Le bugie automatiche

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“Enlightening Encounters” Convegno di studi 13-14 marzo 2009
Università di Warwick
Italian Literature and Photography Through Time
di Giovanni Giovannetti

Per un momento ho pensato di titolare questo intervento «alla faccia vostra», ma sarebbe apparso irriguardoso nei confronti dei tanti scrittori – studiosi, narratori, poeti – che guadagnano in diritti molto meno di quanto percepisco io vendendo ai giornali le loro impronte ottiche. Ma c’è un modo per tornare poveri: mettersi a fare l’editore, e pubblicare libri di poesia.
Da qualche anno Effigie non è più solo una agenzia fotogiornalistica specializzata nel ritratto letterario; è anche casa editrice di nicchia, con una cinquantina di titoli in catalogo e collane dedicate – oltre che alla poesia – alla narrativa italiana e straniera, al reportage, alla storia, al viaggio e all’educazione. Uno dei motivi unificanti delle nostre edizioni è il dialogo tra i linguaggi, in particolare tra la fotografia e la scrittura saggistica e creativa.
Questa breve presentazione serve a introdurre il disincantato rendiconto professionale di chi – come il sottoscritto – ha passato più di un terzo della sua vita a far marchette per i giornali o, se preferite, a esibirsi in una lombrosiana “catalogazione dei tipi” delle  letterature mondiali, cimentandosi in campagne fotografiche per aree linguistiche e geografiche, obbligandosi a presenziare a festival e fiere del libro, non mancando mai o quasi mai l’appuntamento con l’autore in Italia per un premio o in tour promozionale…  Insomma, una avveduta operazione commerciale, della quale il valore culturale d’insieme (l’archivio comprende i ritratti posati di oltre 10 mila autori) è sostanzialmente un sottoprodotto.
Ringrazio gli organizzatori e -in particolare- la gentile signora Alu, che già un anno fa si è data la pena di invitarmi al convegno. Detto questo proseguo, in equilibrio sulla fune che collega la mia personale autobiografia a trent’anni di storia del fotogiornalismo italiano.

La fase dell’innocenza

Da ragazzo mi ero illuso che la fotografia potesse rappresentare una forma di militanza politica: stare dalla parte dei proletari come mio padre e dei marginali. Raccontare le loro storie era un imperativo morale per alcuni di noi, giovani o giovanissimi e tanto ingenui fotografi degli anni Settanta, con in una tasca “Lotta continua” o “Il quotidiano dei lavoratori” e nell’altra “Progresso fotografico” o “Fotografia italiana”, maldestramente convinti che fosse possibile svolgere un ruolo all’interno del sistema dell’informazione. La fase dell’innocenza coincide con l’idea che andasse praticata una fotografia interna alla classe, che raccontasse i movimenti e i conflitti sociali, che desse una rappresentazione del lavoro dentro e fuori la fabbrica dal punto di vista delle maestranze, nonostante l’ambigua doppiezza della fotografia, doppiezza macroscopica in libri come Cinque anni a Milano (1973) di Uliano Lucas che, da un lato, era la bella istantanea di gruppo del movimento antagonista milanese e, dall’altro, in parallelo, si rivelò uno strumento di identificazione e repressione giudiziaria. Così avviene nelle indagini sull’omicidio Calabresi e gli interrogatori del “teste” Leonardo Marino:

«Nei suoi interrogatori di fine luglio, con Lombardi e Pomarici, Marino faceva un identikit del suo “basista”, allora un signor nessuno. Poi, un giorno, gli danno in mano un libro fotografico di Uliano Lucas, Cinque anni a Milano. E a pagina 112 spunta la foto di un corteo di Lotta Continua a Milano. Al centro, un giovane barbuto. Dirà Marino: “Mi sembra di riconoscere nella persona raffigurata il Luigi che mi ospitò prima dell’omicidio Calabresi”» («L’Espresso», 19 febbraio 1989, p. 19).

Marino si era autoaccusato dell’omicidio Calabresi, chiamando a correi Ovidio Bompressi, Giorgio Pietrostefani e Adriano Sofri, poi condannati; «Luigi» si rivelerà del tutto estraneo ai fatti. Ma l’episodio fa capire come anche le fotografie che la classe autoproduce diventano fotosegnaletiche nelle mani sbagliate. Lo sapevano bene i partigiani, che l’avevano bandita: molte immagini sulla lotta di liberazione sono ricostruzioni avvenute dopo il 25 aprile. Questo argomento è ampiamente trattato da Adolfo Mignemi in Storia fotografica della Resistenza (1995).

