Questo racconto, apparso cinque anni fa su "Nuovi Argomenti" (n. 32, ott-dic 2005), appena ripubblicato da "Nazione Indiana", rilancia – con argomentazioni assai lucide e acute – le considerazioni sulla morte di Pasolini che si stanno sviluppando da quando, ai primi di marzo, il senatore Dell'Utri ha annunciato di essere in contatto con qualcuno che possiede il capitolo inedito di Petrolio, intitolato Lampi sull'Eni.
«Ma quando tutta la sabbia insieme e senza vento
Prese le forme sue, si comprese
Che la rimozione urgente non bastava».
Sono i versi conclusivi di una poesia datata 5 novembre 1975, intitolata PPP la sua inchiesta, e rimasta inedita, come molte altre di quel periodo. Avevo ventisette anni, ero omosessuale e vivevo in Lombardia.
«Ti faccio fare la fine di Pasolini», me lo sentii dire un paio di volte negli anni successivi: era come uno slogan in certi ambienti, veniva usato come deterrente, quando non ci si comportava propriamente da 'clienti'.
Pasolini lo avevo incontrato in una occasione di poesia a Roma nel luglio del 1972, ma non ero riuscito a suscitare il suo interesse. In compenso sentii parlare molto di lui in quel mese di esami di maturità, come supplente neo-laureato nella commissione dell'Istituto Tecnico-Linguistico Femminile "Caterina da Siena" di via Panisperna. Non come regista o come scrittore, non ce n'era bisogno. Sentivo parlare di lui la sera dal mio aiuto-bagnino. Aveva vent'anni, lo avevo incontrato sulla spiaggia di Ostia, dove qualche volta mi recavo al pomeriggio dopo gli esami. Ero sceso a Roma con la mia 128 gialla nuova comprata a rate e targata Varese. La sera ci piaceva scorrazzare su è giù fino a Piramide e poi al centro. Tardi lo riaccompagnavo a Ostia e ci fermavamo proprio lì, nei pressi del Lido. Seppi tutto del Pasolini notturno: abitudini, contatti, preferenze, insistenze, concessioni. Era assolutamente noto presso chi non aveva letto una riga dei suoi scritti. Ma non aveva più 'storie' con nessuno. Mentre per me allora non era concepibile non vivere la storia. E con l'aiuto-bagnino Riccardo, che la sera indossava camicie sgargianti e portava pantaloni lucidi a zanna di elefante, io vissi una bellissima storia.
Tre anni dopo, quando accadde il disastro, Testori ricordò sul Corriere che sì, si cena con gli amici, ma più tardi – soli – si finisce col cedere e col cercare qualcuno nella notte. Mentre Arbasino, più pragmaticamente, scrisse che non era possibile che si finisse in un posto del genere senza avere ben deciso prima chi doveva fare che cosa a chi.
Io avevo capito. Trovavo ragionevole che per Arbasino dovesse essere così, ma sapevo da fonte certa che per Pasolini così non era. Non era più così da tempo. Con alcuni ragazzi il suo gioco era proprio quello di farli anche cedere. Un gioco più che altro cerebrale, che difficilmente concretizzava: gli bastava il gesto del cedimento. Che contestualmente significava anche avere chiuso con lui per sempre. Solo chi gli resisteva e lo 'menava' aveva nuove chance di incontro.
PER QUESTO MI PARVE VEROSIMILE IL PRIMO RACCONTO DI PELOSI.
Per questo non mi parvero convincenti le posizioni di chi, come Enzo Siciliano, Alberto Moravia, Laura Betti – da subito e molto saggiamente, dico oggi – parlò di agguato ordito contro di lui. Erano le attribuzioni relative all'agguato che proprio non mi convincevano: neofascisti e/o il racket della prostituzione maschile (sul quale, si aggiungeva, Pasolini da tempo stava indagando). Oppure altre inchieste che forse stava conducendo. Ma a chi potevano dare fastidio le inchieste di un poeta che parlava di lucciole e di nuche di adolescenti? Pensavo: solo chi conosce il nostro mondo dall'interno può capire. Ero d'accordo con Bellezza, con Naldini.
Trascorsero diciassette anni. Pelosi intanto usciva e tornava in galera per piccoli furti e spaccio.
Apparve Petrolio. Non mi bastò: lo lessi a tratti, svogliatamente, infastidito. Carlo nel salotto: narcisista. Carlo si autoaccusa, tra quelli dei nemici mette anche il suo nome: masochista. Carlo si fa dieci ragazzi infoiati in fila: non giova alla causa dei nostri diritti civili. Certe parti contro l'Eni e la DC le saltai a pie' pari, pensando che ormai era cambiato tutto: non aveva più senso pensare alla DC. Un romanzo fallito più che incompiuto, mi sembrava, già era troppo lungo così.
