Il tamburo di lotta

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A trent’anni dagli scioperi del Baltico – nona parte
Le storie. Stanislaw Dziedziul (1932)
di Giovanni Giovannetti

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Poche decine di metri separano i cantieri di Danzica dalla Poczta Polska, la posta, un bel palazzo in mattoni rossi rivolto a ovest. In questo edificio, la mattina del 1° settembre 1939, le SS attaccano e uccidono metà dei cinquanta impiegati. Sono i primi morti della seconda guerra mondiale. Dal mare, l’incrociatore Schleswig-Holstein bombarda il deposito di munizioni della Westerplatte, una penisola all’imbocco del canale. La ”città libera” e la sua guarnigione di 182 uomini resistono per una settimana ai tedeschi.


Stanisław ritorna a Danzica

Pochi giorni dopo, a est, presso Vilnius, un bambino di 7 anni si vede irrompere in casa un soldato con la stella rossa sul berretto. Quel bambino si chiama Stanisław Dziedziul e lavora la terra con i genitori e i sei fratelli. Due anni dopo, quando ha 9 anni, un vagone merci ferroviario lo deporterà con la famiglia in Siberia, in un gulag.
Non tutta la famiglia. Una sorella si dà alla macchia e la scampa. Un polacco in meno viaggia verso la Russia più remota. Del resto, 800.000 possono bastare: «Ci hanno portato via come criminali. Era giugno e faceva molto caldo. Un viaggio di tre settimane, con cibo che bastava appena a tenerci in vita».
Nel 1953, Stanisław trova lavoro nei cantieri Lenin di Danzica e prende parte ai moti del 1956, del 1970, del 1976 e del 1980. È in cantiere anche nel dicembre 1981. Ma la grande esperienza della sua vita resta quel viaggio assurdo e i cinque anni che seguono, a vivere in baracche senza tetto. Uomini e donne a fabbricare mattoni alla fornace e a falciare il grano per 100 rubli al mese. I soldi non bastano neppure per un pezzo di pane nero, ma Stanisław e i suoi vendono le patate al mercato del paese due volte la settimana, 100 chili, e col ricavato comprano indumenti e altro cibo.
D’estate è più facile sopravvivere. I bambini hanno imparato a riconoscere la cipolla selvatica, l’acetosa e il biancospino, che crescono spontaneamente nei dintorni del gulag: «Era roba dura da masticare, ma riempiva bene lo stomaco». D’inverno, vivono in baracche a tre piani. L’acqua e l’urina filtrano tra un piano e l’altro, fa molto freddo, così come fa molto caldo d’estate. Durante il lungo inverno siberiano, tutto viene sepolto dalla neve, anche le case. Per il freddo, la fame, gli stenti muoiono in molti.

Nel 1943, arrivano alcuni militari inglesi che cercano uomini da reclutare. Un fratello parte con loro per l’Iran, l’Iraq; combatte anche in Italia, a Montecassino, nella prima Divisione polacca. Un altro fratello, dopo un periodo di prigionia in un gulag ancora peggiore, combatte i tedeschi a Leningrado, per arrivare poi con l’Armata rossa fin quasi a Berlino.
Tornano nel 1946, tutti salvi. Ma Vilnius, dal 1944, è ormai una città russa. Ai cattolici polacchi e lituani i sovietici impediscono le pratiche di culto e vietano il possesso di icone sacre. Nel 1949, molte chiese sono chiuse e i sacerdoti deportati o perseguitati. Svaniscono così le ultime speranze di Stanisław e dei familiari di tornare da polacchi a casa loro. Vengono mandati a ovest, vicino al confine con la Germania.
Nel 1949 la famiglia si stabilisce nelle campagne intorno a Danzica e, da contadino, Stanisław diventa saldatore nei cantieri: 12-16 ore di lavoro al giorno. Si sposa nel 1959; nel 1961 e nel 1967 nascono i figli, poi quattro nipoti. Nel 1993 Stanisław va in pensione, ma è un saldatore esperto e fino a poco tempo fa ha integrato la pensione con un po’ di lavoro supplementare qualificato presso la Marine Metal. All’inizio va bene. Ma poi la ditta ha pochissime commissioni e lo lascia a casa. Stanisław si augura che la situazione possa cambiare, ha lavorato tutta la vita, non saprebbe che altro fare. Non ha problemi economici: 1600 złoty di pensione (circa 350 euro), 200 złoty extra perché è stato un combattente, più una indennità per malattia di lavoro. I soldi che guadagnava alla Marine Metal sono andati tutti alla figlia disoccupata e al figlio, che ha una sua attività ma sbarca appena il lunario. E, ovviamente, ai nipoti. «Per me le cose non sono peggiorate, ma c’è chi deve vivere con i 500 złoty mensili del sussidio (circa 120 euro) e con quei soldi non è possibile mantenere una famiglia. Questa domenica mia nipote farà la prima comunione. Ha 9 anni, l’età che avevo io quando mi hanno deportato in Siberia».

