Informazione zingari pregiudizio

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Il caso Pavia

di Nicola Signorini

terza parte

 


Ritengo opportuno sottolineare che non è mia intenzione entrare nello specifico dell’analisi semiotica del testo giornalistico, anche per limiti di spazio, ma ritengo comunque che essa abbia rappresentato un ottimo metodo, utile ad una conseguente riflessione sociologica sul ruolo dei mezzi d’informazione, in relazione alla costruzione sociale della discriminazione nel contesto d’analisi. Non ho potuto fare a meno di notare come in questo caso appaia significativo che «diventa notizia ciò che per i media è notizia».

 A proposito di media

Le mie considerazioni sul ruolo svolto dai media (relativamente alle modalità di presentazione del problema ‘immigrazione’) soprattutto nella questione pavese, ma anche a livello nazionale, ed in particolare al fatto che abbiano costituito una delle componenti all’interno di un processo d’influenze reciproche assieme allo stereotipo negativo – molto radicato, specialmente, ma non solo, nelle regioni del nord Italia – del diverso, condizionando l’opinione pubblica, nascono da riflessioni sull’utilizzo del linguaggio maturate dal sopraccitato studio della Rivera, e dal lavoro di Giuseppe Faso Lessico del razzismo democratico – Le parole che escludono (DeriveApprodi 2008).

La Rivera sottolinea infatti come il termine ‘immigrato’ non sia neutro, ma anzi permetta una sorta di fusione tra  connotazioni ‘etniche’ ed uno status sociale, quale l’appartenenza ad una classe, con un risultato ‘stigmatizzante’, ed uno sbilanciamento che favorisce «l’utilizzo del termine [stesso] in relazione ad una condizione sociale più che ad uno status giuridico». A conferma di questa tesi mi pare opportuno riflettere, per esempio, sul fatto che esistano stranieri che nessuno di noi considera ‘immigrati’, ovvero l’insieme di quelle persone provenienti dai paesi occidentali come Stati Uniti, Inghilterra, Svizzera, eccetera, residenti in Italia. Inoltre, il termine viene comunemente associato ad irregolare e clandestino, creando una sorta di ridondanza socio-semantica relativa a condizioni di abusività, marginalità e di illegalità.

Quest’ultima classificazione contribuisce, come se di fatto non fosse già così, al «processo di esclusione reale e simbolica. Tale esclusione giova a perpetuare la debolezza sociale degli immigrati, la loro ricattabilità, dunque la convenienza economica in quanto forza lavoro [nonché] ad eludere l’onere di realizzare e rendere effettive le politiche sociali […] ad avere a disposizione un capro espiatorio su cui concentrare tensioni e conflitti, da utilizzare al momento opportuno per campagne all’insegna di law and order».

Mi sembra significativo che in un lavoro del 1997 (ormai 11 anni fa) si sottolinei come la figura dell’immigrato si formi quasi esclusivamente in relazione a quelle categorie di persone più marginalizzate ‘come i lavavetri’, quando  iniziative anti-bivacco, anti-accattonaggio ed ‘anti-lavavetri’ erano ancora ben lontane dall’essere partorite dalle menti di varie amministrazioni comunali italiane.

 

Lessico e socialità

Il lavoro di Giuseppe Faso è rappresentato da una raccolta di parole: «le parole che escludono». Nasce all’interno dell’inserto mensile “Percorsi di cittadinanza” dell’Anci Toscana  che a partire dal 1998 si propone di «aprire uno spazio d’incontro e di confronto fra istituzioni e associazioni, per favorire lo scambio di buone pratiche, per avanzare osservazioni e critiche rispetto alle leggi e ai provvedimenti emanati a livello regionale e nazionale» [in materia di immigrazione, cooperazione e pace]. Fin dall’inizio si rende manifesta la necessità di prendere in considerazione l’aspetto del linguaggio, per capire attraverso quali termini media, politica e, non ultime le persone comuni, stigmatizzassero la figura del migrante. Nascono così le rubriche “Le parole che escludono” prima e “Le parole non sono innocenti” poi. Il lavoro da cui ho preso spunto è una raccolta di cinquanta parole facenti parte delle suddette rubriche.

A proposito del ruolo dei media, ed in relazione alle realtà sociali richiamate dal concetto di ‘cittadinanza’, in Faso trovo un incipit che pare ‘calzare a pennello’. Parte infatti dalla tipologia di presentazione delle notizie sui media in relazione agli interventi delle forze dell’ordine nelle situazioni che presentano disagio sociale:

«I carabinieri attuano uno dei loro interventi – ormai regolarmente definiti blitz. La scelta è tra l’insediamento ‘nomade’, la ditta ‘cinese’. […] Segue descrizione stereotipata delle condizioni di vita di chi ha subito il blitz. […] Conclude il tutto un’intervista al sindaco che ringrazia le forze dell’ordine per la brillante operazione e si auspica che se ne facciano altre, per la difesa della ‘nostra’ civiltà».