Perché oggi sono qui ad accusarmi di miopia e a chiedere scusa alla sua memoria e a coloro che colsero subito la verità? Perché in rete ho visto finalmente le foto del suo corpo martoriato.
Chiunque si rende conto che quel massacro non può essere stato compiuto da un ragazzo ritrovato con una sola macchiolina di sangue sul pantalone. Persino ammettendo che lo abbia davvero travolto fuggendo in auto. Erano in tre o quattro, avevano le catene, disse subito il testimone che abitava nella baracca lì vicino (NON PIU' INTERROGATO): gli gridavano «arruso» e «comunista», lui gridava «basta» e poi «mamma», che fu la sua ultima parola. Il volto e il corpo recano i segni della lapidazione. Solo nell'estate del 2005 ho visto quelle foto. Dopo la confessione televisiva di Pelosi del 7 maggio 2005.
E sono grato a Gianni D'Elia e al suo editore Giovanni Giovannetti (Effigie) che – invitandomi a presentare a Milano alla Festa dell'Unità nell'agosto 2005 L'eresia di Pasolini insieme a Barbacetto di "Diario" – mi indussero a rileggere Petrolio.
Oggi mi resta solo il dubbio se Pelosi fu esca consapevole o inconsapevole. Propendo per la seconda ipotesi. Con forti minacce per farlo tacere fattegli giungere in carcere, immediatamente dopo l'arresto. Pelosi doveva scappare e basta. A piedi. Nel piano degli assassini.
Ormai che la verità sia in Petrolio e soprattutto nel petrolio non lo dice un poeta o uno scrittore, ma un giudice. Come D'Elia ricorda a p.98 del suo libro: «Secondo il giudice Vincenzo Calia, che ha indagato sul caso Mattei, depositando una sentenza di archiviazione nel 2003, le carte di Petrolio appaiono come fonti credibili di una storia vera del potere economico-politico e dei suoi legami con le varie fasi dello stragismo italiano fascista e di stato». E ancora: «Calia ha scoperto un libro, che è la fonte di Pasolini, un libro nato dai veleni interni all'ente petrolifero nazionale». Pubblicato nel 1972 sotto pseudonimo, Questo è Cefis (L'altra faccia dell'onorato presidente) fu subito ritirato dalla circolazione e mandato al macero per ordine della magistratura. Pasolini riuscì ad averlo in fotocopia. In Petrolio «l'onorato presidente» si chiama Troya.
PASOLINI E' STATO UCCISO PERCHE' STAVA PER SCRIVERE SUL CORRIERE LA VERITA' SUL CASO MATTEI.
Stava per dimostrare che le Sette sorelle non c'entravano, che la questione era interna, nostra, italiana; veniva da una saldatura tra istanze di potere politico-mafioso e certe disinvolture 'resistenziali' per le soluzioni drastiche: Cefis e Mattei erano stati entrambi anche uomini della Resistenza.
E oggi possiamo forse domandarci quanto di quella acutezza nella conduzione della sua indagine venne a Pasolini dalla conoscenza dei meccanismi interni alla fine drammatica del fratello maggiore Guido.
Come ho potuto per tanti decenni – io intellettuale, io poeta, io omosessuale – non capire?
In parte, certamente, fu per i comportamenti di Pasolini nella sua vita 'pr
ivata'. Che di privato non aveva nulla. E furono proprio quei comportamenti che indussero i mandanti e gli assassini ad andare sul sicuro: stavano costruendo un delitto verosimile con tanto di movente. Ci cascarono molte persone oneste, come il pittore Gabriele Mucchi, rigorosamente marxista, che si schierò violentemente a difesa di Pelosi, considerandolo vittima dello sfruttamento sessuale di chi adescava minorenni con l'Alfa 2000.
Per incidens, alla fine di maggio 2005, dopo la confessione televisiva di Pelosi, nella trasmissione di Rai 3 che si occupa di critica televisiva con i giovani analisti della Cattolica di Milano, la signora Poggialini, critico di "Avvenire", definì Pasolini «pedofilo», tout court. Un'accusa assurda alla quale nessuno dei presenti ritenne di dover obiettare.
Ma la vera ragione per cui, per tanti decenni, sono rimasto al buio, l'ho capita casualmente imbattendomi in questa frase del libro di D'Elia: «L'omicidio di Pasolini è stato un atto premeditato e politico, non un delitto omosessuale».