La disinformazione illustrata

In un giornalismo come quello italiano, tradizionalmente legato alla parola scritta, mancavano cultura e sensibilità per l’immagine (anche nella stampa della sinistra storica e rivoluzionaria). Col passare del tempo le cose non sono migliorate: buona parte dello spazio su giornali e riviste è oggi sì destinato alle immagini, ma a quelle pubblicitarie; le altre, semplicemente, non devono disturbare.
Nonostante alcune effimere conquiste, oggi come ieri il fotogiornalista indipendente rimane un lavoratore marginale, parcellizzato e, a volte, culturalmente subalterno all’industria della notizia, spogliato com’è di ogni forma di controllo sulla propria produzione e sul prodotto complessivo e dunque non in grado di svolgere una corretta informazione di parte: dalle nuove culture urbane emerse dal boom economico degli anni Cinquanta alle storie dei non-garantiti del precariato flessibile in anni vicini.
Questi scenari inediti e le loro conseguenze sul campo affettivo, cognitivo e psicologico sono invece indagati da alcuni scrittori delle ultime generazioni: il precariato urbano e impiegatizio di Giorgio Falco in Pausa caffè (2004); l’operaio flessibile e senza tutele di Francesco Dezio in Nicola Rubino è entrato in fabbrica (2004); i tradimenti e l’alienazione impiegatizia di Andrea Bajani in Cordiali saluti (2005); l’epica del lavoro e la nuova immigrazione di Angelo Ferracuti in Le risorse umane (2006); le storie di flessibilità senza prospettive di Aldo Nove in Mi chiamo Roberto, ho quarant’anni e guadagno 250 euro al mese (2006). Libri che rinnovano, a distanza di qualche decennio, la “letteratura industriale” di autori come Carlo Bernari (Tre operai, 1934), Vasco Pratolini (Metello, 1955), Ottiero Ottieri (Donnarumma all’assalto, 1959), Lucio Mastronardi (Il calzolaio di Vigevano, 1959), Paolo Volponi (Memoriale, 1962), Luciano Bianciardi (La vita agra, 1962), fino alla memoria della fabbrica che chiude ne La dismissione di Ermanno Rea (2002) e, in poesia, Giorgio Piovano (Poema di noi, 1950), Luigi Di Ruscio (Non possiamo abituarci a morire, 1953), Elio Pagliarani (La ragazza Carla, 1962), Nanni Balestrini (Vogliamo tutto, 1971) fino ad Alberto Bellocchio (Sirena operaia, 2000). L’elenco potrebbe continuare con alcune opere di lavoratori-scrittori, i cosiddetti «selvaggi»: ad esempio, le angosce, frustrazioni, desideri e aspirazioni di un metalmeccanico in Le ferie di un operaio di Vincenzo Guerrazzi (1974); l’esperienza di un delegato impiegato negli anni cruciali delle lotte in Il posto alla Fiat di Piero Milanese (1975); le ire, i ricordi e le riflessioni di un metalmeccanico del sud in Tuta blu di Tommaso Di Ciaula (1978); l’azienda, i padroni e gli operai nel racconto di un capo in Personale operaio di Nicola Melideo (1978).
Come ho detto, dai fotografi non arrivano segnali di interesse, ma questo è soprattutto una conseguenza della crisi culturale in cui versa buona parte della stampa italiana: finita l’epoca in cui l’antagonismo sociale vendeva, si sono trasformate anche le formule editoriali dei media, in prima linea a raccogliere la nuova domanda di ritorno all’ordine e di restaurazione sociale, con proposte rassicuranti e rivolte a nuovi modelli di pura evasione.

Argomenti per libri?

