Pagine corsare 1

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«La luna… chissà se ci sarà il petrolio anche lì…»
di Angela Molteni

La frase del titolo è quella che il regista Francesco Rosi mette in bocca a Enrico Mattei negli ultimi minuti di vita del Presidente dell’Eni, la sera del 27 ottobre 1962 mentre il suo aereo sorvola le campagne pavesi ed è in prossimità di Linate sotto una diffusa turbolenza che, insieme al «destino già per lui predisposto», segneranno la sua tragica scomparsa. Ho rivisto a distanza di oltre trentacinque anni da quando fu realizzato Il caso Mattei, un esempio di film-inchiesta tra i più intelligenti e documentati, secondo soltanto a mio parere a Le mani sulla città dello stesso Rosi. La forza del film consiste, ancora oggi, nel suscitare dibattito sulla morte e sulla vita del “personaggio Mattei”, coinvolgendo l’opinione pubblica su argomenti del tutto insoliti per uno spettacolo, quali l’assetto e il destino economico di un Paese che è il nostro, i fragili equilibri di potere, l’arroganza di governanti, grandi imprenditori, manager d’assalto. Il film di Rosi è del 1972, a dieci anni dalla scomparsa di Mattei e dal silenzio imbarazzato che era calato su un personaggio molto discusso: quello di Rosi è un lavoro fatto di interrogativi anche senza risposta, e non indulge mai al ritratto agiografico del capitano d’industria. Cosa quest’ultima, invece, che non ci ha risparmiato la Rai nella recente fiction su Mattei.
Il film di Rosi si occupa approfonditamente di altri avvenimenti legati alla morte del Presidente dell’Eni: primo fra tutti, quello del rapimento del giornalista Mauro De Mauro – avvenuto a Palermo il 16 settembre 1970 – che  lo stesso Rosi aveva incaricato di indagare sulla presenza di Mattei in Sicilia: l’aereo del Presidente dell’Eni precipitò infatti quasi al termine del viaggio di ritorno a Milano (la cui partenza dalla Sicilia era stata spostata dall’aeroporto di Gela a quello di Catania), un “misterioso” incidente aereo – tale fu definito al termine dell’inchiesta seguita al disastro aereo di Bascapè e alla morte di Mattei – che in una inchiesta successiva condotta dal Pm Vincenzo Calia della Procura di Pavia tra il 1994 e il 2003 risultò essere di natura dolosa (il Gip pavese Fabio Lambertucci a sua volta ha esaminato i risultati dell’inchiesta del Pm emettendo un decreto che si richiama esattamente alle conclusioni di Calia). Mauro De Mauro, dopo il rapimento, scomparve nel nulla e il suo corpo non fu mai ritrovato. Più volte, in passato e anche recentemente, si è tentato di individuare il luogo dove si presumeva fosse stato nascosto il cadavere di De Mauro, ma nessuna ricerca ha dato finora esiti positivi.
Oltre al film e a una miriade di libri di contenuto critico e di inchiesta pubblicati nel corso degli oltre quarantacinque anni che ci separano dal “caso Mattei” – tra cui imperdibile il corposo volume di Giorgio Galli, Enrico Mattei – Petrolio e complotto italiano (Baldini Castoldi Dalai editore, 2005) -, vi sono poi le conclusioni dell’inchiesta molto approfondita cui ho fatto cenno, promossa nel 1994  dalla Procura di Pavia. Ed è soprattutto quest’ultima che ha sollecitato la mia attenzione, così come quella di molti commentatori che negli ultimi anni hanno espresso ipotesi, raccolto testimonianze, invocato inchieste. La relazione del Pubblico ministero di Pavia – che ha provato come dicevo l’origine dolosa di quello  che  fu  liquidato  come “incidente aereo” dalle inchieste aperte subito dopo la tragica fine di Mattei -, suggerisce di tentare un’analisi più approfondita di ciò che può essere realmente accaduto in relazione ad altre vicende eventualmente collegate alla tragica fine di Enrico Mattei.
«Dall’abbattimento di Bascapè parte una nuova storia d’Italia, più succube dell’alleanza atlantica perché mutilata dell’indipendenza energetica ed economica, o comunque della forza finanziaria che le avrebbe assicurato Mattei.    La storia delle stragi di Stato parte da più lontano». (Intervista a Giuseppe Lo Bianco, aprile 2009).