UN DELITTO OMOSESSUALE?
La questione non è solo lessicale. Diventa subito di sostanza. Nel delitto di gelosia è il geloso che uccide. Ad uccidere gli omosessuali, invece, sono sempre degli eterosessuali che ci tengono tantissimo a dichiararsi tali. (Ed è questa la ragione per cui gli omosessuali li cercano). Ricorrendo a tale definizione, se ne perpetua oggettivamente l'assassinio, inducendo quelli ottusi e miopi come me a ritenere verosimile, concepibile, spiegabile un delitto 'omosessuale'. Un delitto omofobico, piuttosto, si dovrebbe dire.
Quindi, non si dica che Pasolini – comunque – è stato ucciso dalla sua debolezza, che lo induceva a porsi in situazioni 'a rischio' con i maschi 'eterosessuali'. L'omofobia ha solo reso più cruento un delitto politico.
PASOLINI SAREBBE STATO UCCISO LO STESSO. AVREBBE FATTO LA FINE DEL GIORNALISTA MAURO DE MAURO. Che fu fatto sparire proprio mentre indagava sul caso Mattei: mafia-Eni-Dc.
Ma a differenza del coraggioso giornalista De Mauro, il coraggioso giornalista Pasolini fu anche un artista, un grandissimo artista, che attraverso il personaggio di Carlo – il cui corpo in Petrolio si consustanzia in merce, divenendo esso stesso petrolio – è riuscito a trasformare l'inchiesta che gli costò la vita nell'opera letteraria-summa della realtà italiana nel secondo dopoguerra.
5 aprile 2010 alle 19:40 |
Sul capitolo scomparso di PetrolioChe le carte di un grande scrittore, conservate a lungo nel segreto di qualche cassa, attirino molta curiosità, è più che naturale. È successo anche con le 11 lettere private di J. D. Salinger. Dopo la sua morte, avvenuta in gennaio, si è deciso di esporle alla Morgan Library di New York, le prime quattro il 16 marzo, le altre il 13 aprile. La notizia ha avuto grande eco sulla stampa internazionale. E il 16 marzo le lettere erano lì. E certo ci saranno anche le altre, alla data prevista. Ma in Italia le cose vanno in un altro modo. Dell'Utri si giustifica così: il clamore sorto attorno alla notizia ha "spaventato" chi gli aveva mostrato e promesso l'inedito. Anche le lettere di Salinger hanno suscitato clamore, ma nessuno si è tirato indietro per questo. C'è anche chi pensa che l'annuncio del senatore Dell'Utri, imputato per concorso esterno in associazione mafiosa, fosse un avvertimento in codice, rivolto a non si sa chi. Comunque sono andata alla Mostra di Milano a vedere con cosa avessero rimpiazzato l'inedito. In una teca di vetro, assieme alle prime edizioni delle opere di Pasolini, c'era Questo è Cefis, di cui dirò dopo. E accanto, un libro ancora più strano, intitolato L'uragano Cefis. Autore Fabrizio De Masi, editore non si sa, perché il nome in copertina e sulla costola era coperto di bianchetto. La didascalia diceva 'a cura di Laura Betti, Giovanni Raboni e Francesca Sanvitale'. Non poteva essere. Ho chiesto perciò di poter aprire quel libro. Sono andati a cercare il curatore, ma non sono riusciti a trovarlo. Poi mi hanno detto, un po' imbarazzati, che per ordini superiori quel libro non si poteva mostrare. Ma torniamo all'inedito. Dell'Utri dice che è un capitolo trafugato di Petrolio, l'opera a cui Pasolini stava lavorando al momento della morte. Precisamente quello intitolato 'Lampi sull'Eni', di cui nell'edizione in volume è rimasto solo il titolo e una pagina bianca. Come si poteva allora pensare che un simile scoop non avrebbe scatenato l'attenzione di tutti i giornali? Pasolini non è meno noto di Salinger, né meno avvolto di mistero. Di Salinger si ignora quasi tutto sulla vita. Di Pasolini si ignora quasi tutto sulla morte. Nonostante siano passati 35 anni, ancora non si conoscono né gli autori del delitto né i moventi. Esiste, certo, una ricostruzione ufficiale, che parla di una rissa di natura sessuale tra due persone e di cui ci si è accontentati per anni. La riportano anche le storie letterarie. Molti letterati ci hanno ricamato su: la "morte poetica" di Pasolini, il suo "capolavoro"! Una morte "sacrificale", persino "cercata". Giuseppe Zigaina, amico di Pasolini, ha scritto per Marsilio ben cinque libri, in cui sostiene che lo scrittore avrebbe "organizzato" la propria morte per "entrare nel mito". Tutto questo oggi suona grottesco, persino ambiguo. Quella versione, che tanto piace ai letterati, si è rivelata sempre più come una copertura, servita a sviare le indagini e a celare un altro tipo di delitto. Già il tribunale di primo grado condannò il diciassettenne Pino Pelosi assieme a ignoti, lasciando aperte molte domande. Ma poi, nel 2005, scontata la pena, Pelosi ha ritrattato, e ha detto di essersi accusato dell'omicidio perché sotto minaccia. Sono emerse anche altre testimonianze a suo tempo trascurate dagli inquirenti. Sono venute allo scoperto le negligenze e le coperture che hanno accompagnato fin dall'inizio tutta la vicenda. Molti le hanno raccontate: Gianni Borgna e Carlo Lucarelli nel saggio "Così morì Pier Paolo Pasolini" («Micromega» n. 6, 2005); Gianni D'Elia in L'eresia di Pasolini e Il petrolio delle stragi (Effigie, 2005 e 2006); Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza in Profondo nero (Chiarelettere, 2009). Dopo la ritrattazione di Pelosi il Comune di Roma, con Veltroni sindaco e Borgna assessore alla Cultura, si è costituito parte offesa. Ma la Procura non ritenne necessarie nuove indagini. C'è stato un appello lanciato dalla rivista «Il primo amore» (n. 1, 2006) per chiedere la riapertura del processo, firmato da un migliaio di persone in Italia e all'estero, e presentato al presidente della Repubblica. E nel 2009 una nuova istanza è stata depositata alla Procura di Roma dall'avvocato Stefano Maccioni e dalla criminologa Simona Ruffini. La storia d'Italia è piena di capitoli oscuri: bombe, omicidi, finti suicidi, sparizioni, finti incidenti, Mattei, De Mauro, Feltrinelli, Dalla Chiesa, Falcone, Borsellino, Rostagno, Ilaria Alpi, D'Antona, Biagi, Michele Landi, tutti i testimoni di Ustica… A ogni morte un fascicolo distrutto, un memoriale scomparso, un computer manomesso. Anche l'omicidio di Pasolini è uno di quei capitoli bui? Lo strano caso del manoscritto annunciato e ritirato si inserisce in questo quadro. Petrolio uscì postumo da Einaudi nel 1992, ben17 anni dopo l'omicidio, un ritardo solo in parte giustificato dall'incompiutezza del manoscritto. A curarne l'edizione furono Graziella Chiarcossi (erede di Pasolini e moglie dello scrittore Vincenzo Cerami), Maria Careri e Aurelio Roncaglia. Secondo la Chiarcossi (intervistata da Paolo Mauri su «Repubblica» del 31 dicembre 2005) Pasolini ha lasciato in bianco quel capitolo. Eppure in una pagina di Petrolio quel capitolo viene richiamato come se fosse già scritto: "Per quanto riguarda le imprese antifasciste (…) della formazione partigiana guidata da Bonocore [Enrico Mattei, nella finzione del romanzo] ne ho già fatto cenno nel paragrafo intitolato "Lampi sull'Eni", e ad esso rimando chi volesse rinfrescarsi la memoria" (p. 97). Nico Naldini, cugino e biografo di Pasolini, intervistato il 5 marzo su «il Giornale» e «Avvenire», ribadisce la negazione: "Per quanto ne so, non esiste alcun capitolo scomparso di Petrolio, con risvolti inquietanti sull'Eni". Eppure della scomparsa di quel capitolo si sospetta da tempo, anche perché, stando alle ultime dichiarazioni di Pasolini, Petrolio avrebbe dovuto essere molto più lungo di quello che ora abbiamo. Ma quel che stupisce è la frettolosità, anche da parte di alcuni giornali, nel negare che questo inedito possa esistere, e nell'irridere chi chiede spiegazioni Mentre la convinzione che il capitolo esiste si fa strada tra molti (anche il curatore dell'esposizione pasoliniana alla Mostra, Alessandro Noceti, su «il Giornale» del 4 marzo ha dichiarato che quelle pagine "erano all'interno di una cassa. La cassa apparteneva ad un Istituto che ne è anche proprietario"), Walter Siti, curatore degli opera omnia di Pasolini (Meridiani, Mondadori), intervistato da Francesco Erbani su «Repubblica» del 4 marzo, non pare scosso da dubbi: "La stessa idea di un capitolo mancante contrasta con la struttura di 'Petrolio', un testo già di per sé così lacunoso". Giusto, di lacune ce ne saranno diverse. Ma cosa pensa il curatore di quella in particolare? L'edizione sua e di Silvia De Laude, molto accurata nelle note filologiche, non nota niente sul perché Pasolini rinvii il lettore proprio a quel capitolo in bianco. Ma le stranezze non finiscono qui. Se quelle pagine esistono, da chi e come sono state prese? Graziella Chiarcossi nega che ci sia stato un furto di carte nella casa di Pasolini, in c