Più che per i giornali, certe storie sono «argomento per libri». È il commento lapidario che Margarete von Trotta mette in bocca al direttore di un periodico in Anni di piombo (1981). Che storie hanno raccontato e raccontano i libri fotografici? Come sono rappresentate le culture “altre”? Nel secondo dopoguerra e con maggior vigore negli anni Sessanta e Settanta (dopo la «rialfabetizzazione collettiva» del neorealismo cinematografico), c’era forse spazio per una nuova figura di fotografo colto e indipendente, professionista e insieme militante: secondo una diversa concezione etica ed estetica, poteva produrre immagini significative e non necessariamente «belle», che non si fermassero al corteo o alla manifestazione, ma raccontassero (ciò che più contava) le condizioni di vita delle classi sociali più deboli, evitando stucchevoli e didascalici simbolismi, privilegiando la sequenza, le microstorie, la classe come centro morale della rappresentazione, il noi contrapposto all’io. «Più d’uno, come faccio senz’altro io, scrive per non avere più volto» sosteneva Michel Foucault ne L’Archéologie du savoir (1969), in una requisitoria spietata contro quella cultura borghese che oggi ancora resiste, così come resiste alla messa fuori campo l’io del fotografo/autore. Non c’è stata crescita, anzi si è assistito a un imbarazzante proliferare di fotolibri privi, direbbe Arturo Carlo Quintavalle, di una qualsiasi «retorica alternativa», tanto inutili quanto «d’autore», «militanti», «autoprodotti», «antagonisti». Poche le eccezioni: buona parte di questi fotografi è di estrazione borghese; i libri fotografici, oggi come allora, sono in misura notevole autoassolventi e consolatori, e l’autore si mette al centro della scena. La ricerca del consenso a buon mercato è prevalente, e strumentalizza un rapporto falsamente partecipe al punto di vista delle classi subalterne.
Nel campo della fotografia professionale, tra le immagini, peraltro rare, destinate a durare numerose sono quelle di cronaca, come testimoniano alcune fotografie riprese ne L’immagine fotografica 1945-2000 della Storia d’Italia Einaudi (2004), con un ampio e documentato saggio introduttivo di Uliano Lucas e Tatiana Agliani (uno dei pochi seri approfondimenti sulla fotografia italiana del secondo dopoguerra) al quale volentieri rimando. È però singolare che, fra tanta lodevole abbondanza di bella calligrafia fotografica, nel volume einaudiano non abbia trovato spazio la foto che forse meglio racconta i nostri “anni di piombo”, insieme a quelle dei corpi massacrati di Pasolini e di Moro: l’immagine di cronaca, tremenda, della stazione di Bologna devastata da una bomba, fascista e piduista, la mattina del 2 agosto 1980.

Tutto sbagliato? Tutto da rifare?

