Edward O. Wilson è un entomologo di fama planetaria e, con Bert Hölldobler, è autore di Formiche (Adelphi, 1997) un libro affascinante in cui si esploravano le colonie, gli habitat, il sistema di comunicazione basato su segnali chimici, le strategie belliche, l’organizzazione sociale di una delle creature più antiche e perfezionate della Terra.
La creazione (Adelphi, 2008) non è però una versione aggiornata di quel volume e neppure un manuale scientifico rigoroso ma iperspecialistico. Wilson adotta invece la forma, di sapore illuminista, della “Lettera aperta” per fare il punto sullo stato della specie più tenace e insieme dannosa di tutta la biosfera, l’homo sapiens. Il mirmicologo americano sceglie come interlocutore un ipotetico pastore della Chiesa Battista del Sud, non per un intento polemico verso le istituzioni confessionali ma per la consapevolezza che un ipotetico dialogo fra Scienza e Religione potrebbe essere il punto di svolta per invertire la rotta di sterminio ambientale e di estinzione intrapresa dall’umanità. La superficiale sottovalutazione di questo rischio può partire da premesse secolari («non cambiamo rotta: il genio umano troverà un rimedio») o fideistiche («non cambiamo rotta: Dio troverà un rimedio») ma il risultato è identico: la corsa cieca verso la catastrofe.
L’analisi di Wilson profonde un’enorme quantità di dati e documentazione a riprova di tale pericolosa parabola ed è impressionante che le uniche confutazioni siano di tipo “esenzionalistico”. L’homo sapiens, si dice, è assurto al ruolo di specie dominante e quindi gode di una sorta di status privilegiato.
La scienza ha abbondantemente dimostrato che la Terra ha conosciuto cinque estinzioni di massa nell’arco degli ultimi 500 milioni di anni (l’ultima, 65 milioni di anni fa, concluse l’Era dei Rettili aprendo la strada al dominio dei mammiferi). Il sesto processo di estinzione è in atto ora e si articola tra due fuochi altrettanto esiziali: da una parte abbiamo infatti innescato una sovrappopolazione fuori da ogni controllo. È stimato che la popolazione mondiale potrebbe arrivare a nove miliardi entro fine secolo, con una crescita del 50 per cento in soli 100 anni. Dall’altra assistiamo indifferenti a una riduzione esponenziale delle specie che popolano la biosfera: «Nel corso delle ere geologiche», illustra Wilson: «il tasso annuo di estinzione è stato di una specie su un milione ed era compensato da un uguale tasso di formazione di nuove specie. L’attuale ritmo di estinzione – considerate anche le specie ormai prossime a estinguersi – è almeno 100 volte superiore al tasso di comparsa di specie nuove» e accelererà col definitivo annichilimento di molti ecosistemi già irreparabilmente compromessi (si pensi solo al prosciugamento delle riserve d’acqua dolce del pianeta: nei prossimi venti anni il 40 per cento dell’umanità rischia di vivere in paesi in condizione di cronica penuria d’acqua). Oltre alla distruzione degli habitat, i fattori che congiurano a distruggere la biodiversità della terra sono, ovviamente, l’inquinamento, lo sfruttamento eccessivo e, soprattutto, la sovrappopolazione planetaria.
Con un’immagine suggestiva ed efficace, Wilson parla del peggiore «spasmo di estinzione dalla fine del Cretaceo». Circa dieci milioni di anni è stato il tempo necessario a far ripartire la spinta evolutiva dopo ciascuna delle grandi estinzioni sulla Terra, un tempo che l’homo sapiens non si può permettere.
La creazione concede spazio anche ai critici dell’ambientalismo, coloro che, nella crisi in cui annaspa il sistema, trovano insensato preoccuparsi di qualche erbaccia o di una manciata di insetti Bastano però pochi esempi per capire per quali motivi la distruzione di specie note e di altre ancora ignote concorre a precipitare la razza umana verso l’estinzione: senza insetti impollinatori gran parte delle piante da fiore e da frutto non potrebbe riprodursi, una scomparsa che coinvolgerebbe molti uccelli. Gli insetti (non i lombrichi, come si crede comunemente) con i loro movimenti sotterranei sono responsabili ancora del rivolgimento dei terreni, della ricchezza dell’humus e dell’abbondanza dei raccolti. Tra le piante che sopravvivrebbero alla scomparsa degli insetti impollinatori ci sono quelle anemofile, che affidano cioè le possibilità di riproduzione al vento, come i cereali. Ma in un sistema di approvvigionamento così limitato e precario, basterebbero poche annate grame per innescare una spirale di carestie e furiosa lotte per le risorse…
Chi pensa che l’uomo sia esente da preoccupazioni o liquida la problematica ambientalista come l’ossessione di visionari preoccupati di animaletti la cui esistenza ci è indifferente, dimentica o, meglio, rimuove una considerazione molto semplice. Non esiste per ora, né si intravede a breve, un altro ambiente che possa contenere la specie umana e consentirle di proseguire la sua esistenza al di fuori del pianeta Terra, inteso però nella sua pienezza, nella ricchezza articolata e complessa della biomassa che la popola. Per dirla con Wilson: «solo la natura può funzionare come arca planetaria».