ui viveva con il cugino. E lo nega anche Naldini. Ma un altro cugino, Guido Mazzon, sostiene che il furto ci fu. Ne aveva già parlato D'Elia nel suo libro. E ora Mazzon lo riconferma a Paolo Di Stefano sul «Corriere della Sera» del 4 marzo. "Nel '75, dopo la tragedia di Pier Paolo, Graziella chiamò mia madre per dirle di quel furto. Quando mia madre me lo riferì, pensai: 'Accidenti, con quel che è capitato ci mancava pure questa'. E pensai anche: 'Strano però, che senso ha andare a trafugare le carte di un poeta?". Senza contare poi che quelle pagine avrebbero potutto anche essere state sottratte in altro modo, senza alcun furto. Ma cosa ci sarebbe di tanto inquietante in quelle pagine? Appena uscito, Petrolio suscitò un grande dibattito e molta attenzione tra i critici. Io stessa, assieme a Maria Antonietta Grignani, gli dedicammo nel 1993 un convegno all'Università di Pavia intitolato "A partire da Petrolio. Pasolini interroga la letteratura". Si trattava di un'opera assai insolita, sia per la forma sia per il contenuto. Non è scritta come lo sono normalmente i romanzi. Non c'è un narratore che racconta una storia, ma un autore che costruisce man mano il progetto di un romanzo da farsi. Ed è in questa forma che Pasolini pensava di pubblicarlo. Egli aveva del resto già sperimentato questa peculiare forma-progetto in opere cinematografiche come Appunti per un film sull'India e Appunti per un'Orestiade africana. E anche nella Divina mimesis, data alle stampe poco prima della morte. Quanto al tema, a me è sempre apparso come un'opera sul potere, che cerca di renderlo visibile in tutte le …
5 aprile 2010 alle 19:44 |
… sue forme, attraverso "Visioni". Vi si parla anche di stragi, di bombe alla stazione, dell'Eni, che Pasolini considera non solo un'azienda ma "un topos del potere". E si parla anche della morte di Mattei. Non potevano del resto mancare questi ingredienti in un libro intitolato Petrolio, il vello d'oro di oggi, per il quale si fanno le guerre e viaggi in Oriente, come li fece Mattei, come un tempo li fece Giasone con gli Argonauti (altro tema del libro). All'Eni avrebbero dovuto essere dedicati dieci appunti, dal 20 al 30, tutti però mancanti, eccetto il 22 e il 23. Ne è rimasto però uno schema riassuntivo finale. Si intitola "Storia del problema del petrolio e retroscena", che contiene uno specchietto e questa annotazione: "In questo preciso momento storico […] Troya [nome nella finzione dato a Eugenio Cefis] sta per essere fatto presidente dell'Eni: e ciò implica la soppressione del suo predecessore (caso Mattei)". E poco dopo scrive: "Inserire i discorsi di Cefis". Quindi Pasolini spiega il delitto Mattei in modo diverso da quello più accreditato. Non chiama in causa gli interessi americani, le sette sorelle, l'Oas, i servizi segreti. No. Mattei è stato ucciso per far posto a Troya, cioè a Cefis. Chi prese quelle carte doveva essere a conoscenza del contenuto. Ma non lavorò alla perfezione. Forse per scarsa dimestichezza con la forma compositiva del libro, o forse per la fretta lo schema gli sfuggi? Nel gennaio 2001 lessi su 'la Stampa' un articolo sulla morte di Mattei. Parlava di nuove indagini condotte dal giudice Vincenzo Calia della Procura di Pavia. Con un lavoro di anni egli aveva ricostruito questo scenario: Mattei fu fatto fuori da un'oscura regia politico-istituzionale tutta interna all'Italia, di cui Eugenio Cefis teneva le fila. Le stesse conclusioni di Pasolini 25 anni prima. E probabilmente le stesse a cui era giunto Mauro De Mauro, il giornalista scomparso a Palermo nel 1970, a cui il regista Francesco Rosi chiese di indagare sugli ultimi giorni di Mattei per il film che stava girando. L'articolo della "Stampa" parlava anche di Petrolio di Pasolini, e per questo attirò la mia attenzione. Il