Stanislaw Dziedziul (1932). «Sono nato presso Vilnius in un territorio che ora è Lituania. Abitavamo in campagna e lavoravamo la terra: madre padre e noi sette figli, quattro fratelli e tre sorelle. Ero il più piccolo.
Nel 1939 ci invadono i sovietici. I russi sono entrati in casa mia. Cercavano uomini e armi. Nel 1941 ci hanno arrestati e caricati come bestie sopra un treno diretto in Siberia. Avevo nove anni. Ci hanno portati via come criminali. Era giugno e faceva molto caldo. Solo mia sorella si è salvata da quel viaggio orribile nascondendosi nella chiesa. Così è rimasta in Polonia. Il viaggio è durato tre settimane, il cibo bastava appena per tenerci in vita.
Arrivati, ci hanno messi in baracche senza il tetto. Lavoravamo in una fornace, uomini e donne a fabbricare mattoni e a falciare il grano per 100 rubli al mese. Quei soldi non bastavano a comprare un pezzo di pane nero, ma potevamo vendere le patate al mercato del paese due volte la settimana, 100 chili, e col ricavato comprare indumenti e altro cibo.
Con l’inverno e ci hanno spostati in baracche di tre piani con il tetto, ma l’acqua e il piscio filtravano tra un piano e l’altro. Ufficialmente noi bambini non andavamo a scuola. Ma tra noi polacchi c’era una insegnante che nei giorni di bel tempo ci faceva lezione di storia geografia e lingua. 800 mila polacchi deportati in Siberia, insieme a ebrei, lituani, russi. Alcuni russi erano lì dai tempi del
lo zar. Faceva molto freddo in inverno e molto caldo in estate: fino 45 gradi sotto zero da ottobre a marzo, mentre in estate la temperatura superava i 35 gradi. Durante il lungo inverno siberiano scendeva molta neve, tutto veniva sommerso, anche le case. Molti morivano per il freddo e per la fame.
Nel 1943 sono arrivati alcuni militari inglesi. Cercavano uomini da reclutare. Un mio fratello è partito con loro: Iran, Iraq, ha combattuto anche in Italia, a Montecassino, nella prima Divisione polacca. Un altro fratello, dopo un periodo di prigionia in un vero e proprio Gulag, ha combattuto i tedeschi a Lenino, arrivando con l’Armata rossa fino quasi a Berlino.
Ci siamo salvati tutti. Siamo tornati in Polonia nel 1946. Vilnius era ormai una città russa. Siamo stati mandati a ovest, vicino al confine tedesco. Da Vilnius mia sorella ci scriveva: era rimasta lì sperando che un giorno quella terra potesse tornare polacca. Ma così non è stato. Quell’anno i miei fratelli hanno portato tutti noi in campagna vicino a Danzica. Nel 1951 è morto mio padre; aveva 67 anni. Mia madre morirà centenaria nel 1986.
A quel tempo io mungevo le mucche e la sera andavo a scuola. Nel 1953 ho trovato lavoro ai Cantieri di Danzica. Lavoravo tanto, 12-16 ore al giorno per mantenere la mia famiglia. Nel 1959 mi sono sposato; nel 1961 e 1967 sono nati i miei figli. Ora ho anche quattro nipoti.
Negli anni Settanta non c’era un movimento organizzato come quello del 1980 e gli operai guadagnavano pochissimo. Nel dicembre 1970 gli operai in sciopero vennero accusati anche dell’incendio alla sede del partito. Un debole pretesto per accusarci di essere dei controrivoluzionari e legittimare l’uso delle armi da fuoco contro di noi. Ufficialmente i morti furono quattro, ma tutti sanno che morirono molte più persone.
Nel 1980 le cose erano molto diverse. Eravamo più organizzati e determinati, avevamo la protezione del nostro Papa, siamo stati dentro i Cantieri e il nostro servizio d’ordine ha controllato e protetto bene il suo territorio. Polizia e provocatori non potevano certo entrare. Lo sciopero era sulle pagine dei giornali di tutto il mondo, c’erano molti giornalisti, fotografi e televisioni e davanti ai cancelli veniva distribuito un nostro bollettino quotidiano di informazione. Dunque era quasi impossibile raccontare bugie sul nostro conto.
Nel 1993 sono andato in pensione. Fino a qualche nno fa ho lavorato di tanto in tanto per la Marine Metal, una azienda privata che operava sull’area dei Cantieri. Sono un saldatore esperto e per me le cose non sono peggiorate. Ma c’è chi deve vivere con i 500 zloty mensili del sussidio e con questi soldi non è possibile mantenere una famiglia.
Questa domenica mia nipote farà la prima comunione. Ha nove anni, l’età che avevo io quando mi hanno deportato in Siberia».