No, non è tutto da buttare. Non deve allora stupire se – facendo un passo indietro – il lavoro agricolo e industriale ci è illustrato meglio da alcune fotografie di committenza padronale. Non è un paradosso: ce lo segnalano, ad esempio, alcune immagini della Necchi di Pavia fermate negli anni Trenta da Guglielmo Chiolini (1900-1991). Chiolini scatta foto che tuttavia si discostano dalla visione padronale classica della fabbrica: si soffermano su lavoro e lavoratori di fonderia e officina meccanica, reparti certamente tra i più duri. Sono immagini di altissima qualità, molto rigorose per taglio e composizione, ma, a quanto risulta, l’autore non è né consapevole né partecipe del punto di vista operaio su fabbrica e lavoro. Sono scatti singoli su lastre di grande formato: campi lunghi e medi, senza alcun dettaglio, spesso con una inquadratura assiale. Insomma, sono immagini sostanzialmente affini alla cultura pittorica (una imitazione della pittura da parte della fotografia), allora in voga non solo in Italia.
Il lavoro sui contadini della Bassa padana di Giuseppe Morandi (1937), un ex impiegato del Comune di Piadena, è un caso unico di fotografia interna alla “classe”. Già nella tecnica di ripresa (Morandi usa una biottica Rollei 6×6 avuta in prestito), il fotografo è lontano da certe subalternità culturali autocastranti che hanno reso ancora più sterile il già inconsistente fotogiornalismo “impegnato” (e condizionato l’affermarsi di un punto di vista fotografico di parte operaia su produzione e lavoro), con fotografie tanto “elementari” nella ripresa quanto potenti nel racconto/sequenza. La sua rappresentazione del lavoro rimane libera e parziale, civile e coerente, ma soprattutto partecipe dei valori e dei modelli di una civiltà contadina al crepuscolo negli anni Sessanta (ne I Paisan, 1979), riproposti nel nuovo paesaggio umano e agrario di Uomini terra lavoro (1999) e La mia Africa (2001). L’intensità epica delle sue fotografie la ritroviamo nell’inquietante “realismo immediato” dei suoi film-documentari, girati da ventenne, negli anni Cinquanta e Sessanta, con una camera amatoriale a molla e la pellicola 8 mm, e incredibilmente montati “a macchina”: straordinario Morire d’estate del 1957; belli e crudeli L’Amadasi la massa l’och, Tonco, la festa del tacchino e Cavallo ciao del 1967. Morandi mette in scena Piadena, un piccolo centro agricolo in provincia di Cremona, nitido microcosmo e finestra sul mondo rurale, che vive il passaggio dalle tante figure professionali della cascina a corte ai trattoristi e ai mungitori indiani di oggi. Il suo metodo di lavoro ci conferma che, in fotografia, più è contenuto lo spazio analizzato e più diventa efficace il racconto (la vita e la morte violenta delle persone e degli animali e le lotte dei braccianti di Piadena come emblema di tutte le vite e di tutte le lotte); che la sequenza di un ciclo produttivo – nell’agricoltura come nell’industria – descrive il lavoro meglio di qualsiasi foto emblematica, per quanto pregevole; che la storia di un individuo (Morandi conosce personalmente tutti coloro che fotografa: le didascalie ne riportano sempre il nome e cognome o il soprannome) è parte della storia della classe. È la messa in pratica, forse inconsapevole ma felice, degli «strumenti di osservazione e scale d’indagine diversi da quelli consueti» e dell’ «uso congiunto di telescopio e microscopio» di cui Carlo Ginzburg parla in Miti emblemi spie (1986): «Improvvisamente mi accorsi che nella ricerca in corso da anni sul sabba stavo adoperando un metodo molto più morfologico che storico. […] Usavo la morfologia come una sonda, per scandagliare uno strato inattingibile agli strumenti consueti della ricerca storica».
Lo stesso principio è applicabile al lavoro industriale e, con particolare efficacia, alla fabbrica “diffusa”. I “reparti” sul territorio si possono ricomporre per immagini seguendo il manufatto: da una fabbrica a un laboratorio, da un seminterrato a una cucina, tra lavoranti a domicilio e lavori pagati a cottimo. E il tempo del lavoro? Lo spazio e il tempo sono circolari e dinamici; la fotografia, bidimensionale e statica. Ma il comune rullino fotografico 135 (36 scatti) poteva essere proficuamente adottato come unità di misura del tempo: 2 secondi tra uno scatto e l’altro equivalgono a 72 secondi, 3 a 108 e così via. Sono più che sufficienti per rappresentare il tempo di lavoro: quello a domicilio come  quello alla catena di montaggio.
Chiolini e Morandi sono solo due esempi, agli antipodi, dei lasciti in parte sommersi e in gran parte ignorati della fotografia italiana.
Se si fosse approdati a una “storia generale” della fotografia sociale non per facili scorciatoie ma per la più impegnativa e rigorosa via delle culture fotografiche locali (fotografi di studio o ambulanti, ritrattisti o paesaggisti, ecc.), molto probabilmente gli interni di fabbriche, i lavori marginali e il lavoro agricolo nelle fotografie di Chiolini e Morandi, quei loro bellissimi campi medi e lunghi, verrebbero studiati come fondamentali strumenti visivi di rappresentazione del lavoro. Per alcuni dettagli, le lastre in vetro di Chiolini sono veicoli essenziali di informazione sui cicli produttivi e sul lavoro, specie operaio, il meno rappresentato: le macchine e gli strumenti come l’altoforno e le siviere della ghisa; gli operai scalzi e a petto nudo: il caporeparto inoperoso… La lettura ideologica delle fotografie è ineludibile e altri punti di vista ne suggeriscono un uso per fini diversi dalla lontana committenza padronale. Inoltre, esse rivelano che il lavoro, per quanto brutto e nocivo, in fotografia diventa estetico.
Nel Novecento Cremona è stata una fucina di talentuosi fotografi e documentaristi, dilettanti o di mestiere, che in qualche caso hanno saputo creare una vera e propria epica del lavoro contadino e di fiume: da Torquato Zambelli (1882-1957) a Ernesto Fazioli (1900-1955), da Ezio Quiresi (1925) a Sandro Talamazzini (1924-2006), da Francesco Pinzi (1946) ad Antonio Leoni (1936), da Luisito Bianchi (1927) a Luigi Ghisleri (1936) al pluricitato Morandi. Zambelli è tra i primi, nel Cremonese, a documentare il lavoro dei contadini. Di Quiresi vorrei ricordare le sue belle immagini sui mestieri di fiume al crepuscolo, negli anni Sessanta. A illustrare il lavoro di Talamazzini bastino la limpida sequenza-racconto sul lavoro dei giarö (i renaioli) e i suoi film-documentari come Renaioli del Po (1953, un reportage che mescola verità storica ed elaborazione fantastica) e “corti”, come Michelina mangiafuoco (girato nel 1957 in 16 mm e accolto con molto favore da Roberto Rossellini) o La giornata di Arcobaleno (1959, la disincantata storia di un cavallo da tiro raccontata da lui medesimo). Pinzi, sindacalista e fotografo, è l’eccellente cronista del movimento dei lavoratori cremonesi e uno dei fondatori, nel 1983, dell’Archivio storico della Cgil locale. Bianchi, sacerdote e scrittore di Vescovato, nel 1963 dedica alla vita in cascina e ai lavoratori agricoli la sua tesi di laurea; tesi che poi pubblicherà nel 1968 (Salariati, ormai introvabile l’originale, è però pubblicato in rete da www.orasesta.it). Leoni, fotogiornalista di professione, è autore di numerosi reportage e pubblicazioni dedicati ai luoghi e ai mestieri della tradizione, come la cascina cremonese e i cordai di Castelponzone. Così come Giuseppe Morandi, anche Ghisleri racconta il mondo dei contadini nel traumatico passaggio dalla civiltà arcaica alla recente dittatura delle macchine e alle conseguenze, nel bene e nel male, su vita e lavoro: il ricco pluralismo etnico e culturale portato dai nuovi lavoratori stranieri; la corruzione del paesaggio agrario dopo l’abbandono di buona parte dei vecchi casoni e delle vecchie cascine; e la razionalizzazione produttiva nelle campagne.

