di Giovanni Giovannetti
«Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità». Così recita il terzo comma dell’art. 27 della Costituzione. Ma a quanto pare il dettato costituzionale è inapplicabile a Carlo Chiriaco – accusato di concorso esterno in associazione mafiosa e gravemente ammalato – forse perché sottoposto sì a pena, ma preventiva. Inapplicabile anche il secondo comma dell’art. 27, là dove i “padri” costituenti avvertono che «l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva»; inapplicabile soprattutto l’art 13 quando, nel penultimo comma stabilisce che «è punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà».
Come scrive Ernesto Bettinelli, «le norme appena citate non fanno che riprodurre quelle condizioni minime di umanità e di dignità per qualsiasi persona che sono all’origine del patto di convivenza» (nel suo bel saggio La Costituzione. Un classico giuridico, Rcs libri 2006, p.92). Il costituzionalista pavese enumera poi alcune “afflizioni supplementari”: «la custodia in luoghi malsani, sovraffollati e degradati che mettono a rischio la salute, l’integrità e la vita stessa di chi è imprigionato; un’assistenza sanitaria precaria o un inadeguato approvvigionamento di beni essenziali alla cura della persona; la privazione immotivata e irragionevole dei contatti con i propri congiunti; la carenza di informazioni sul “mondo esterno”».
Nelle carceri italiane la violazione sistematica dei diritti costituzionali dei detenuti è ormai consolidata norma. Non per caso l’ex ministro della Giustizia Angelino Alfano, ora segretario politico del Pdl, ha recentemente affermato che «il 50 per cento delle carceri va chiuso, il nostro sistema è fuori dalla Costituzione». Non per caso il capo dello Stato Giorgio Napolitano l’altro ieri ha definito «drammatica» la situazione, aggiungendo che la questione è di «prepotente urgenza» perché le carceri italiane, così sovraffollate, «sono inumane» (67.900 detenuti – il 40 per cento dei quali rimane in attesa di giudizio – quando i penitenziari ne potrebbero contenere non più di 48.000). Non per caso il 16 luglio 2009 la Corte europea per i diritti dell’uomo, da Strasburgo, ha condannato l’Italia a risarcire un detenuto bosniaco recluso a Rebibbia per i danni morali da lui subiti a causa del sovraffollamento (erano in 5 in una cella di 16 mq: 2,7 mq reali a testa per 18 ore al giorno). Secondo la Corte europea, 7 mq è lo spazio minimo da riconoscere ad ogni detenuto, spazio vitale, sotto il quale la pena declina in tortura (art. 3 della Convenzione europea dei Diritti dell’uomo: «nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti»). Come dire che lo Stato dell’“allarmismo sociale” pratica l’illegalità e si mantiene in flagranza di reato.
Per Chiriaco e per altri incarcerati nelle sue condizioni sembra così valere la tortura come anticamera della “pena di morte preventiva”, condanna già scritta se dovesse rimanere in questo vero e proprio girone dantesco invece che agli arresti domiciliari (nei penitenziari italiani, in dieci anni sono morte 1.847 persone – 658 i suicidi: una strage): chi lo vuole spingere al suicidio?
Nonostante l’esposizione mediatica, l’ex direttore sanitario dell’Asl pavese è un “pesce piccolo”, sovrastimato da chi forse ne sta facendo un capro espiatorio, frenati nel menar fendenti – da troppo tempo li stiamo aspettando – al vero potere politico-economico e forse criminale che trasversalmente governa il nostro territorio. Un tema su cui Chiriaco può forse avere qualcosa da riferire, ma di sponda (i “gran cerimonieri” sono oltrepadani e non calabresi).
Freno recentemente percepito nelle parole del capo della Procura antimafia Ilda Boccassini, il 3 ottobre, rivolte agli studenti dell’Ateneo pavese, parole che non ci sono piaciute: «Fare i processi ai politici senza averne gli elementi è un grande vantaggio che si dà alla mafia. È quello che è successo quando si sono portate a processo persone che si sapeva non avrebbero potuto essere condannate in via definitiva». Lo ha detto Giovanni Falcone; lo ha ripetuto Ilda Boccassini. Come è ovvio concordo. Ma quali elementi aveva allora il Dipartimento distrettuale antimafia in sostegno dell’accusa per corruzione elettorale a carico di politici come l’ex assessore Pietro Trivi, già che non tanto la piazza bensì un Tribunale si accinge ad assolverlo, cancellando anche l’aggravante mafiosa? Aggravante venuta meno anche per il sindaco di Borgarello Giovanni Valdes, a suo tempo incarcerato dopo aver truccato una gara d’appalto in favore della Pfp di Chiriaco (l’ha annullata la Suprema corte di Cassazione il 6 aprile 2011, sentenza mutuata dal milanese Tribunale del riesame il 22 luglio scorso).
Il 12 ottobre, verosimilmente Trivi e Chiriaco andranno assolti dall’accusa di corruzione (per Chiriaco rimane il concorso esterno in associazione mafiosa) perché non è stato possibile dimostrare in aula il reato (figurarsi l’aggravante). Dunque, stando alla “verità giudiziaria”, sono state «portate a processo persone che si sapeva non avrebbero potuto essere condannate in via definitiva», direbbe Falcone.
Di fronte a una corretta ipotesi investigativa (l’avanzata colonizzazione della politica da parte della ‘Ndrangheta anche nelle regioni del nord) la Dda sembra aver costruito un puzzle con parecchie tessere non a misura, diciamo troppo piccole, spacciandole tuttavia all’opinione pubblica come calzanti. Il gioco può reggere per un po’, ma se nel frattempo non emergono i collegamenti ipotizzati, se questa impalcatura non trova conferme in sede dibattimentale, il puzzle rischia di andare incompleto. E da Pavia, dicevamo, si annunciano le prime crepe. Come ha detto la “garantista” Boccassini, «fare i processi ai politici senza averne gli elementi è un grande vantaggio che si dà alla mafia» e una grande pena per tutti noi. Parola di Giovanni Falcone.
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