di Domenico Settevendemie
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Tre ore abbondanti di marcia serrata sul molo, una tesa di cemento conchilifero dritta e stretta, e la mia corsa verso il mare poteva finalmente dirsi compiuta. Non mi restava altro che guardarlo in faccia, il mare, feticcio per le menti, concreto amante per i corpi, complice il vento che a queste latitudini non smette mai di battere il chiodo sulle creature non pinnate che gli si parano contro. Per tutto il tragitto ero stato fermato da diversi gabbiani incipriati di fresco dalla salsedine presa al largo, ne avevo contati ben dodici, tutti visibilmente stanchi, tutti curiosi di sapere il motivo della presenza mia e di quanti tra gli uomini si avventuravano sin lì. La risposta era sempre la stessa: sono, anzi, siamo solo persone a passeggio, ripetevo con tono di sufficienza. Loro parevano non capire. Non si arrendevano all’evidenza, non accettando il fatto che il mare da taluni fosse vissuto come un semplice passatempo, al di fuori di una ferrea disciplina di vita. Nel tentativo di superare le differenze e stabilire una qualche forma primitiva di complicità, a due di loro avevo persino offerto dei fazzoletti per ripulire il piumaggio sporcatosi nel corso della loro quotidiana pesca d’altura. Li accettarono più per cortesia che per reale necessità. Forse che gli uccelli non sanno come togliersi di dosso lo sporco? Si saranno detti, un po’ stizziti. Sì, inutile negarlo, tra me ed i gabbiani, per quanto da entrambe le parti non fossero mancati buoni propositi, era stato impossibile arrivare ad una, seppur minuscola, forma d’intesa. Minuscola come quella lontanissima piattaforma conficcata nell’orizzonte marino al modo di una forchettina ornamentale su di una gigantesca coppa gelato.
Contrariamente a quanto si creda, l’essere dotati di ali è per gli uccelli motivo di grande imbarazzo verso gli uomini. Ciò che per noi è sinonimo ovvio di libertà, superbo affrancamento dalle sottostanti ragioni terrestri, ovvero capacità innata di superare ogni tipo di ostacolo fino al punto di ignorarne il concetto stesso, è per i pennuti una forma di costrizione al contrario. Volare per loro equivale a dover volare. I due verbi, dovere e volare, fanno coppia fissa ormai da milioni di anni e chissà per quanto tempo ancora.
Muoversi nell’aria è cioè l’unico modo loro concesso per coprire proficuamente lo spazio.
Similmente a quanto accade agli uomini, che non possono far altro che camminare muovendo gli arti inferiori in rigida sequenza se davvero vogliono allontanarsi da un luogo per raggiungerne un altro. In questo caso sono i passi ad indicare la via. Entrambi, uomini ed uccelli, pagano lo scotto di far parte integrante della natura. Entrambi realizzano se stessi come specie attraverso la propria bio-diversità. La differenza li unisce ed al contempo li rende inequivocabilmente distanti, al limite del soprannaturale. E poco importa se oggi per noi sia possibile percorrere migliaia di chilometri stando sopra qualcosa che furoreggia in lungo e largo per i cieli, spinto da motori potentissimi e la cui permanenza in aria è fornita proprio da due lunghe ali posticce. Chi, per la prima volta, ha progettato e costruito questi moderni marchingegni celesti era davvero uomo devoto. Innanzitutto al senso dei propri limiti, e poi alla convinzione di poterli superare attraverso l’osservazione e l’insegnamento fornitogli dalla natura. Non voleva altro che questo: un diverso modo di camminare forgiando il movimento su creature dalle fattezze a lui inconciliabili eppure fonte continua d’ispirazione. Ma per fare questo, arti superiori ed inferiori non sono mai venuti meno al proprio compito. Il piroscafo, l’aeroplano, il sommergibile, l’automobile, persino la bicicletta, sono il frutto combinato d’osservazione ed inventiva. Ed ogni singolo loro pezzo è stato dalle mani costruito e dalle gambe e piedi caricato di una funzione virile.
Ma da queste parti, sul ciglio estremo di terra ed acqua, bisognerebbe restar muti come le maree. Mettere in secca la ragione, precipitare la parola tra i panni sporchi, affidando il resto di noi alla spinta violacea della corrente.
Sentendo le mie mezze ammissioni e quale carico di reticenza si portavano dietro, i gabbiani all’unisono frullarono le ali, segno di buona organizzazione d’assieme, puntando dritti verso l’orizzonte già in ansia per il loro ritardo.