Da qualsiasi lato lo si osservi, il delitto Mattei appare come una delle prime e più  grandi azioni di depistaggio e disinformazione nella storia della Repubblica. Non a caso si è scritto che con la morte del fondatore dell’Eni mezza Italia continuò a ricattare per decenni l’altra metà. Per il politologo Giorgio Galli la tragedia di Bascapè si colloca nell’ambito della strategia della tensione e del patto scellerato mafia-politica che avrebbe portato alla fuga dal carcere del boss Luciano Liggio nel 1969, nell’imminenza della strage di Piazza Fontana [un altro dei “misteri” irrisolti del nostro Paese, nda] e nelle fasi della sua preparazione, e spianato la strada all’affermazione dei “corleonesi” in Cosa Nostra. La collaborazione di Cosa Nostra al sabotaggio del Morane Saulnier di Mattei sarebbe arrivata dal boss di Riesi Giuseppe Di Cristina, che risultò vicino a Graziano Verzotto, il segretario regionale della Dc, responsabile delle relazioni esterne dell’Eni nell’Isola e Presidente dell’Ente Minerario Siciliano. Verzotto può essere considerato il personaggio emblematico di uno Stato che non distingueva e non distingue più tra criminali e persone oneste, dove impera la collusione tra politici e mafiosi (e perfino poliziotti, magistrati, giornalisti sono stati invischiati nelle maglie mafiose) e dove si pratica, oggi come ieri, una guerra tra bande ciniche, spietate, non meno corrotte e sanguinarie della manovalanza fascista, spesso “in giacca e cravatta”, da considerare alla stessa stregua dei rozzi e pressoché analfabeti “picciotti”, che materialmente hanno piazzato le bombe e a cui è stata assegnata licenza illimitata di uccidere.
Eugenio Cefis, manager dell’Eni dal 1957, ne era già fuori quando Mattei morì. Italo Mattei riferì che il fratello Enrico aveva   scoperto il doppio gioco di Cefis con i servizi americani e lo avrebbe costretto, per questo e per via di certi altri affari – in particolare per essere stato sorpreso mentre rovistava nella cassaforte di Enrico Mattei in cui erano conservati documenti riservati -, alle dimissioni dall’Eni. Cefis risultava legato ai servizi italiani ed era amico del generale Giovanni Allavena, fedele a De Lorenzo, poi iscritto alla P2, direttore del Sifar dall’ottobre ’62 fino al giugno ’65; coinvolto nel tentato golpe del ’64; Allavena consegnò nel ’67 i fascicoli del Sifar a Licio Gelli e fu costretto per questo a lasciare i Servizi. Da un’informazione del giudice Casson del ’95 risulterebbe in un elenco di dodici agenti della Cia italiani.

Un magistrato e la sua inchiesta coraggiosa

Una grande quantità di informazioni, come ho detto, è derivata soprattutto dall’inchiesta condotta dal Pubblico ministero Calia, e rappresenta uno stimolo di grande rilievo, uno stimolo soprattutto a non rassegnarsi mai. Tra i contenuti della sua relazione, Calia cita anche stralci da Petrolio, l’ultimo romanzo incompiuto che Pier Paolo Pasolini aveva iniziato a scrivere nella “Primavera o Estate
del 1972” – proprio l’anno in cui fu presentato il film di Francesco Rosi – e al quale Pasolini aveva continuato    a lavorare fino al giorno in cui è stato assassinato:
«Mi sono caduti per caso gli occhi sulla parola “Petrolio” in un articoletto credo dell’Unità, e solo per aver pensato la parola “Petrolio” come il titolo di un libro mi ha spinto poi a pensare alla trama di tale libro. In nemmeno un’ora questa ‘traccia’ era pensata e scritta». (Pier Paolo Pasolini, Petrolio, Einaudi 1992, p. 543).