Il punctum ideologico

Il linguaggio fotografico è dunque più ideologico che critico, sottratto in buona parte alla possibilità di codificazione e perciò alla credibilità scientifica. Ma non mancano le applicazioni di segno diverso quando i passaggi di mano avvengono entro un gruppo di lavoro (dal fotografo all’antropologo: le campagne di Franco Pinna ed Ernesto De Martino sui tarantolati, ad esempio) o non avvengono affatto (quando il fotografo è anche antropologo, o viceversa: le campagne di Paul Scheuermeier sul lavoro dei contadini o quelle di Lello Mazzacane sulla realtà popolare meridionale, ad esempio).
Le foto dell’etnografo e linguista svizzero Paul Scheuermaier (1888-1973) sono state scattate in occasione delle sue due campagne di ricerca (dal 1919 al 1928 e dal 1930 al 1932) sul linguaggio, sul lavoro e sulla cultura materiale dei contadini italiani e della Svizzera meridionale, su incarico di Karl Jaberg e Jakob Jud – linguisti e “maestri” di Scheuermeier – per il loro Atlante linguistico ed etnografico (AIS). «Dal novembre 1919 alla primavera 1925 feci esclusivamente l’indagatore per l’AIS Jaberg-Jud, avanzando in un viaggio continuo e sistematico e seguendo fedelissimamente le regole dei miei mandanti», scrive Scheuermeier. L’Atlante uscirà in 8 volumi tra il 1928 e il 1940.

Curiosamente, più la fotografia è omologata e subalterna e più i suoi codici interessano i ricercatori. Lo studio della fotografia come linguaggio autonomo è alquanto recente, e non sempre si è dimostrato adatto a illustrare un percorso storiografico compiuto. Molti fra questi storici della fotografia dimostrano un assoluto disinteresse per le foto a inchiostro dei giornali, vale a dire per la fotografia più “consumata”, nel bene e nel male, e perciò più “sociale”. I metodi di ricerca storica e scientifica che fanno uso non solo dei documenti scritti, ma anche degli “indizi” fotografici e cinematografici, hanno intanto conosciuto uno sviluppo impetuoso. sicché, nella nostra “civiltà dell’immagine”, la “storia con la fotografia” ha rapidamente invaso il campo della “storia della fotografia” (intesa come tecniche, ideologie e linguaggio). Si imporrebbe uno sguardo che stesse al di fuori dei modelli culturali tradizionali. La storia delle scritture fotografiche, inoltre, andrebbe correlata a quella dell’industria fotografica, da cui le sono state offerte – o imposte – nuove tecniche che via via ne hanno ridefinito i contenuti figurativo-espressivi. È ormai altrettanto chiara l’urgenza di una storia della fotografia italiana più attendibile, una “grande storia” filtrata dalle ricche esperienze locali, maldestramente ritenuta “piccola storia”.
Nel basso Medioevo, l’abitante di una città europea di media grandezza poteva vedere ogni anno da 50 a 100 nuove immagini. Si trattava di immagini fisse, quasi sempre di genere artistico. Perciò – come ha scritto Ando Gilardi – il mondo delle immagini era un piccolissimo dettaglio del mondo reale, perché si vedevano più immagini naturali che artificiali. Nella nostra epoca i rapporti risultano enormemente mutati: tra immagini durevoli (come un’opera d’arte) e artificiali, fisse (ad esempio, una riproduzione fotografica) o effimere (le vorticose sequenze di cinema e tv), ogni anno ci passano sotto gli occhi circa 112 milioni di immagini, con un rapporto di un’immagine fissa ogni 570 effimere. Le tecniche – chimico-fisiche, tipografiche, elettroniche – di riproduzione delle icone hanno rapidamente cambiato la nostra coscienza percettiva, il nostro modo di vedere e di pensare; la rivoluzione informatica successiva ne ha ulteriormente ampliato e diffuso gli effetti, annunciando una grande rivoluzione nelle caratteristiche assunte dalle nuove icone e nell’invenzione degli scenari a venire del rapporto tra fotografia, tecnologia e consumo.
Anche se nel corso del XX secolo si è invertito il rapporto tra l’immagine “naturale” e quella “artificiale” e anche se la proliferazione delle immagini rende oggi la realtà sempre più opaca (si “guarda” ma non si “vede”), resistono nel tempo –  come sottolinea Carlo Ginzburg –  «zone privilegiate – spie, indizi» che, nonostante la deformazione, la bugia e il falso, «consentono di decifrare» almeno una parte dell’effimero che ogni giorno passa sotto i nostri occhi e che ci ostiniamo a definire reale.

