Il terremoto è esplicitazione caotica della morte che incombe su di noi. Nei suoi scomposti gesti distruttivi c’è il rapporto tra pena e condannato. Improvvisamente scopri che gli edifici non sono sufficienti a proteggerti, che il calore domestico non ha armi contro il freddo notturno del sisma. La natura è un arsenale sepolto che non ha riguardo per la morale e gli interessi delle alleanze, e le guerre sono solo uno stupido tentativo di replicare l’anima nera della natura. C’è sempre qualcuno, come in questo caso, che grida – inascoltato – il nome del disastro, come chi prova a scongiurare i conflitti. Ma è sempre troppo tardi, e serve solo a far crescere la rabbia di chi deve segnare la perdita e soffrire. L’inclinazione dei piani naturali è prevedibile ma non evitabile, un paese civile dovrebbe trarne le conseguenze. C’è chi davanti alle catastrofi naturali piange e grida, chi sta in silenzio, chi muore. E poi c’è chi prova a trarne una lezione. Peccato che tra un disastro e l’altro il resto tornerà a dimenticarsene. Non c’è coerenza nei sentimenti, nei terremoti sì: hanno una ciclicità e spesso un ordine che è lo stesso che guida le guerre. Nel caos c’è la regola, nel disordine si replica: California, Giappone, Italia centro-meridionale, follia che alberga sotto i nostri stabili costruiti sempre con un errore non misurabile, con una leggera superficialità che fa da nido, e alleva lo spazio che farà crescere il dolore. A guardare le macerie dei posti rasi al suolo da terremoti e guerre, sembra di poter scorgere un inferno senza metodo che involontario si mostra. Ci vorrà del tempo per riflettere su quello che vediamo, e meno per dimenticarlo, come abbiamo già fatto con gli altri teatri del disastro.
Terremoto
di Marco Ciriello
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