Mi ha molto colpito che sia stato un magistrato – avvezzo all’audizione di testimoni oppure ad analizzare oggettivamente documenti che possano guidarlo nella ricerca di verità e quindi, almeno professionalmente, estraneo ad ambienti letterari che in qualche modo avrebbero potuto essere condizionati e condizionanti – a considerare, appunto senza condizionamenti di sorta, l’ultima opera letteraria di un intellettuale alla stregua di un vero e proprio documento di denuncia da mettere in relazione alle indagini che stava conducendo:
«Anche Pier Paolo Pasolini (ucciso a Ostia il 2 novembre 1975) aveva avanzato sospetti sulla morte di Mattei, alludendo a responsabilità di Cefis. Tali allusioni sono rintracciabili nella frammentaria stesura del suo ultimo lavoro incompiuto […]». (relazione al Gip del Pm Vincenzo Calia)
Ma più avanti si vedrà per esteso il riferimento a Pasolini nella relazione conclusiva dell’inchiesta del magistrato della Procura pavese.

Rilettura di Petrolio

Ed è proprio partendo da questo esteso richiamo che ho riletto in questi giorni Petrolio, l’ultima fatica letteraria di Pier Paolo Pasolini. Il primo tentativo organico di scrivere un romanzo sul buio: Mattei, l’Eni, Cefis, la strategia della tensione, l’Italia.
L’ho fatto, penso con maggiore attenzione di molti recensori del libro – che, salvo rarissime eccezioni quando fu pubblicato nel 1992 si limitarono a rilevarne gli aspetti di carattere sessuale. Nello Ajello, editorialista di “la Repubblica” ed ex condirettore de  “L’espresso”, per esempio, fu tra i commentatori più scriteriati e rabbiosi, e si espresse così:
«[…] un immenso repertorio di sconcezze d’ autore, un’enciclopedia di episodi ero-porno-sado-maso”, una “galleria di situazioni omo ed eterosessuali come soltanto dall’autore di Salò o le centoventi giornate di Sodoma ci si può aspettare». (“la Repubblica”, 27 ottobre 1992);
Al giornalista di “Repubblica” rispose Federico De Melis dalle pagine del “manifesto”:
«Ajello ama a tal punto Pasolini da resistere stoicamente alla tentazione di vendette postume. Perché un motivo ci sarebbe» [De Melis, cita il pesante giudizio di Pasolini, poi raccolto nel volume Einaudi Descrizioni di descrizioni, al saggio di Ajello Lo scrittore e il potere, definito “un miserabile perbenistico libello”, nda]. «Ajello – sosteneva nel ’74 Pasolini – dà dei fatti letterari il resoconto che potrebbe dare una cameriera entrando e uscendo in salotto per servire il tè e ascoltando i discorsi delle signore […]. Ciò che conta sono i successi e gli insuccessi, le simpatie e le antipatie, e soprattutto il non venir mai meno a un certo perbenismo […]. Il disprezzo per coloro che non sanno attenersi a queste regole è in Ajello uguale a quello che i fascisti nutrono per gli ‘esaltati’, per i ‘rossi’. Presunzione di sé e riduzione degli altri, anzi, di tutto, dominano il linguaggio, moscio e livido, di questo disprezzo […]”».
E ancora entrando nel merito dell’ultimo romanzo pasoliniano, De Melis scrive:
«[…] Ajello deve essersi scandalizzato davvero molto a leggere il “coitus ininterruptus” (che ridere!) “cui Carlo, il funzionario dell’Eni che è protagonista del libro, si dedica sul pratone della Casilina con venti nerboruti giovinetti odorosi di sudore sano e di ferro dell’officina”. Il brano, che è tra l’altro uno dei più compiuti nel libro frammentario, è altissima letteratura proprio perché attraverso la reiterazione, l’ossessione del sesso orale, che copre quasi trenta pagine, Pasolini ottiene, sadianamente, il raggiungimento di una dimensione metafisica, e insieme liturgica, come in Salò, con quel che comporta sul piano del rapporto tra sesso e potere. […] Forse la verità è che nell’Italia “onesta” e “pulita” che sogna “la Repubblica” non c’è posto per Pasolini, la cui opera, compreso Petrolio, rappresenta una turbativa permanente per le “coscienze democratiche”; è il solo fatto di continuare a porre interrogativi, rifiutarsi di chiudere lo spettro ampio dell’esistenza, della cultura e della politica, che non va giù». (Federico De Melis, Brucia il Petrolio di Pasolini, “il manifesto” 28 ottobre 1992).