Ho citato libri e autori che sono entrati a far parte del mio dna, ma c’è un passaggio molto sensato di Michael Langford nel suo Trattato completo di fotografia (1972) che, da ragazzo, mi fece molto riflettere: « Se non fosse sfruttato nel campo della riproduzione grafica, l’impiego della fotografia sarebbe limitato ai ritratti familiari e alle foto delle cerimonie nuziali e in ogni caso sarebbe circoscritto a un numero molto contenuto di fruitori». Queste lapidarie parole mostrano quanto sia importante il ruolo della riproduzione meccanica nella crescita attuale di influenza che la fotografia registra – nel bene e nel male –  all’interno della comunicazione.
Dunque una funzione sociale la fotografia ce l’ha, eccome. Ma per farne un mestiere occorre uccidere il padre e – direbbe Berlusconi – separare le carriere: da una parte il militante e dall’altra un ex ragazzo, ormai trentenne, che tiene famiglia.
Gli anni Ottanta segnano anche una profonda trasformazione  del mercato editoriale. Ora le case editrici sono guidate da manager digiuni esperti in marketing raramente bibliofili, per i quali il libro è prima una merce e poi un prodotto culturale, che deve fruttare. Anni in cui va in soffitta la tradizionale terza pagina, sostituita con il dorso “culturale”. Anni in cui parallelamente cresce la domanda di immagine. Ai giornali serviva risolvere dieci problemi con una telefonata e non un problema con dieci telefonate.

Impronte

Sarò lapidario: tra un’opera letteraria e l’impronta ottica del suo autore c’è lo stesso rapporto che passa tra l’enologia e la fotografia di una bottiglia di vino, con buona pace per i cultori delle fotografie “d’autore” come specchio dell’anima. Tanto vale credere che i bambini nascono sotto i cavoli.
Le fotografie mentono. Mentono perché si possono manipolare, a partire dai materiali sensibili di un tempo o dai pixel odierni: la scelta della pellicola, del formato e dell’ottica, il campo di ripresa, una stampa più contrastata, possono conferire maggiore o minore drammaticità all’evento ripreso, selezionano la realtà e la riscrivono. Ancora più bugiarde sono le foto a inchiostro dei giornali, con le scelte redazionali e quelle grafiche di impaginazione dettate dalla proprietà: sono ulteriori manipolazioni della manipolazione le figure scontornate, gli accostamenti di immagini, le didascalie.
L’invenzione del retino tipografico ha tuttavia reso la fotografia un grande fenomeno di comunicazione, forse comparabile solo alla scoperta della stampa a caratteri mobili, come ha scritto Langford. Queste parole bastano a far comprendere il peso che ha la riproducibilità meccanica nel progressivo affermarsi della fotografia.
Mente anche il ritratto fotografico. Nell’Ottocento cresce la domanda di immagine da parte della borghesia emergente e si assiste all’inedita popolarità della fotografia, a partire da quando diventa chiaro che essa, mentendo, può migliorare l’aspetto della persona ripresa. A volte il ritratto fotografico mente suo malgrado: una delle più note “fotografie di Nietzsche” è in realtà un ritratto di Umberto I di Savoia; un’altra fotografia dello stesso filosofo con la madre è apparsa più volte sui giornali con didascalie via via diverse: «Nietzsche con la moglie» (non si è mai sposato), «Nietzsche con la figlia»…
Le fotografie mentono perché sono ben lontane dall’essere uno sguardo oggettivo sulla realtà (o – peggio – una sua riproduzione verace), ma sono solo un prodotto verosimile, la somma di stratificazioni ideologiche e di scelte che ne fanno uno strumento di lettura parziale, indiziaria, e tuttavia non univoco ma flessibile, un ‘segno’ che nel tempo può mutare di significato e di funzione, uno spazio bidimensionale che mostra ma non dimostra.