In cronaca su “La Provincia Pavese” del 17/5/07 si legge: «Area Ex-Snia, scatta il blitz nelle baracche». L’articolo non corrisponde allo schema proposto da Faso, infatti si sviluppa dando La Provincia Pavese. 17 maggio 2007la parola a più riprese al questore Vincenzo Montemagno il quale spiega che l’azione è motivata dalla necessità di «verificare la posizione amministrativa di cittadini comunitari ed extracomunitari in relazione alla recente normativa di allontanamento di stranieri privi del permesso di soggiorno, [ed] identificare l’eventuale presenza di persone dedite alla commissione di delitti». Possiamo però notare un’altra peculiarità che, a mio parere, svolge una funzione ancor più stigmatizzante. Accanto all’articolo in questione troviamo altri due ‘trafiletti’. Il primo riguarda l’arresto di due bulgari  (non residenti all’ex-Snia ma a Cura) arrestati per possesso di armi e sostanze stupefacenti. Nel secondo – titolato «Fu costretta a prostituirsi. Manette a 2 connazionali» – il giornalista ci spiega che il blitz è «anche servito per arrestare  due romeni che, alcuni mesi fa, avevano picchiato selvaggiamente una connazionale che non voleva più prostituirsi». Peccato che se continuiamo a leggere l’articolo veniamo a sapere che, mentre un primo soggetto era stato fermato precedentemente, i due non erano più residenti alla Snia, e quindi non presenti il giorno del blitz, ma vengono identificati ed arrestati  a Casanova Lonati. Dunque, la mancanza di connessioni tra i due avvenimenti (il blitz e l’arresto) contraddicono ciò che sostiene il giornalista all’inizio dell’articolo.

La mia conclusione è che, senza pretesa di adesione totale al sacro principio del giornalismo americano di telling the truth, e consapevole che «quello della verità giornalistica è un concetto astratto e relativo» (Alberto Papuzzi, Professione giornalista, Donzelli 2003, p.240), in questo caso il gap tra veridicibilità e notizia mi sembra sbilanciato in favore di una precisa chiave di lettura. Lungi dal voler prendere le difese di persone coinvolte in comportamenti illegali, quali la prostituzione e lo spaccio di sostanze stupefacenti, che ritengo vadano puniti attraverso tutti gli strumenti legali del caso, mi voglio soffermare sul valore comunicativo e sull’impatto visivo che questo tipo di costruzione della pagina ha sul lettore.

L’accostamento dei tre articoli, infatti, contribuisce ad alimentare lo stereotipo immigrato (in questo caso rumeno) = delinquente, rientrando nel quadro descritto dalla Rivera relativamente alla distinzione tra ‘stranieri’ e ‘immigrati’. Questo, dice Faso, determina una sensazione di «inassimilabilità rispetto ad una civiltà del noi». Nessuno però ritiene necessario sottolineare che le condizioni preliminari a queste situazioni di vita ai margini sono create proprio dalla nostra civiltà. I cittadini che lavorano in condizioni ai limiti dell’umanamente possibile, e che nella maggior parte dei casi vivono anche oltre, lo fanno per i nostri profitti e i nostri consumi, da noi come nel loro paese, per imprenditori che spesso, siamo nuovamente noi.

Riguardo allo specifico caso, da una ricerca dell’ICE, su dati dell’Istituto Statistico Nazionale della Romania, emerge che l’Italia già nel 2002 si collocava al primo posto tra i paesi che intrattengono relazioni commerciali dalla Romania con il 25 per cento sul totale delle esportazioni, e il 15 per cento delle importazioni.

Ed è proprio il radicamento di questa ‘civiltà del noi’, sostiene Faso, che entra in gioco tutte le volte che «leggiamo sulle cronache che si sta difendendo la ‘nostra sicurezza’: ‘nostra’ di chi? Chi è fuori del ‘noi’? Chi vuol condividere la responsabilità linguistica e morale di ridurre la sicurezza a merce a cui hanno accesso alcuni privilegiati (‘noi’) e che è minacciata invece da altri (‘loro’)?»

 

«I governi dei paesi ricchi da anni cercano di convincere la popolazione attiva

a rassegnarsi alla precarietà,

 alla discontinuità, alla flessibilità.

 Dagli immigrati si pretendono stabilità e regolarità di lavoro o di reddito,

 pur sapendo che la domanda di lavoro immigrato

proviene in gran parte dall’economia sommersa»

 

Anna Maria Rivera


Come ho già detto, ho notato come in questo caso sia molto veritiero il detto ‘diventa notizia ciò che per i media è notizia’. La teoria dell’agenda setting è un tema trasversale che si impone tanto agli studiosi di sociologia della comunicazione, quanto alle discipline più prettamente giornalistiche. È risaputo che all’interno di una redazione viene svolto un procedimento di selezione delle notizie in relazione ai cosiddetti news value, una serie di criteri che possiamo classificare in relazione alle esigenze di redazione da un lato, ed in relazione al pubblico di lettori dall’altro. Non posso però non essere colto da alcuni dubbi, a causa dell’alta frequenza di notizie relative alla questione rom-Snia, anche in relazione alle teorie di Herbert Gans riguardo la possibilità che «dietro la selezione si profili un universo di messaggi idologici, che fanno implicitamente privilegiare la notiziabilità di un certo fatto perché consente di trasmettere al pubblico un determinato messaggio». (Papuzzi 2003, p.26)

In ultima istanza la soggettività del giornalista, i suoi interessi, il background culturale ed esperienziale e le sue ideologie politiche, concorrono anch’esse ad influenzare il processo di selezione e quindi l’agenda. Ritengo sia interessante, oltre l’analisi giornalistica, cercare di capire in che modo, una volta che l’avvenimento è diventato notizia, entri in relazione con i comportamenti degli individui e dei soggetti sociali, e quanto peso acquisti in questo processo la decisione che lo ha reso tale.

 

(3/5 segue)

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