Lo scorso 12 settembre "Il mattino della domenica", settimanale della xenofoba Lega dei ticinesi, titolava in prima pagina «Rom raus!».
Questo fiotto di odio razziale, firmato dal direttore del giornale, nonché fondatore e presidente del partito, il pregiudicato Giuliano Bignasca, ha destato molte preoccupazioni nel paese che ha dato vita agli orrori del progetto eugenetico «Bambini di strada / Kinder der Landstrasse» grazie al quale, dal 1926 al 1973 la potente associazione «Pro Juventute» ha avuto carta bianca per rubare i bambini zingari ai genitori, cancellare tutti i legami con le famiglie d'origine cambiando loro il cognome e, in diversi casi, persino sterilizzarli. La parte sana del Canton Ticino, però, ha risposto: l'associazione degli insegnanti di storia della Svizzera italiana ha infatti chiesto a Marco Borradori, consigliere di Stato leghista, una presa di posizione. Per capire il valore (e il coraggio) dell'intervento dell'associazione, è come se in Italia si chiedesse al ministro degli interni Maroni di esprimersi in merito agli sproloqui di Bossi o del Trota sui "romani porci" e sul tricolore da usare come carta igienica.
Borradori, che della Lega incarna il viso pulito e presentabile e che alle elezioni del 2007 è stato il politico in assoluto più votato dai ticinesi, si è espresso contro l'uscita del suo compagno di partito liquidandola, proprio come fanno da anni anche i legaioli italiani, come la colorita provocazione di un politico indocile ai protocolli e alla diplomazia.
Di questa settimana è invece il lancio di un'altra campagna razzista, gli ormai celebri manifesti che rappresentano i lavoratori italiani (e un rumeno, giusto per non farsi mancare nulla) come ratti affamati. Dopo avere ostinatamente negato il proprio coinvolgimento, ieri Pierre Rusconi, presidente della sezione ticinese del partito svizzero di destra UdC (SVP in tedesco), ha finalmente ammesso di essere il committente dell'iniziativa.
In conferenza stampa accanto a Rusconi, c'era pure il creativo che ha realizzato i manifesti, Michel Ferrise che in settimana aveva dichiarato: «Il ratto è qualcosa di spregevole. C'è il concetto di derattizzazione dietro tutto ciò». Come spesso accade quando si esaminano le paure e le pulsioni oscure celate dietro il razzismo delle persone, Ferrise, che ha per genitori due immigrati calabresi, è la prima vittima di una malvagità che gioca cinicamente sul bisogno umano di essere accettati, riconosciuti, eletti a far parte di una comunità che esiste nella misura in cui nega (o, come in questo caso, rinnega) ciò che viene sbrigativamente identificato come diverso, altro da sé, non diversamente dai meridionali che, trapiantati in Lombardia, Veneto, Piemonte, accettano come un pegno d'integrazione che la propaganda legaiola definisca di volta in volta "terroni", "ladri", "mafiosi" loro e le loro famiglie.
La campagna pubblicitaria in cui Ferrise (forse senza neppure rendersene conto) ha assimilato la propria madre e il proprio padre a topi di fogna, è stata definita un "suicidio politico" da alcuni esponenti dell'UdC ticinese come Roberto Nava e Tiziano Broggini ma Rusconi gongola e ribadisce che i finanziatori sono numerosi e ancor più congruo è il numero dei simpatizzanti, come testimoniano l'immancabile gruppo facebook e il desolante thread di commenti non filtrati in atto sul sito creato per l'occasione.
Sollecitato dalla stampa a riflettere sulla violenza dell'immagine scelta, Rusconi ha risposto: "Bisogna colpire duro, per attirare l'attenzione su certi problemi". I "problemi" menzionati nella campagna razzista dell'UdC sono ben 45.000: il numero di italiani che attraversano la frontiera per venire a lavorare in Svizzera.
Vediamo allora un po' di dati, verificati dall'Ufficio Federale di Statistica: nel 1900 il numero dei frontalieri italiani in svizzera, anche se allora non esisteva un vero e proprio statuto di frontaliere, erano già 40 mila. A metà 2010 sono oltre 45 mila. Definire "invasione" un incremento di 5.000 unità sull'arco di 110 anni è un'operazione che rivela istantaneamente la malafede dei promotori.