Ci sono luoghi dove tuttavia la letteratura e la fotografica si incontrano. Non vi intratterrò sulle scontate dissertazioni fotologiche di letterati come Michel Tournier (quasi stucchevole ne Il re degli ontani) o come John Berger. Di ben altro interesse gli appunti della Sontag, per tacere ovviamente di Barthes e Benjamin. Non parlerò dello sguardo orizzontale di Gianni Celati che, in Verso la foce (e non solo), incontra quello – speculare – dei paesaggi di Luigi Ghirri. Non racconterò la visionaria «fotografatrice» degli «scrittori morti» protagonista delle ultime pagine de Lo sbrego di Antonio Moresco o, dello stesso autore, il corpo a corpo con il repertorio familiare didascalizzato in Zio Demostene. Non commenterò analoghe e meno riuscite contaminazioni come Lettura di un’immagine (poi Romanzo di Figure) di Lalla Romano.
C’è una zona della scrittura che, da Gadda a Moresco, dialoga con i morti e con le fotografie delle persone morte. Con Carlo Emilio Gadda ora concluderò.

La casa della Cognizione

Maria Antonietta Terzoli insegna letteratura italiana all’Università di Basilea. A lei si deve la sovrapposizione tra i luoghi e i personaggi descritti ne La cognizione del dolore e le fotografie della memoria gaddiana. Ne parlo perché ho avuto una piccola parte in questa scoperta. Oltre che una apprezzata studiosa di Foscolo, Gadda, Ungaretti e di testi letterari tra il Cinque e il Novecento, Maria Antonietta è anche mia cognata. Lei stava curando per Einaudi la pubblicazione delle orribili poesie di Gadda e per rendere più lieve l’onere le ho donato una iconografia gaddiana in mio possesso. Così è emerso che nella Cognizione Gadda non descrive luoghi e persone, ma fotografie di luoghi e di persone. Le meticolose descrizioni della casa e dei famigliari corrispondono fedelmente a quelle fotografie, ora pubblicate e commentate dalla Terzoli ne La casa della Cognizione (edizioni Effigie, 2005), libro dal quale ho ripreso questi esempi.

Foto 1. Gonzalo La descrizione che l’autore fa di Gonzalo Pirobutirro – il protagonista del romanzo – corrisponde a questo ritratto di Gadda in divisa d’alpino «Il viso triste, un po’ bambinesco, con occhi velati e pieni di tristezza, col naso prominente e carnoso come d’un animale di fuorivia » (p. 162)

Foto 2. Il sogno Il sogno di Gonzalo è anche trascrizione di un sogno reale dell’autore, come si ricava da espliciti e ricorrenti appunti manoscritti: «Citare il sogno della mamma morta sul terrazzo. […] sul terrazzo la figura nera della madre verso il cimitero, che veniva dalla direzione del cimitero», «La visione della morte sul terrazzo (mio sogno)». Importa ora notare che all’allestimento del materiale onirico non sembra estranea una delle foto della casa, in cui spicca una figura femminile sul terrazzo fissata in una sorta di luttuosa immobilità, interamente vestita di scuro, forse di nero, con un volto sfuocato, non riconoscibile. Difficile non ritrovare in questa immagine inquietante i tratti essenziali della «signora nera sul terrazzo» di un appunto gaddiano, che coincide con la «figura di tenebra» evocata da Gonzalo nel resoconto del sogno fornito al dottore: «E il sogno, un attimo!, si riprese in una figura di tenebra…. là!…. là, dove sono andato or ora, ha visto? al cantone della casa…. Ecco, vede? là…. nera, muta, altissima: come rivenuta dal cimitero. Forse, col suo silenzio, arrivava alla gronda: sembrò velo funereo, che ne ricadesse…. Forse era al di là d’ogni dimensione, d’ogni tempo» (pp. 169-70).