magistrato aveva inserito nell'istruttoria proprio quella pagina con lo specchietto. Ho incontrato il giudice Calia a Roma nel 2003 a un convegno su Pasolini. Tra i relatori c'era anche il senatore Giovanni Pellegrino, ex presidente della Commissione parlamentare sulle stragi, che sottolineò l'esattezza delle conclusioni a cui era giunto Pasolini in Petrolio riguardo alla duplice natura delle stragi. Finito il convegno ci fermammo a parlare con Calia, seduti a un tavolo, con Gianni Borgna, Gianni D'Elia, la moglie di Calia e altre due persone di cui non ricordo i nomi. Quella conversazione andò avanti per ore. Calia aveva portato uno strano libro, Questo è Cefis: proprio il volume che hanno esposto alla Mostra di dell'Utri. Pubblicato nel 1972 con lo pseudonimo di Giorgio Steimez dall'Agenzia Milano Informazioni, di Corrado Ragozzino. Finanziato da Graziano Verzotto, amico di Mattei, probabilmente con funzione di avvertimento o di minaccia nei confronti di Cefis, il libro fu fatto subito sparire dalla circolazione. La moglie di Calia l'aveva trovato per caso su una bancherella. E il magistrato ci spiegò, testo alla mano, che nell'Appunto 22 ("Il cosiddetto impero dei Troya"), le informazioni di Pasolini su Cefis venivano da lì. Oggi quel libro e' ormai noto agli studiosi di Pasolini. Lo si trova anche qui, sul "Primo amore". In settembre sara' ripubblicato da Effigie. Ma allora non non se ne sapeva niente). Ricordo la serietà e la sobrietà del magistrato, da cui traspariva un'alta statura umana. Si parlo' anche della finzione del manoscritto ritrovato, a cui fa ricorso Pasolini. Io dissi qualcosa sulla 'Divina Mimesis', il cui autore si dà per "morto, ucciso a colpi di bastone a Palermo". La reazione di Calia fu di voler andare immediatamente in libreria a comprare quel libro, che non conosceva. Ma erano già le dieci di sera. Era convinto che si riferisse a De Mauro (non al Gruppo 63, ostile a Pasolini, e riunitosi a Palermo, come leggono molti critici). A un certo punto posi al magistrato una domanda diretta: "Ma è possibile che facciano fuori uno scrittore?" La risposta fu: "Possibilissimo. E se vuole la mia opinione, io ne sono convinto". Quelle parole mi lasciarono un segno e un senso di vertigine. Se quelle pagine venissero recuperate, non sarebbero solo un prezioso ritrovamento letterario. Finché l'assassino siede sul trono di Danimarca, il fantasma del re ucciso non ha pace. E nemmeno il figlio. Non ci sarà pace finché il mondo resterà così fuori dai cardini, con i colpevoli impuniti e le storie letterarie che raccontano di Pasolini ucciso mentre tentava di violentare un ragazzo. Carla Benedetti – Giallo Pasolini – "l'Espresso" n.13, 31 marzo 2010
6 aprile 2010 alle 21:56 |
Il romanzo postumo di Pasolini, Petrolio, scritto tra il 1972 e il giorno della sua esecuzione (nella notte tra l’l e il 2 novembre del 1975), è come una bomba che non è esplosa. È stata disinnescata dal suo delitto, pubblicata diciassette anni dopo, quasi sicuramente monca, con un intero “paragrafo” che è volato via ed è stato fatto brillare altrove, dove i Lampi sull’Eni non hanno fatto rumore, né vera luce. La bomba di Pasolini era la verità, la sua ricerca del filo nero che dalla morte per attentato di Enrico Mattei conduce alla strategia delle stragi degli anni più bui dell’Italia. Questa bomba socratica, per quanto già piazzata in parte e innescata sul massimo organo giornalistico della borghesia italiana degli anni Settanta, il Corriere della Sera diretto da Piero Ottone, non è mai esplosa in tutta la sua potenza, anche se il sunto del paragrafo scomparso già basta ed è bastato a tanti artificieri della letteratura e della politica, specializzati nella custodia e nel maneggio di esplosivi, per sbarazzarsene in fretta e con protervia. Petrolio era un grande progetto d’opera, previsto in duemila pagine, di cui ci restano 522 cartelle; mettiamoci altri due o tre anni di lavoro, che uscisse nel 1978, dopo la tragedia patita da Aldo Moro. Lo apriamo, leggiamo: “La bomba è fatta scoppiare: un centinaio di persone muoiono, i loro cadaveri restano sparsi e ammucchiati