La biodiversità, che noi uomini non abbiamo ancora finito di esplorare, è la più preziosa delle nostre risorse e la corsa contro il tempo che dobbiamo intraprendere per salvarla e invertire la tendenza attuale, ci dà un margine ristrettissimo: nel giro di appena 50 anni rischiamo infatti di impoverire la terra di un quarto delle specie esistenti.
Rimane allora qualche spiraglio di luce in un quadro tanto fosco? Wilson ne elenca alcuni, molto concreti. A cominciare dal fatto che gli ultimi decenni di studi sulle specie e sulla biodiversità forniscono gli elementi necessari a mettere in atto piani articolati di salvataggio. Tanto che è possibile formulare dei preventivi di spesa che, contrariamente alla vulgata corrente, non prevedono stravolgimenti del sistema finanziario o colpi mortali all’economia di mercato. Per tutelare i 34 punti maggiormente a rischio del pianeta nonché i nuclei superstiti di del bacino forestale amazzonico, del bacino congolese e della Nuova Guinea servirebbe un unico finanziamento di circa 30 miliardi di dollari. Un’erogazione una tantum che, appaiata a politiche d’investimento sensate, porterebbe a tutelare il 70 per cento della flora e della fauna di tutti i continenti. È una cifra folle? Ammesso e non concesso che una somma spesa per salvare la vita della nostra specie possa essere definita “eccessiva”, questi 30 miliardi «rappresentano approssimativamente un millesimo del prodotto lordo mondiale di un anno». Questo per le terre emerse; e i mari? Anche qui è stato calcolato che una rete di riserve pari al 20-30 per cento della superficie oceanica sarebbe realizzabile con una cifra compresa tra i 5 e i 19 miliardi di dollari all’anno (si consideri che l’industria della pesca mondiale, responsabile del rischio-estinzione per numerose specie marine, riceve annualmente finanziamenti tra i 15 e i 30 miliardi di dollari).
Le possibilità dunque ci sono o, perlomeno, ci sono ancora. Serve allora un imperativo categorico, uno smottamento di valori che non può essere solo la presa di coscienza che giunge dalla lettura dei rapporti ONU o di libri stimolanti come il volume di Wilson. L’esigenza di salvaguardare la Creazione deve venire dal profondo, da quello che Jung avrebbe chiamato lo strato dell’inconscio collettivo. Per questo Wilson chiama in causa la Religione, una delle esigenze ctonie e basilari dell’essere umano, dalla quale potrebbe senz’altro arrivare l’impeto ideale e sovrarazionale a salvare il pianeta e noi con esso. È qui però che La creazione inciampa in un’aporia strutturale. Pare infatti utopico e persino un po’ facile pensare che quell’unione animista tra uomo e natura, tra il fedele e il suo ambiente, che troviamo nelle religioni primigenie e che pone sullo stesso livello di eguaglianza le creature rispetto alla prodigiosa incombenza di un Creatore possa essere rimessa a fuoco nel seno delle moderne confessioni (siano esse una le varie sfaccettature della diaspora protestante oppure il pensiero massificato del cattolicesimo contemporaneo). Servirebbe forse rileggere la junghiana Vita simbolica. (1939) per intuire come sia irrimediabilmente trasformato il rapporto dell’uomo con la spiritualità e come, nelle religioni della modernità, quel cordone ombelicale tra uomo e natura sia stato resecato, concentrando l’attenzione sull’unica creatura fatta a immagine e somiglianza di Dio e, proprio per questo, degna di signoreggiare senza limiti o cautele sul resto del creato. Oppure quel lungimirante passo di Sanare la frattura (1961) dove Jung constatava: «Le grandi religioni mondiali soffrono di una crescente anemia poiché i numina soccorrevoli hanno abbandonato boschi, fiumi, montagne e animali. […] “Abbiamo dominato la natura” non è che uno slogan e il cosiddetto dominio della natura si ritorce contro di noi, in primo luogo col fenomeno naturale della sovrappopolazione». Nume Wilson ha certamente ragione: il pianeta e la specie umana devono essere salvati dall’autodistruzione. Ma non basteranno a questa impresa immane la coscienza civica o la voglia di informarsi; è necessario andare oltre, attingere a territori inesplorati, suscitando un impulso potente, che scuota fin dal sottosuolo le nostre certezze e ci costringa a volgere irresistibilmente lo sguardo verso prospettive diverse e inesplorate. Non è tuttavia dalla religione dei pastori statunitensi o dei pontefici tedeschi che possiamo aspettarci tale rinnovamento, ma casomai da un sussulto di immaginazione, da un’idea davvero nuova in grado di sovrapporsi alle quelle visioni che hanno perso ogni traccia di numinoso e sopravvivono a sé stesse, abbarbicate in difesa delle proprie rendite di posizioni, incancrenite in mere battaglie di retroguardia.
18 dicembre 2008 alle 22:41 |
Condivido l’appello. L’argomento è molto simile a quello del volume “La sesta estinzione” di Leakey e Lewin, ugualmente allarmante.
Roberta S.