(nona parte – continua)

4 Risposte to “Il tamburo di lotta”

  1. utente anonimo Says:

    Una grave omissione, citando il patto Molotov-Ribbentropp, è di non ricordare che la Polonia nell'autunno del 1939 fu spartita non solo tra Germania ed URSS, ma anche dalla Lituania. Il governo di Kaunas, con il benestare di Hitler e Stalin, infatti si impossessò di Wilno, cacciò via la popolazione polacca, cambiò il nome della città in Vilnius e vi trasferì la capitale. La Lituania non restituì mai più quel vantaggio territoriale alla Polonia. Nel 1945, grazie a Stalin, la Lituania sovietica si prese anche Memel dalla Germania, cacciò via la popolazione tedesca e cambiò il nome della città in Klaipeda. Questi favori ottenuti grazie a Stalin sono lo scheletro nell'armadio della Lituania, impropriamente ricordata come vittima invece di collaborazionista dell'URSS.

  2. GGiovannetti Says:

    Sarebbe stato una "grave omissione" se – poco oltre, introducendo Dziedziul non avessi scritto:"Tornano nel 1946, tutti salvi. Ma Vilnius, dal 1944, è ormai una città russa. Ai cattolici polacchi e lituani i sovietici impediscono le pratiche di culto e vietano il possesso di icone sacre. Nel 1949, molte chiese sono chiuse e i sacerdoti deportati o perseguitati. Svaniscono così le ultime speranze di Stanisław e dei familiari di tornare da polacchi a casa loro. Vengono mandati a ovest, vicino al confine con la Germania".Grazie. G.

  3. utente anonimo Says:

    Ci mancano gli scritti taglienti di Giovanni Giovannetti, che da quattro giorni non pubblica pezzi sulle miserie della pseudopolitica cittadina. Che i nostri degni rappresentanti abbiano messo la testa a partito e si stiano comportando degnamente? Non ci crede nessuno!

  4. GGiovannetti Says:

    Sto lavorando pancia a terra ad una lunga introduzione per la riedizione di Questo è Cefis, libro scottante pubblicato nel 1972 e subito scomparso ( l'hanno fatto sparire dalle librerie e dalle due Bibliorteche nazionali), libro che ha guidato Pasolini nella stesura dell'incompiuto magmatico Petrolio sul crinale della ancora ignota P2 e dei criminali mandanti dello stragismo di Stato (hanno fatto sparire soprattutto lui). L'ultimo romanzo del grande poeta e regista non è una storia omosessuale, ma l'abbozzo mutilato di un inquietante sguardo sul Potere in Italia, quello stragista e piduista 'governato' da Eugenio Cefis, il vero fondatore della P2. Metto qui sotto la bozza (da rivedere) della nota di copertina. Prometto che da domani tornerò sulle cose locali (che tanto locali non sono), sia da questo blog sia sul settimanale "il Lunedì", di nuovo in edicola dal 30 agosto.