Foto 3. La madre Nella celebre pagina sul temporale, la madre, rimasta sola nella casa vuota, cerca rifugio nella parte più interna, sottratta alla vista: «Nessuno la vide, discesa nella paura, giú, sola» (p. 270). Lo scrittore la descrive però attraverso lo sguardo di un ipotetico osservatore, addirittura del più insensibile («anche un lanzo!»), evocato come estremo garante di pietà: «Ma se qualcuno si fosse mai trovato a ravvisarla, oh! anche un lanzo! avrebbe sentito nell’animo che quel viso levato verso l’alto, impietrato, non chiedeva nemmeno di poter implorar nulla, da vanite lontananze». Lo sguardo prima mancato e poi impotente nel soccorso è però anzitutto quello del figlio, o meglio dello scrittore, che angosciosamente contempla la fotografia della madre ormai scomparsa: un viso «impietrato», che appunto «da vanite lontananze» non ha più neppure la possibilità di implorare («non chiedeva nemmeno di poter implorar nulla»). La descrizione riprende, caricandoli di pathos tragico, elementi riconoscibili nella foto 3: la fascia scura sul capo, le ciocche di capelli che ne sfuggono, le gote scavate e cadenti: «Capegli effusi le vaporavano dalla fronte, come fiato d’orrore. Il volto, a stento, emergeva dalla fascia tenebrosa, le gote erano alveo alla impossibilità delle lacrime. Le dita incavatrici di vecchiezza parevano stirar giù, giù, nel plasma del buio, le fattezze di chi approda alla solitudine» (p. 270).

Foto 4. Il nonno materno Nella descrizione di coloro che «scivolavano felicemente nel mondo», irrisi dallo scrittore, «Tutti avevano la loro vita, la loro donna: e si erano lasciati varare: ed erano in condizione di essere presi sul serio. Ognuno nel suo genere; e anche il manovratore del piattello» (pp. 331-32), affiorano in effetti tratti somatici e elementi dell’abbigliamento ricorrenti nei ritratti fotografici del nonno materno: il «panciotto a quadretti», la «barba accuratamente bipartita e tagliata a forbici», persino «due borse gonfie, sotto gli occhi» (pp. 332-33).

Foto 5. La nonna materna
Le mogli (spregiativamente «femmine») esibiscono proprio i gioielli che indossa la nonna dell’autore nella foto di famiglia («Talora avevano diademi di gemme sopra i capegli, le femmine»)

Foto 6. il fratello Nell’ultima scena del romanzo, quando gli abitanti di Lukones penetrano nella casa della madre morente, che lo scrittore svela il procedimento descrittivo più volte utilizzato nel libro, menzionando esplicitamente una fotografia del fratello posta sul tavolo della camera di Gonzalo e ora esposta allo sguardo degli intrusi: «Sul tavolo un libro aperto, una fotografia del fratello di lui, ragazzo dal volto sorridente, dopo tant’anni!: con una mano sul manubrio della mitragliatrice: era visibile, in parte, la struttura del velivolo. Uno degli intrusi indugiò a guardare la fotografia» (p. 463).

In una intervista filmata a cura di Gian Carlo Roscioni, realizzata pochi mesi prima della morte, a un certo punto Gadda apre un cassetto, estrae queste foto di famiglia e le descrive: «Questa è mia madre, questo sono io, questo è mio fratello Enrico, questo è il nonno materno…». Non una di queste fotografie è citata da Emilio Manzotti nella sua edizione commentata della Cognizione del dolore ( Einaudi, 1987), nemmeno la fotografia del fratello «con la mano sul manubrio della mitragliatrice». Ho proposto al Fondo Manoscritti dell’Università di Pavia di lavorare – oltre che sulle carte autografe – anche sui repertori famigliari. Vorrei suggerirlo anche a voi.

Grazie.

2 Risposte to “Le bugie automatiche”

  1. utente anonimo Says:

    Il sottoscritto Luigi Di Ruscio ha pubblicato una racolta di poesie con questo titolo: POESIE OPERAIE, ho scritto queste poesie perch? sono un poeta e perché per 37 anni ho lavorato come operaio in una fabbrica metallurgica di Oslo.

  2. GGiovannetti Says:

    Caro Luigi D Ruscio, andrebbe ricordato anche il suo "Istruzioni per l’uso della repressione" (Savelli 1977). Lei ha ragione da vendere e io uno smemorato. E me ne scuso. Un abbraccio

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