Anche per me era tempo di tornare alle abituali occupazioni. Non potevo fare di una semplice ricreazione mattutina il nucleo centrale dell’intera giornata. Anni a venire fecondi di ulteriori progressi scientifici dipendevano dalla quantità d’impegno profuso nel presente da tutti gli operatori del settore, me compreso. Lavoravo nella ricerca in campo farmaceutico. Una di quelle branche analitiche che non ha mai pace. Dove lo sviluppo non può concedersi neppure un momento di pausa, tanto è preso dal dover immettere sul mercato sempre nuovi e più sofisticati ritrovati. Ebbene, il mio contributo al progresso consisteva nello snellire la composizione chimica dei medicinali di volta in volta prodotti. Dovevo portarli al peso molecolare ideale perché i costi di produzione non gravassero troppo sull’azienda che li produce, così rendendo antieconomica la loro immissione sul mercato. Mi si chiedeva di togliere il superfluo o il non strettamente necessario di quanto tra eccipienti, emollienti, principi attivi di varia categoria e specie, coloranti ed altro vi fosse contenuto. A seguito della dieta, una pastigliona tozza e tonda, un po’ volgarotta, si riduceva ad una pillolina ben slanciata su cui faceva bella mostra il logo impresso e stilizzato della casa farmaceutica, come il tatuaggio discreto su di una caviglia da mannequin. Molto spesso, quindi, i risultati della mia azione snellente erano visibili pure ad occhio nudo. Nulli erano i vantaggi per il paziente. Infatti tutto ciò che poteva dare un qualche sollievo al suo fisico, ma classificato come non essenziale, veniva regolarmente sacrificato sull’altare della bilancia commerciale. Primo fra tutti il dolcificante, solitamente al gusto d’arancia, che i più sensibili tra i chimici accompagnano al farmaco per alleviare il saporaccio che sempre lo caratterizza. Se i malati vogliono un’aranciata che se la vadano a bere al bar o a casa propria, aveva gridato l’ad dell’azienda in fase di bilancio. Le risate di taluni consiglieri se la giocarono alla pari con gli applausi della restante schiera di benpensanti. Certamente il consenso fu unanime. Come sull’innalzamento del prezzo per confezione per effetto delle spese sostenute in questa, ahimè di mia spettanza, subdola pratica. Risultato: al banco il consumatore finale pagava un di più proprio per quel che gli era stato cinicamente tolto in laboratorio. Buffo vero?
Nella città in cui vivo non c’è un solo monumento o edificio storico tra quelli affacciati sul litorale, che non abbia storto un po’ il naso quando si decise di costruire il molo. Con la realizzazione di quest’imponente opera si toglieva loro, per sempre, il primato sul mare. I protagonisti di un tempo, per un bizzarro effetto ottico venivano ricacciati nell’entroterra retrocedendo di posizione rispetto ai moderni condomini costruiti alle loro spalle, e le acque che in passato ne lambivano omaggianti i basamenti marmorei adesso parevano piccole pozze sonnacchiose, prive di alcuna forma di deferenza. Come pretendere rispetto dagli altri se per primi siamo noi a negarcelo. La città nuova aveva fagocitato lo spirito dell’epopea marinara da cui sorse e trasse gloria nel corso dei secoli. Al suo posto un’identità convulsa e senza battesimo. E quella stele posata a forza sulla vastità, aveva privato il mare della sua autorevole distanza. Gli uomini piangono troppo, o troppo poco. Credono nella fortuna solo se questa gli strizza l’occhio, altrimenti la usano per accampare scuse se rivolta ad altri. Ciclicamente fanno esami di coscienza, ma taroccano i risultati. Sono capaci di gesti eroici. Spesso fanno cose buone, alcune volte addirittura grandiose, ma non è per quelle che vogliono essere ricordati. Siamo solo persone. In cerca di una lunga passerella su cui far scorrere avanti e indietro irrevocabili fragilità di cemento.
19 giugno 2009 alle 08:42 |
Tu devi essere uno scrittore. Complimenti.
Roberta S.
3 luglio 2009 alle 12:43 |
bravo
3 luglio 2009 alle 16:04 |
si legge e si sente il rumore del mare e il vento, si legge e si vedono i gabbiani che ti guardano, si legge e si vede la città che precipita verso il mare, si legge e ci si sente appoggiati come gabbiani sulla spalla dello scrittore…
è una scrittura piena ammaliante densa.
s.