È da parte mia la quarta rivisitazione del romanzo pasoliniano, dicevo, ma questa volta non l’ho fatto per ripercorrere le vicende di Carlo Valletti, anzi dei “due Carlo” (il protagonista, infatti, “è scisso in un Carlo di Polis e in un Carlo di Tetis, che poi   corrispondono alle due dimensioni in cui vive l’opera, quella del pubblico, del politico, e quella dell’intimo, del sessuale – uno sdoppiamento che lo stesso Pasolini adottò per La Divina Mimesis).
Nella prefazione a La Divina Mimesis Pasolini scrive: «… do alle stampe oggi queste pagine come un “documento”, ma anche per fare dispetto ai miei “nemici”: infatti, offrendo loro una ragione di più per disprezzarmi, offro loro una ragione di più per andare all’Inferno […] (1975)». Pasolini sceglie come Virgilio il se stesso degli anni Cinquanta – «piccolo poeta civile che ingiallisce con i suoi libri» – e lasciate le tre fiere comincia il suo viaggio in un Inferno neocapitalistico. Sdoppiandosi in Dante e in Virgilio, è ritornato sui nodi polemici del suo inesausto confronto con la letteratura ma anche con la realtà del suo tempo (nda).
Questo Carlo, industriale del petrolio, funzionario dell’Eni, “è metà donna e metà uomo, un androgino che condensa in sé il rispettabile borghese, però di aperte vedute, di sinistra, e quella, atroce, dell’essere simbiotico, orgiastico, che come Mister Hyde ha obliato ogni possibilità di redenzione” (Federico De Melis, Brucia il Petrolio di Pasolini, cit.). Non l’ho fatto neppure per ripercorrere le avventure argonautiche (che sono argonautiche solo metaforicamente…) o i racconti compiuti, cioè non   frammentari, che si trovano all’interno dell’ultimo romanzo di Pasolini. Né per rinnovare lo stupore di leggere un accenno inquietante come questo:
«La bomba viene messa alla stazione di Bologna. La strage viene descritta come una ‘Visione’»  Petrolio, cit., p., 546).

La strage alla stazione di Bologna è del 2 agosto 1980 e, in questo suo ultimo romanzo incompiuto, pare che la “visione” l’abbia avuta proprio Pasolini. Il quale – come scrive Carla Benedetti anche se riferendosi ad altro contesto, quello del Pasolini regista di Medea – mette insieme mitico e realistico facendoli convergere «per esprimere la miseria della convenzione realistica nel sepa
rare le cose da quello spessore allucinatorio che è la realtà, e che si può cogliere solo per visioni».
Il mio intento nel rileggere Petrolio era anche il tentativo – ché non avrei potuto fare altro che tentare, umilmente, e in maniera del tutto soggettiva – di ritornare, per così dire, sui passi percorsi dallo stesso scrittore per narrarci alcune storie, per catturare la nostra attenzione, per stimolare la capacità di comprensione di coloro che avrebbero letto le sue pagine, con molta partecipazione e forse anche qualche sconcerto. Ma che dico… narrare? Avrei forse meglio definito la sua scrittura ipotizzando, oltreché una narrazione, un susseguirsi di ragionamenti, di stimoli, di critiche polemiche, di proposte e per certi versi anche di rivelazioni.
Per azzardarmi a esplorare analiticamente l’universo creativo pasoliniano avrei dovuto, intanto, ancorarmi saldamente alla realtà, così come concepita da Pasolini, seguendo proprio la sua “lezione”:
«Nel progettare e nel cominciare a scrivere il mio romanzo, io in effetti ho attuato qualcos’altro che progettare e scrivere il mio romanzo: io ho cioè organizzato in me il senso o la funzione della realtà; e una volta che ho organizzato il senso e la funzione della realtà, io ho cercato di impadronirmi della realtà […]» (Petrolio, cit., p. 419).