in un mare di sangue, che inonda, tra brandelli di carne, banchine e binari. (…) La bomba viene messa alla stazione di Bologna. La strage viene descritta come una ‘Visione’”. Da pagina 542 a pagina 546, edizione Einaudi 1992, saltiamo all’indietro, alle pagine 117-18, dove si parla della guerra del petrolio tra Cefis (Fanfani, fisicamente) eMonti (Andreotti, fisicamente). Pubblico, privato, potere, economia politica delle stragi. E Cefis, Eugenio Cefis, viene ribattezzato nella finzione romanzesca Aldo Troya, che “sta per essere fatto presidente dell’Eni: e ciò implica la soppressione del suo predecessore (caso Mattei, cronologicamente spostato in avanti)”. Cosa sarebbe successo nell’Italia (e nel mondo, date le immancabili traduzioni all’estero) del 1978, alla lettura di queste pagine? E perché, ancora, tanta sordità storica? Quelle prove e quegli indizi che, nel famoso articolo poi ripreso negli Scritti corsari (1975), Pasolini dice di non possedere, li sta raccogliendo nel romanzo: Io so. Da quel 14 novembre 1974, quando esce Il romanzo delle stragi (che il Corriere pubblica col titolo Che cos’è questo golpe?), una settimana dopo l’incriminazione dei vertici del Sismi, il servizio segreto militare, per il fallito golpe Borghese dell’8 dicembre 1970, Pasolini viene lasciato solo come un cane, in attesa che si chiudano i conti col suo dire. Come in un’orazione di Cicerone o nel teatro di Shakespeare, ecco l’anafora di denuncia del sapere poetico-politico che inchioda i responsabili, gli esecutori materiali, i vertici dei potenti, del Palazzo e del Cane a sei zampe, i fascisti e i neofascisti, che hanno prodotto e gestito le varie fasi di azione e di depistaggio delle stragi in Italia, da Milano a Brescia a Bologna, dal 1969 al 1974, con la complicità dei servizi segreti italiani e stranieri e della mafia. Il testimone-giornalista si affianca all’intellettuale-detective e allo scrittore-romanziere; la sintesi tra il testimone e il romanziere è operata dall’intellettuale, che riflette sul “blocco politico economico” dello stragismo, e che agisce come un investigatore dei delitti collettivi, attestando la continuità del reato di strage: il delitto Mattei, le due fasi stragiste, anticomunista e antifascista, da addossare agli opposti estremismi, prima agli anarchici e poi ai fascisti, per disfarsene dopo averli usati. Pasolini sta continuando da solo la controinchiesta collettiva sulla “Strage di Stato” (edita da Samonà e Savelli, 1970-71). E proprio in quel famoso articolo, dove dice di sapere i nomi, ma di non avere né prove né indizi (forse anche per mettere le mani avanti e proteggersi in qualche modo dall’isolamento intellettuale e politico che sente e che patisce), ecco la pazzesca allusione sottotraccia all’opera che sta facendo, da romanziere della verità: “Tutto ciò fa parte del mio mestiere e dell’istinto del mio mestiere. Credo che sia difficile che il mio progetto di romanzo sia sbagliato, che non abbia cioè attinenza con la realtà, e che i suoi riferimenti a fatti e persone reali siano inesatti”. Progetto di romanzo, fatti e persone reali, sta parlando di Petrolio, del suo cantiere del vero e del desiderio imploso, che nel novembre del 1974 è già in stato avanzato; tanto è vero che l’articolo scritto per il Corriere pesca nel romanzo i suoi materiali, correggendo subito nella prosa d’intervento qualche errore, come ho mostrato nel mio libello Il Petrolio delle stragi (Effigie, 2006): le prime bombe sono attribuite agli anarchici, e non ai fascisti, “per creare in concreto la tensione anticomunista”; e la “verginità” che la “cricca dei politici” si devono ricostruire non sarà certo quella “fascista”, ma quella “antifascista”, “per tamponare il disastro del referendum” (sul divorzio, 12 maggio 1974). E lo studio dell’intertesto dimostra la cura dello straordinario giornalista che fu Pasolini. Pasolini sta addosso alla prima P2, e l’articolo più famoso pesca proprio dal sunto del capitolo scomparso, Lampi sull’Eni, che egli aveva certamente già scritto, come risulta a pagina 97 di Petrolio, nonostante tutte le negazioni degli