Inoltre, se è vero che il numero di lavoratori che risiedono oltrefrontiera non è mai stato così alto come cifra assoluta, va ricordato che a inizio secolo il numero di occupati in Ticino era di 80.000 unità, mentre a fine 2009 tale cifra è salita attorno a quota 172.000. In altre parole, se la percentuale di frontalieri nel 1900 era attorno al 50%, oggi essa si attesta al 26%. In 110 anni il mercato del lavoro è radicalmente cambiato ma i posti impegnati da frontalieri si sono in pratica ridotti della metà.
È opportuno ancora ricordare che dall'inizio del XX secolo al dopoguerra il Canton Ticino era terra di aspra povertà e di massiccia emigrazione: verso la Svizzera interna, la Francia e gli Stati Uniti. Ne dà splendida testimonianza un classico della narrativa migrante come Il fondo del sacco del ticinese Plinio Martini (1923 – 1979). Non nutriamo soverchie speranze che Rusconi e compagni possano concepire l'idea di fondare l'orgoglio della propria ticinesitassu un'opera letteraria, ma quel libro, nelle scuole del Ticino mai abbastanza letto (e in anni recenti, sempre meno) sarebbe utile anche per capire perché mentre i ticinesi "puzzolenti, pidocchiosi, consunti dalla fame e dalle malattie, e poi imprigionati nelle miniere o nei ranch, o in giro vagabondi per sterminate praterie, senza una donna e un campanile, perduti, orfani di tutto" attraversavano le frontiere in cerca di fortuna, il loro posto veniva preso dai vicini di casa italiani (a cominciare da lombardi e piemontesi). Naturalmente quei lavoratori non pendolavano quotidianamente come accade oggi, ma settimanalmente o, più spesso, mensilmente.
Il fenomeno ha conosciuto anche percorsi inversi, dal Ticino alla Lombardia, in misura più ampia prima della Seconda Guerra mondiale. Tale flusso si è interrotto in conseguenza dell'improvvisa floridezza e disponibilità di capitale che il Canton Ticino ha conosciuto (coincidenza curiosa) a seguito del boom economico italiano. Attualmente, a fronte dei famosi 45mila italiani che entrano quotidianamente in Ticino (ma se si tiene conto di quelli che vanno a Ginevra, in Vallese e nei Grigioni, la cifra sale a 50.000 su tutto il territorio elvetico), ci sono 1.500 ticinesi che fanno il percorso inverso; in prevalenza si tratta di quadri e dirigenti di azie
nde a capitale svizzero localizzate in Lombardia. Ampliando lo sguardo a livello nazionale la bilancia raggiunge quasi l'equilibrio – 40mila residenti in Svizzera che producono reddito in Italia a fronte di 50mila residenti italiani che producono reddito in Svizzera. (Per questi dati devo ringraziare la preziosa collaborazione di Generoso Chiaradonna, giornalista del quotidiano "La Regione Ticino").
Questo allargamento del punto di vista, però, è precisamente ciò che UdC e Lega non vogliono. Proprio come il partito che incarna la xenofobia in Italia, legaioli e udiccì del Ticino puntano anzi a semplificare, a parlare dritto alla pancia di un elettorato nel quale fanno breccia e creano consenso i messaggi basilari (poco importa quanto fondati).
Le elezioni sono in vista e, proprio come nella tanto detestata Italia, à la guerre comme à la guerre: per racimolare qualche voto in più, tutto va bene: tappezzare le scuole di simboli partitici, come rispolverare il repertorio di slogan e icone del nazismo.
Troppo a lungo sono stati dati per scontati concetti come la fratellanza umana, il rispetto e la difesa degli ultimi, dei bambini, dei semplici. Oggi ricostruire quel patrimonio di valori condivisi richiede la fatica di una spiegazione e la volontà di ascolto e concentrazione. Ratti e "Raus!" invece arrivano subito: le fogne si sono spalancate e, con i ratti, tracima il liquame della cattiveria, del disprezzo del diverso, della cinica rendita sulla pelle degli ultimi.
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