E dunque avrei dovuto procurami, per esempio, i documenti che lo stesso Pasolini stava utilizzando per realizzare alcune parti    del suo libro. E ancora: era indispensabile che mi mettessi in grado di padroneggiare, per così dire, anche il minimo riferimento socioculturale e politico, informandomi sui fatti per i quali le mie conoscenze fossero carenti per analizzarli attentamente. Questo ultimo compito che mi ero autoassegnata era probabilmente il meno arduo, se non altro per  motivi di anagrafe, che mi hanno visto attraversare numerose stagioni nelle quali lo stesso Pasolini ha vissuto, stagioni durante le quali ho potuto condividere le analisi,   le critiche, le polemiche e le denunce che via via formulava: dalla presenza di nazisti e fascisti  in Italia, prima, durante e dopo la seconda guerra mondiale, alla Resistenza infine vincente, alla successiva trasformazione del nostro Paese in una democrazia, anche se in essa sono stati, fin dall’inizio, troppo presenti corpi estranei, corruzioni e intrighi, scandali e prevaricazioni, oltre a consistenti residui del regime appena abbattuto. Tra l’altro, tutti elementi agevolmente verificabili e comunque storicamente accertati.
Di Petrolio riporterò qui alcuni passaggi che ritengo chiarificatori per acquisire e comprendere anche le circostanze da cui è necessario prescindere, così come ricorderò alcuni elementi essenziali o controversi del processo che seguì la morte del poeta e gli sviluppi successivi. Tutto quello che riferirò non ha certamente carattere organico e potrebbe dunque risultare frammentario, e me ne scuso subito con chi avrà la pazienza di leggermi. Ma ciò che mi prefiggo è proprio ricordare, prima di tutto a me stessa, alcuni elementi che possano concorrere a chiarire un po’ di più, se possibile, l’orrendo sfregio che Pasolini ha subito quel 2 novembre 1975. E soprattutto fornire ai lettori di “Pagine corsare” tutti gli elementi che consentano loro di “rileggere” il più analiticamente possibile non solo Petrolio, ma ciò che riguarda la vita e la morte di Pasolini.
Al termine di queste riflessioni elencherò alcune postille e anche i riferimenti alle pagine di pasolini.net in cui si trova ulteriore documentazione per un possibile, ulteriore approfondimento delle notizie sull’ultima opera incompiuta di Pasolini e sul suo assassinio (articoli di giornali, libri pubblicati, riflessioni di lettori e visitatori del sito ecc.). Infine – e come logica conseguenza del mio lavoro, quello sul sito pasoliniano, che considera tutti coloro che visitano (e spesso scrivono) le pagine dedicate al Poeta quali reali e preziosi collaboratori ai quali pasolini.net è debitore in primo luogo del senso stesso della propria esistenza – vi sono poi le opinioni di alcuni dei visitatori di “Pagine corsare” ai quali avevo chiesto di esprimersi sulle ultime risultanze legate al caso Pasolini. Li ringrazio, così come ringrazio Giovanni Giovannetti di Effigie che, oltre ad avere pubblicato Questo è Cefis, mi ha trasmesso il testo della relazione dell’inchiesta condotta da Vincenzo Calia. Infine, le immagini molto significative riportate in queste che ho chiamato semplicemente riflessioni, sono fotogrammi del film di Marco Tullio Giordana, Pasolini. Un delitto italiano (1995).
Propongo subito, quasi emblematicamente, due brani tratti da Petrolio che rappresentano in un certo senso una cornice al pensiero politico pasoliniano, oltre a dare un particolare rilievo, nella prima delle due citazioni, anche al sottile grado di ironia con il quale si rapporta alla spaventosa situazione della società in cui vive. Una ironia spesso osservata in Pasolini. Mi viene in mente, in particolare, un indimenticabile passaggio del suo film I racconti di Canterbury (1971-72) in cui Pasolini impersona Geoffrey Chaucer, lo scrittore e poeta inglese autore originario di The Canterbury Tales: il sorriso ironico-malizioso di Pasolini/Chaucer sembra proprio accompagnare il brano di Petrolio riprodotto qui di seguito (Carlo, il personaggio principale che riflette sui suoi “appunti-memoriale” – il grassetto è mio, così come in tutte le parti della presente riflessione).
