di Nicola Signorini
seconda parte
L’area Snia non è nuova alla presenza di persone che, non potendosi permettere una sistemazione, trovano trai suoi ruderi un’alternativa a panchine e aree verdi. Ho saputo infatti, dopo il mio arrivo a Pavia, che prima dell’arrivo degli ‘zingari’ l’area era occupata da senegalesi, e prima ancora marocchini e albanesi. Quasi tutti extracomunitari, i nuovi poveri.
Il caso Snia
Nell’arco degli ultimi quattro anni arrivano 61 famiglie rumene, quasi totalmente di ‘etnia’ rom ed occupano l’area dismessa dell’ex Snia. Queste famiglie, provenienti dalle regioni meridionali della Romania di Craiova e Slatina, presentano a mio parere almeno due tratti in comune con i migranti italiani del Novecento: da un lato costrette a migrare per fame dopo il crollo di un sistema che, pur non avendole mai adottate, le abbandona a se stesse nel mezzo di una crisi economica galoppante, dall’altro costrette a lottare contro lo stereotipo della paura del diverso, e più specificatamente dello straniero, fortemente radicato tra la popolazione italiana.
Il diverso
La paura della diversità fonda le sue radici nella concezione, peraltro errata, che gli esseri umani si dividano biologicamente in diverse razze. Nel corso dei secoli sono innumerevoli gli studiosi che hanno cercato di dimostrare la diversità delle razze in base a categorizzazioni basate su caratteri fisici prima, come ad esempio il colore della pelle, e su presunte differenze a livello psico-genetico poi. In effetti, come ricorda Giddens, «differenze di aspetto tra una persona dalla pelle molto scura, i capelli molto ricci e le labbra grosse e una dalla pelle chiara, i capelli lisci o ondulati e le labbra sottili potrebbero suggerire l’esistenza di fondamentali differenze di costituzione antropologica». In realtà lo sviluppo genetico ha dimostrato come queste differenze di tipo somatico, non corrispondano a differenze più profonde di tipo psichico, e non abbiano nessun tipo di influenza sulle potenzialità di sviluppo cognitivo di un essere umano.
Nonostante questo, è sulla base di queste teorie assolutamente errate e prive di fondamento scientifico che si sviluppa l’ideologia razzista. «Razzismo, significa attribuire, senza alcun fondamento, caratteristiche ereditarie di personalità o di comportamento a individui con un particolare aspetto fisico. Chiamiamo razzista chi crede che l’attribuzione di caratteristiche ereditarie di personalità o di comportamento a individui di una determinata razza abbia una sua spiegazione biologica». (Antony Giddens, Sociologia, Il Mulino 1994, p. 259)
Modalità di sviluppo
Mi sembra importante chiarire bene altri due concetti piuttosto significativi, non solo per lo sviluppo degli avvenimenti pavesi, ma anche in relazione al quadro socio-politico, ed alle linee guida che, proprio nei giorni in cui mi trovo a scrivere la tesi, il governo italiano sta tracciando in materia d’integrazione di quei soggetti maggiormente esposti al rischio di naturalizzazione di percezioni stereotipate a causa della loro età e sensibilità, i bambini.
In particolare, riprendendo ancora Giddens, mi interessa tracciare la differenza tra il concetto di ‘pregiudizio’ e quello di ‘discriminazione’. Mentre il primo può essere definito come un insieme «di opinioni e atteggiamenti da parte di membri di un gruppo sociale verso gli appartenenti ad un altro gruppo, la discriminazione è relativa al comportamento effettivo verso gli appartenenti ad un altro gruppo sociale». Ancora, se il pregiudizio, basato normalmente su conoscenze incomplete, errate o parzialmente inesatte, e comunque non sull’esperienza diretta, si presenta nella maggior parte dei casi come talmente radicato da risultare ineliminabile, anche di fronte a nuovi elementi di informazione relativi al gruppo sociale in oggetto, «la discriminazione concerne [l’insieme di] comportamenti che portano ad escludere i membri di un dato raggruppamento dalle opportunità riservate agli altri».
Se possiamo affermare con certezza che il pregiudizio è condizione necessaria per lo sviluppo della discriminazione, è altresì possibile che il primo non sfoci necessariamente in essa. Ovvero, posso avere dei pregiudizi su qualcuno, ma non è necessariamente detto che io agisca in maniera discriminante verso di esso.
In Italia, il problema della discriminazione si sviluppa attraverso un panorama storico significativo all’interno del quale spicca per tragicità l’emanazione delle leggi razziali del 1938 e la politica violenta e brutale del regime fascista. In realtà esse rappresentano soltanto la punta dell’iceberg. In particolare, relativamente ai popoli ‘zingari’, testimonianze di rapporti difficili si hanno già nella prima metà del 1400, e nascono all’interno di quel contesto che Piasere chiama «modello occidentale: quello che prevede il divieto ai rom di inserirsi nelle strutture socio-economiche locali, salvo un loro previo annichilimento identitario». (Leonardo Piasere, I rom d’Europa, Laterza 2004, p. 46)
Anna Maria Rivera focalizza il problema dell’integrazione/immigrazione in Italia nella sua analisi della differenza tra ‘stranieri’ e ‘immigrati’. La Rivera individua almeno due fattori concomitanti, che a mio avviso stanno alla base di quello che non riesco a definire con altro termine se non quello di ‘neorazzismo italiano’.
In primo luogo, la tendenza diffusa a considerarsi come un paese di emigranti, anche quando il periodo di migrazioni (interne ed esterne) era largamente terminato, e l’Italia era entrata a tutti gli effetti all’interno della parte occidentale, industrializzata e ricca del pianeta, ha sempre portato a crederci immuni dall’essere discriminanti, proprio in quanto discriminati. Questo ha contribuito ad un ritardo significativo nel processo di accettazione del fenomeno ‘immigrazione’ e alla sua natura di parte costitutiva della realtà sociale. In secondo luogo, il mito tutto italiano di un colonialismo meno crudele e razzista di quello praticato dagli altri stati, ha contribuito a nascondere «le tracce di un razzismo coloniale non dissimile da quello di altri paesi europei [emerso poi nel] la vicenda dell’Albania e soprattutto nell’affaire di Somalia».
Inoltre, se dal punto di vista legislativo, la prima regolamentazione risale al 1987, quando «gli immigrati erano già socialmente presenti e visibili», la stampa dal canto suo non è estranea al ritardo generalizzato di reazione/accettazione, ma non solo. Infatti, dalla totale mancanza di notizie relative ad un fenomeno che ormai riguardava la realtà sociale dell’intero paese, si è passati ad una vera e propria drammatizzazione sia in termini quantitativi che qualitativi.
La percezione distorta del fenomeno, sfruttata regolarmente da partiti politici e gruppi d’opinione, è a mio parere concausa a tutti gli effetti di nutrimento e sviluppo della visione negativamente stereotipata dell’immigrato, ed ha contribuito ad alimentare nell’opinione pubblica la ‘sindrome da assedio’ sfociata nelle ideologie neorazziste proclamate da gruppi come Forza Nuova e Lega Nord, la quale può infatti vantare 60 parlamentari su un totale di 340 nella coalizione di maggioranza dell’attuale governo in carica.
«L’uso dei mezzi di comunicazione
implica la creazione di nuove forme di azione e interazione nel mondo sociale»
John B. Thompson
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