zingaro”: sebbene l’origine di questo eteronomo sia piuttosto incerta, tale denominazione si è rapidamente diffusa in tutta Europa: in Francia si parla di “tsiganes”, in Germania di “Zigeuner”, in Svezia di “Zigenare”. In altri Paesi europei a prevalere è un’altra teoria etimologica che considera gli zingari come originari dell’Egitto: da questo derivano termini come “gypsies” in inglese o “gitanos” in spagnolo. La confusione linguistica cui tali definizioni hanno dato origine portarono ad un lungo dibattito per individuare un nome politicamente corretto che non offendesse la comunità zingara: l’orientamento comune è così caduto sulla parola “rom”. I “rom”, con i “sinti” ed i “kalé”, costituiscono il gruppo etnico più numeroso ed antico nel variegato e complesso panorama zingaro. “Rom” non significa altro che “uomo”: è un termine di origine indiana, ben accetto, per la sua natura non offensiva, dalla stessa comunità zingara.
Le comunità più numerose che mantennero il tradizionale modo di vivere nomade si costituirono in Jugoslavia, Romania, Ungheria, Germania, Francia, Italia, e soprattutto Spagna: nel corso dei secoli si sono fusi con le genti locali dando origine a gruppi misti sedentari o girovaghi. I Rom puri mantengono, però, inalterate le proprie usanze e tradizioni.
Nella storia i Rom furono sempre e comunque isolati dagli abitanti dei Paesi che attraversarono: questo accentuò il carattere indipendente e l’unità di stirpe di questo popolo e ne caratterizzò sempre più il modo di vivere da girovaghi. Nonostante siano genti pacifiche dallo spiccato senso dell’ospitalità, sono stati sempre trattati in modo ostile e spesso sono stati vittime di persecuzioni.
Su questa base, fatta di secoli di pregiudizi e persecuzioni, si instaura il nazismo, che ne costituisce l’atroce culmine.
L’olocausto è generalmente considerato un’esperienza esclusiva della comunità ebraica. Una convinzione rimasta per lungo tempo ben radicata nella memoria di molti a causa delle scarse informazioni legate all’analogo destino dei Rom: un popolo sempre perseguitato e, anche per questo, ignorato e dimenticato dalla memoria e dalla storia delle dittature nazifasciste.
Accusati, come gli ebrei, di invadere lo spazio vitale tedesco, i rom furono etichettati come il non plus ultra della regressione umana. Una credenza rafforzata da stereotipi centenari e da distorte considerazioni legate alle loro origini geografiche.
La matrice indo-europea degli zingari si rivelò inaccettabile per i teorici dell’arianesimo che individuarono, proprio nella stessa area geografica, la culla della mitica stirpe di Ario.
I rom, quindi, avevano la stessa origine geografica degli ariani. Per cancellare questo irriverente controsenso, il nazismo bollò i rom come «ariani decaduti» meritevoli di uno sterminio totale.
In questo scenario venne perpetrato il Porajmos, l’olocausto dei rom che costò la vita a più di cinquecentomila zingari sterminati dal fanatismo e dalla folle sete di conoscenza di numerosi pseudo-scienziati del Terzo Reich: vittime del nazionalsocialismo e dei suoi folli progetti di dominazione razziale.
Della storia dello sterminio degli zingari si sa molto poco, troppo poco: è una storia dimenticata e offesa dalla mancanza di attenzione di storici e studiosi. Ancora oggi la documentazione risulta frammentaria e la relazione dei fatti lacunosa. Normalmente si tralascia questa vicenda, o, nel migliore dei casi, se ne accenna in lavori che si occupano del Terzo Reich o dell’Olocausto in generale, includendo gli zingari fra le vittime per poi tralasciare cause e conseguenze della loro persecuzione. Eppure l’argomento dovrebbe suscitare interesse anche solo per il fatto che la persecuzione degli zingari in epoca nazista risulta essere l’unica, con quella ebraica, dettata da motivazioni esclusivamente razziali: proprio come gli ebrei, infatti, gli zingari furono perseguitati e uccisi in quanto «razza inferiore» destinata, secondo l’aberrante ideologia nazionalsocialista, non alla sudditanza e alla servitù al Terzo Reich, ma alla morte.
Ma proprio questo è il nodo centrale del problema. Per molto tempo dopo la guerra, infatti, lo sterminio nazista degli tzigani non è stato riconosciuto come razziale ma lo si è considerato conseguenza, in un certo senso anche ovvia, di quelle misure di prevenzione della criminalità che, naturalmente, si acuiscono in tempo di guerra. Una tesi che trova fondamento nella definizione di «asociali» con la quale, almeno nei primi anni del potere hitleriano, gli zingari erano indicati nei vari ordini e decreti che li riguardano. Ma la terminologia nazista non è sempre esplicativa dei fatti: in questo caso il termine «asociale» viene usato per indicare coloro che, per diverse ragioni, non sono integrabili o omologabili col nuovo ordine nazionalsocialista. Gli stessi ebrei nei primi tempi venivano deportati e registrati come «asociali». È sulle ragioni di questa «asocialità» che bisogna indagare.
In realtà gli zingari furono perseguitati, imprigionati, seviziati, sterilizzati, utilizzati per esperimenti medici, gasati nelle camere a gas dei campi di sterminio, perché zingari e, secondo l’ideologia nazista, «razza inferiore» , indegna di esistere. La pericolosità – o asocialità – tzigana non era, infatti, assimilabile a quella degli altri individui perseguitati per ragioni di ordine pubblico. Gli zingari erano «geneticamente» ladri, truffatori, nomadi: la causa della loro pericolosità era nei loro geni, nel loro sangue, che li rendeva «irrecuperabili» condannandoli quindi allo sterminio, alla cosiddetta “soluzione finale”.
Va comunque tenuto presente che, sebbene le fonti siano scarsissime, basate soprattutto su testimonianze orali, almeno per ciò che riguarda il nazismo (grazie soprattutto all’impegno della studiosa ebrea Miriam Novitch, che dedicò gran parte della sua vita a raccogliere documenti sullo sterminio del popolo Rom), esiste oggi una documentazione sufficiente a dimostrare che gli zingari sono stati fra le vittime dello sterminio razziale e che almeno 500.000 di loro sono morti nei Lager, dopo essere stati imprigionati, torturati e violentati come tutti gli altri prigionieri. Altri sono stati uccisi nelle esecuzioni di massa nei Paesi dell’Est, ma su questo i dati sono davvero scarsissimi.
Non si può invece parlare di ricerca per quel che riguarda l’Italia, dove le conoscenze sulla persecuzione degli zingari durante il fascismo sono poche e contraddittorie e si basano quasi esclusivamente sulle testimonianze raccolte nel dopoguerra da pochi studiosi che si sono occupati della deportazione degli zingari, senza mai ricevere la dovuta attenzione: tra di essi spicca la figura di Mirella Karpati, del Centro Studi Zingari, che ha raccolto quasi tutta la documentazione orale oggi disponibile. I dati storici raccolti ad oltre cinquant’anni dai fatti sono scarsi, tanto da non permettere ancora di stabilire con certezza come e quanto gli zingari siano stati perseguitati nell’Italia fascista e per quali ragioni. Un’altra studiosa che, negli ultimi anni, si è occupata molto della questione tzigana, pubblicando numerosi articoli su riviste come “Triangolo Rosso” e “Studi Storici”, è Giovanna Boursier.
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