«[…] Avrebbe nominato solo alcuni aspetti o elementi di quel qualcosa di innominabile che era il nuovo Potere reale: avrebbe fatto cioè del nominalismo, magari a carattere e struttura liturgici. Per esempio, a proposito dello sviluppo e del suo rapporto col progresso, chiamato però prudentemente ‘sviluppo civile’, ecco un brano dei suoi appunti di perfetta osservanza a un ‘cursus’ di carattere catechistico: […]
“Constatati i danni che derivano al paese dalla mancata connessione tra programma di sviluppo civile e programma economico, abbiamo tratto due conclusioni: primo, i partiti che assumono la responsabilità del governo del paese debbono, senza le impazienze dei tempi corti, cercare insieme di definire l’ispirazione, gli obiettivi, i modi, i tempi di un programma di sviluppo civile, il quale deve avere per sommo scopo l’espansione della personalità di ogni cittadino in una società democratica ad alta partecipazione civica e con forti vincoli comunitari, e di conseguenza non può essere un programma a corto respiro. Secondo: in coerenza col programma di sviluppo civile i partiti di governo debbono definire il programma economico. Constatate le manchevolezze sinora registrate dalla politica di programmazione economica, ne abbiamo dedotto, che essa oggi, utilizzando tutte le risorse naturali, le capacità tecniche, le energie umane disponibili – e quindi eliminando gli sprechi della inadeguata ricerca, della fuga dei cervelli e di capitali, dell’emigrazione – deve fissare le condizioni per un moderno equilibrato sviluppo…”
Dove il lettore è pregato di notare il valore eufemistico degli ablativi assoluti (“Constatati i danni ecc.”, e “Constatate le manchevolezze ecc.”). La dignità linguistica ‘ricalcata’ con spirito notarile dal latino conferisce alla materia quell’ufficialità che all’esame dei fatti indubbiamente manca loro nel modo più totale. Fuori dall’ablativo assoluto, quei “danni” e quelle “manchevole
zze” sono [indubbiamente] criminali; dentro l’ablativo assoluto invece si normalizzano, divengono momenti sia pur deplorevoli di negatività necessaria o inevitabile. L’elemento eufemistico del discorso diventa esplicito nelle espressioni “senza le impazienze dei tempi corti” e “non può essere un programma di corto respiro”. Cioè i fatti criminali possono essere perpetrati ancora. Il lettore è pregato ancora di notare gli ‘elenchi’, nel più squisito – quasi cantabile – cursus didascalico delle liturgie: “definire l’ispirazione, gli obiettivi, i modi, i tempi di un programma di sviluppo civile”, “tutte le risorse naturali, le capacità tecniche, le energie umane”, e infine “gli sprechi della inadeguata ricerca, della fuga di cervelli e di capitali, dell’emigrazione”: elenchi che hanno il potere liberatorio dell’“Atto di dolore” pronunciato al confessionale, con voce monotona e ufficiale, in quanto che, rendendo nominali i peccati compiuti nel momento ‘codificato e ufficiale’ del pentimento, li vanifica: e li vanifica, nella fattispecie, attraverso una tecnica mnemonica.Ma soprattutto pregherei il lettore di meditare sulla grande trovata consistente nell’invenzione dell’espressione governativa: “programma di sviluppo civile”, a sostituire l’espressione tipica invece delle sinistre: “progresso”. Qui c’è qualcosa di diabolico. Ossia la fiducia quasi magica nel potere dei nomi, che nasconde: primo, il carattere fascista di uno “sviluppo economico” non includente il“progresso”; secondo, il cambiamento di tale carattere fascista in quanto attuato appunto attraverso uno“sviluppo economico” e non più attraverso la classica violenza conservatrice; terzo, l’abbandono dei valori tradizionali simboleggiati (e non certo solo platonicamente) dalla Chiesa, a vantaggio della assunzione di nuovi valori (per esempio l’edonismo derivante dallo “sviluppo economico”) che cambia la realtà del potere da servire. Ma questi concetti nascosti non sono nominati appunto perché lo stile di tale ‘esame di coscienza’ è perfettamente e unicamente nominalistico!
[La liturgia continua ancora più] avanti, nel programma stilato nel cuore del nostro democristiano nuovo, che, liberatosi da un fascismo, non intende (a parole | almeno in parte!) cadere in un fascismo nuovo, che è innominabile. Stavolta si tratta di un ‘esame di coscienza’ esercitato all’interno del proprio essere; un’‘autocritica’ il cui oggetto è il ‘parassitismo’ che è un problema esclusivamente tipico di chi è al potere: per comodità del lettore traspongo la prosa nel suo reale schema di ‘cursus’ recitabile secondo il modello dell’omelia, o del “Mistero”:
Il fenomeno del parassitismo riguarda tutti coloro che
di volta in volta,
in cambio di un determinato guadagno ricevono beni
o servizi che ne valgono assai meno,
o addirittura intascano senza ceder nulla e tutto ciò fanno:
o sfruttando particolari posizioni di monopolio o quasi monopoliooooo,
o tempi difficiliiiii,
o altrui bisogni pressantiiiii,
o ignoranza dei richiedentiiii,
o deficiente sorveglianza dei soprastantiiii,
o esecuzioni trasandateeeee,
o non rispetto di giorni e di orari di lavorooooo,
o pratiche fraudolenteeee…
A cui viene irresistibile di aggiungere il suggello, recitato [a gran voce], di un “Aaaamen”, che retrodati definitivamente nella formula del rito o nella [semincoscienza] mnemonica questo (…) “Parassitismo”.