    Grazie. G.Questo è Cefis di un misterioso Giorgio Steimetz è un libro-verità assai documentato, dal piglio ironico e a volte canzonatorio. Arriva in libreria nel 1972, ma subito viene fatto sparire. E si capisce: è la documentata «inchiesta dal vero» sul potentissimo nonché “invisibile” presidente di Eni e Montedison Eugenio Cefis, una delle figure più inquietanti e controverse della storia repubblicana, quel Cefis in stretti rapporti con le potenze occulte di mezzo mondo, che una informativa riservata del Sismi (il Servizio segreto militare) indica come «il vero capo della P2». Cefis, nominato nel 1971 ai vertici di Montedison, il colosso chimico privato poco prima acquisito dall'Eni. Nelle sue mani – ha scritto Massimo Teodori – Montedison «diviene progressivamente un vero e proprio potentato che, sfruttando le risorse imprenditoriali pubbliche, condiziona pesantemente la stampa, usa illecitamente i servizi segreti dello Stato a scopo di informazione, pratica l’intimidazione e il ricatto, compie manovre finanziarie spregiudicate oltre i limiti della legalità, corrompe politici, stabilisce alleanze con ministri, partiti e correnti». Nel 1974 si scoprirà che il capo dei Servizi segreti Vito Miceli – tessera P2 n. 1605 – quotidianamente inoltrava informative al presidente di Montedison, quasi che il Sid fosse una sua personale polizia privata. Fiancheggiato dagli spioni di Stato Cefis può così monitorare politici, industriali, giornalisti, aziende pubbliche e private. Uno scenario inquietante da pre-golpe, che Pier Paolo Pasolini riporta nel suo magmatico Petrolio, l'incompiuto romanzo sul Potere: qui il regista e scrittore “corsaro” riprende quasi alla lettera ampi paragrafi di Questo è Cefis e dei “mattinali” del Sid al «grande elemosiniere», reinventandoli narrativamente. Sono temi brucianti, che Pasolini tratta contemporaneamente sia nel romanzo che sulle pagine del “Corriere della Sera”. La sua denuncia avrà breve durata: la notte tra il 1° e il 2 novembre 1975 Pasolini muore massacrato da «tre siciliani» quarantenni (e non dal diciassettenne Pino Pelosi); nel frattempo altri provvedono a sottrarre da Petrolio il capitolo Lampi sull'Eni, «che – ha scritto Gianni D'Elia – dall'omicidio ipotizzato di Mattei guida al regime di Eugenio Cefis, ai “fondi neri”, alle stragi dal 1969 al 1980 e, ora sappiamo, fino a Tangentopoli, all'Enimont, alla madre di tutte le tangenti». La “strategia della tensione” non vuole destabilizzare; al contrario vuole consolidare un sistema che si muove con le bombe degli anni Settanta per arrivare con mezzi più subdoli alla presa del potere dei nostri giorni. La chiave di lettura di questo criminale asse politico-economico-mafioso la ritroviamo in questo imperdibile libro-inchiesta di Steimetz, a cui l'incompiuto e mutilato Petrolio di Pasolini deve molto. Sono pagine sull'Italia del doppio boom annisettanta: sviluppo e bombe. Bombe stragiste, piduiste e mafiose. Uno «Stato nello Stato» che nel 1962 ha tolto di mezzo il presidente dell'Eni Enrico Mattei; nel 1968 il giornalista Mauro De Mauro; nel 1971 il giudice Pietro Scaglione; nel 1975, con ogni probabilità, lo stesso Pasolini. La catena dei delitti mafiosi e di Stato prosegue nel 1979 con la morte del vice questore di Palermo Boris Giuliano. Nel 1992 vengono eliminati e i magistrati antimafia Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.Chi è Giorgio Steimetz? In quanti hanno lavorato a Questo è Cefis? Qualcosa sappiamo della casa editrice, l'Agenzia Milano Informazioni di Corrado Ragozzino, di cui Steimetz e forse l'alter ego. L'agenzia è finanziata da Graziano Verzotto (1923-2010), ex partigiano, democristiano della corrente dorotea di Mariano Rumor, segretario regionale Dc in Sicilia dal 1962 al 1966, nonché uomo di Enrico Mattei nell'isola e fiero avversario di Cefis. Nel 1967 Verzotto è nominato presidente dell'Ente minerario siciliano, carica che manterrà fino al 1975 quando, per evitare l'arresto (in una banca di Michele Sindona erano emersi i “fondi neri” dell'Ems), il presidente di Ems ripara in Libano e infine a Parigi, sotto falso nome. Tornerà in Italia solo nel 1991, libero grazie a un indulto.

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