eredi e dei curatori: “ne ho già fatto cenno nel paragrafo intitolato Lampi sull’Eni, e ad esso rimando chi volesse rinfrescarsi la memoria”. Era la battaglia di Laura Betti, la nostra. Dunque, chi ha sottratto questo capitolo, ora annunciato e passato per le mani della mammola Marcello Dell’Utri? Ancora un lupo palermitano, condannato per mafia e amico di piduisti al governo, sulla strada dello scrittore assassinato; quasi una nemesi al contrario della bibliofilia. Gira voce che un antiquario abbia visto il dattiloscritto di questo capitolo sparito dalla sua sede, dopo il delitto di Pasolini, ma che non sia disposto a confermarlo in pubblico; per laMostra del Libro Antico, che si è chiusa a Milano il 14 marzo, ora Dell’Utri ha parlato di una cassa di un istituto in cui sarebbe stato conservato; e c’è un’altra voce, raccolta da un giovane ricercatore, sempre di un antiquario o consimile, che risale però al 1980, che confermerebbe…
6 aprile 2010 alle 21:56 |
…di avere visto Lampi sull’Eni nella cassaforte di una banca. Lì si raccontava la storia mista e ambigua della Resistenza bianca e repubblicana, di Mattei e di Cefis che erano nella stessa formazione in Val d'Ossola, che Pasolini sposta in Brianza (che profezia del futuro!), dei contatti di Cefis con gli americani, di soldi e di armi, della sua carriera e del suo scandalo, e infine del delitto di Mattei, sostituito alla guida dell’Eni proprio da Cefis, un anno dopo il suo allontanamento dall’ente petrolifero nazionale, dopo l’attentato del 27 ottobre 1962. Il giudice Vincenzo Calia, dopo dieci anni di indagini, ha archiviato il caso il 20 febbraio 2003 presso il Tribunale di Pavia, provando l’attentato ma dichiarando il muro del segreto politico italiano. Come il giornalista De Mauro e il giudice Scaglione, l’uno sparito per sempre il 16 settembre 1970 e l’altro ucciso per strada a Palermo il 5 maggio 1971, Pasolini indagava su Mattei, attirato anche lui dalla calamita delle rivelazioni di Graziano Verzotto, ex uomo dell’Eni di Mattei in Sicilia ed ex capo democristiano, senatore e segretario regionale, nemico di Cefis. Calia ha svelato per primo l’altra fonte scritta di Petrolio, il libro al veleno di Giorgio Steimetz (alias Corrado Ragozzino): Questo è Cefis, l’altra faccia dell’onorato presidente, pubblicato dalla Agenzia Milano informazioni nel 1972, finanziata da Verzotto, già presidente dell’Ente minerario siciliano in guerra con l’Eni di Cefis. Pasolini aveva letto questo libro, introvabile e fatto subito sparire dal terribile Eugenio, ricevendolo in fotocopia da Elvio Fachinelli, che aveva pubblicato alcuni discorsi di Cefis sulla sua rivista L’Erba Voglio. Secondo due appunti segreti del Sismi e del Sisde scoperti da Calia, Cefis aveva fondato la loggia P2 per poi passarla al duo Gelli-Ortolani, per paura, dopo lo scandalo dei petroli, tra il 1982 e il 1983. Era questa la bomba di Petrolio? Dunque, Pasolini aveva capito forse troppe cose, non solo del delitto Mattei ma anche delle stragi di Stato, di cui quel delitto è la prima pietra, o forse la seconda, se la strage di Portella della Ginestra del 1947 è la prima, fino alla strage di Bologna del 1980 e alle stragi di mafia del 1992-93, tra azioni omicide, falsi e depistaggi abnormi. Commemorando il quarantennale della strage di Milano del 1969, recentemente il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha detto: “Continuare a cercare ogni frammento di verità”. Cefis è morto nel 2004, Verzotto è vivo e malato. Dopo tanti decenni, ci aspetteremmo dalla classe politica e dalle istituzioni ben altro che un invito al frammento. Ci aspetteremmo l’insieme della verità sulle stragi e sui tanti delitti politici collegati, seguendo il rifiuto di Pasolini contro la separazione dei fenomeni: 1) togliere il segreto di Stato dal 1947 ad oggi; 2) fare una legge semplice, di un articolo: chi ha fatto parte degli elenchi segreti della P2 e ha tradito la Repubblica, sia interdetto in perpetuo e decada dagli incarichi pubblici. Pasolini è morto nella notte tra il 1° e il 2 novembre 1975. Gianni D’Elia, Il Fatto Quotidiano, 2 aprile 2010