Idem più avanti: quando viene il momento di protestare la ferma (ma non precipitosa) volontà di assicurare la continuità del progresso economico, non disgiunto da quello civile:
Ma contemporaneamente va attuata una politica anticongiunturale fatta di misure contro l’inflazione,
atte a ridurre la domanda non necessaria,
le voci di deterioramento della bilancia dei pagamenti,
l’esuberanza di mezzi monetari in circolazione,
la fuga di capitali,
le evasioni fiscali,
gli squilibri di bilanci pubblici –
e fatta altresì di misure per l’aumento o almeno la
conservazione del ritmo di produzione,
del livello di occupazione,
del volume di esportazioni,
con il controllo qualitativo e quantitativo del creditooooo,
con misure di incentivazione,
con la difesa della domanda proveniente da ceti di bassi redditiiiii,
con agevolazione alla fornitura di prodotti e di servizi per i mercati esteriiiii…
“Aaaaamen”. Il cursus della voce recitante i “Misteri” inclina qui nettamente verso inflessioni di “Ritmi” goliardici, e il sentimento del sacrilegio e del fescennino è incombente.
Ad ogni modo, his fretus, ossia col suo memoriale in tasca, (…) Carlo fece la sua ricomparsa ufficiale in società in occasione della Mostra dell’Automobile […]»(Petrolio, cit., pp., 527-529)
«Carlo guardava quei fascisti che gli passavano davanti. […] Le persone che passavano davanti a Carlo erano dei miseri cittadini ormai presi nell’orbita dell’angoscia e del benessere, corrotti e distrutti dalle mille lire di più che una società “sviluppata” aveva infilato loro in saccoccia. […] I giovani avevano i capelli lunghi di tutti i giovani consumatori, con cernecchi e codine settecentesche, barbe carbonare, zazzere liberty; calzoni stretti che fasciavano miserandi coglioni. La loro aggressività, stupida e feroce, stringeva il cuore. […] Quella massa di gente sciamava per quella vecchia strada senza il minimo prestigio fisico, anzi fisicamente penosa e disgustosa. Erano dei piccoli borghesi senza destino, messi ai margini della storia del mondo, nel momento stesso in cui venivano omologati a tutti gli altri». (Petrolio, cit., pp., 501-503)
Sulla presenza dei fascisti, quelli di ieri e quelli di oggi, commentava tempo addietro anche dalle pagine di pasolini.net il giornalista e scrittore Enrico Campofreda:
«La forza intuitiva dell’intellettuale [Pasolini] sta comunque nell’aver compreso meglio dei politici della Sinistra parlamentare ed extraparlamentare che il Nuovo Fascismo andava ben oltre le sigle e le pratiche degli stragisti legati al Msi. Il disegno organico d’un Potere palese e occulto, democristiano e malavitoso e poi cangiante nelle formule politiche (centrosinistra e consociativo; Caf; oggi forzitaliota- postfascista) è tuttora in corso. All’interno di molti partiti non si sviluppa più una linea organica, magari con maggioranza e opposizione, bensì un disegno che coinvolge trasversali affarismi e gestione del Potere. Non è qualunquistico affermare che personalismi e affarismo più o meno celati esistono ormai ovunque e seppure fosse una questione personale nessuna Sinistra s’è liberata delle sue “mele marce”. Nei partiti gli uomini degli “affari” e della gestione occulta del potere hanno la meglio sugli uomini della moralità. È questo il Nuovo Fascismo che Pasolini temeva e combatteva e che ha ordinato la sua atroce fine». (settembre 2005)

(1/8 – continua)

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