La sentenza di condanna in primo grado per 110 dei 118 imputati al processo alla ‘Ndrangheta può a ragione considerarsi una svolta storica per più di un motivo: con essa viene affermata la natura univoca dell’organizzazione criminosa. Dunque la ‘Ndrangheta lombarda vista non come somma aritmetica di Locali o ‘ndrine bensì come movimento criminale dotato di vertice e ramificazioni che ne fanno la “quarta sponda” delle tre Province storiche calabresi (ionica, tirrenica e reggina).
Il processo ora giunto a sentenza ha mandato a giudizio chi ha voluto optare per il rito abbreviato (altri 39 sono attualmente a giudizio con il rito ordinario, e tra loro i pavesi Pino Neri e Carlo Chiriaco). Una decisione presa allo stato degli atti, senza un dibattimento vero e proprio, con il vantaggio per l’accusato di una riduzione della pena di un terzo, sconto preventivo già incorporato nella condanna a 16 anni di carcere per il narcotrafficante di Pioltello Alessandro Manno, nei 12 anni inflitti a Pasquale Zappia (ai vertici de “la Lombardia”), nei 14 andati al capo milanese Cosimo Barranca, al capolocale di Erba Pasquale Varca e al capo di Bollate Vincenzo Mandalari. E così via, fino ai 6 anni di carcere per Francesco Bertucca, il padre dell’ex assessore all’Istruzione al comune di Borgarello ritenuto ai vertici della Locale di Pavia. Vincenzo Rispoli, Emanuele De Castro, Luigi Mancuso, Nicodemo Filippelli e Giorgio La Face sono stati prosciolti poiché già condannati dal Tribunale di Busto Arsizio nel processo “Bad Boys” per reati analoghi («ne bis in idem»), e un imputato nel frattempo è deceduto. Assolto dal reato di associazione mafiosa Leandro Genovese; assolto da quello di corruzione – su richiesta dello stesso pubblico ministero Alessandra Dolci – l’ex assessore provinciale milanese Antonio Oliverio.
Dunque, ha sentenziato il giudice per l’udienza preliminare Roberto Arnaldi, in Lombardia «la mafia esiste», accogliendo così in ogni sua piega l’impianto accusatorio del Dipartimento antimafia guidato da Ilda Boccassini.
Secondo gli inquirenti, «la ’Ndrangheta in Lombardia si è diffusa non attraverso un modello di imitazione, nel quale gruppi delinquenziali autoctoni riproducono modelli di azione dei gruppi mafiosi, ma attraverso un vero e proprio fenomeno di colonizzazione, cioè di espansione su di un nuovo territorio, organizzandone il controllo e gestendone i traffici illeciti, conducendo alla formazione di uno stabile insediamento mafioso in Lombardia. Qui la ’Ndrangheta ha “messo radici”, divenendo col tempo un’associazione dotata di un certo grado di indipendenza dalla “casa madre”, con la quale però comunque continua ad intrattenere rapporti molto stretti». Come dimostrano le carte dell’inchiesta, la ’Ndrangheta è «largamente presente e attiva in Lombardia, sia in termini di attività sia come numero di associati, realizzando un penetrante controllo del territorio che mai avrebbe potuto essere svelato senza l’efficace attività investigativa. Le riunioni sono distinte in due categorie fondamentali: riunioni de “la Lombardia”, cui partecipano i capi Locale e altri esponenti di rilievo della ’Ndrangheta e le riunioni delle singole Locali, che vedono l’incontro tra soggetti operanti nella medesima struttura locale». Insomma, a Pavia e in Lombardia «si è riprodotta una struttura criminale che non consiste in una serie di soggetti che hanno semplicemente iniziato a commettere reati in territorio lombardo. […] Gli indagati operano secondo tradizioni di ’Ndrangheta: linguaggi, riti, doti, tipologia di reati sono tipici della criminalità della terra d’origine e sono stati trapiantati in Lombardia dove la ’Ndrangheta si è trasferita con il proprio bagaglio di violenza». Lo testimoniano gli innumerevoli episodi di intimidazione, buona parte dei quali nemmeno denunciati, «tutti caratterizzati dall’omertà delle vittime (che sempre hanno dichiarato di non avere sospetti su nessuno e di non aver mai ricevuto pressioni o minacce di alcun tipo), dal fatto che ad essere colpite sono state quasi sempre cose e mai persone (salvo che per l’usura), e dalla tendenziale non elevata intensità dell’atto intimidatorio. Per dare solo un’idea, sono emersi più di 130 incendi dolosi per lo più ai danni di strutture imprenditoriali e oltre 70 episodi intimidatori commessi con armi, munizioni e in alcuni casi esplosivi. I fatti delittuosi, alcuni dei quali rimasti a carico di ignoti, testimoniano la condizione di assoggettamento e omertà generata dal sodalizio: dal pervasivo controllo del territorio operato dalle Locali all’esteriorizzazione del metodo mafioso, dalla correlativa diminuzione degli spazi di libertà per gli operatori economici, vittime di ogni genere di intimidazione mafiosa, alla richiesta di pizzo per la protezione, fino alle varie forme di estorsione connesse all’usura. Significativo il fatto che la totalità degli episodi intimidatori (sia quelli di cui si è risaliti a precise responsabilità, che quelli i cui autori sono rimasti ignoti) sono caratterizzati da una circostanza comune: le vittime, in sede di denuncia, riferiscono quasi sempre di non aver mai subìto minacce o intimidazioni. E ciò è dovuto a paura. In questi casi i commercianti preferiscono assicurarsi e sopportare i costi dell’illegalità subìta piuttosto che mettersi dalla parte dello Stato con una denuncia, che può essere foriera di guai peggiori». Le periodiche riunioni, i riti di affiliazione, la costante permanenza del vincolo di adesione dà ai membri la certezza di poter contare sull’aiuto del singolo o del gruppo, alimentando altresì «un forte senso di appartenenza, di protezione, audacia, impunità, assistenza. […] Il rituale indebolisce le aspettative razionali. I mafiosi che diventano traditori lamentano invariabilmente di essere destinati a morire». L’inchiesta si sofferma sulle relazioni politiche e sociali della ’Ndrangheta: «alcuni appartenenti all’associazione mafiosa cercano e ottengono rapporti con il mondo imprenditoriale, politico, con esponenti della pubblica amministrazione. Del resto, ciò che distingue la criminalità comune dalla criminalità mafiosa è la capacità di quest’ultima di fare sistema, di creare un medesimo blocco sociale con esponenti della classe dirigente locale, di creare rapporti tra le classi sociali, di costruire rapporti di reciproca convenienza. Si tratta di legami strumentali, poco stabili, privi di contenuto affettivo (a differenza dei legami che si instaurano tra gli appartenenti all’associazione), ma che creano obbligazioni reciproche estremamente vincolanti. Tali rapporti si possono ricondurre alla nozione di “amicizia strumentale” caratterizzata da scambio di risorse tra “gli amici”, continuità nello scambio e dalla natura aperta di tale amicizia, nel senso che ciascuno degli amici agisce come “ponte” per altri “amici”. […] I mafiosi hanno interesse a instaurare questi rapporti in quanto ciò consente loro di aumentare il proprio capitale sociale (e di conseguenza anche quello dell’associazione); di entrare a far parte della rete di rapporti del soggetto, con ulteriore incremento della rete di rapporti; di porsi come punto di raccordo tra le reti di rapporti facenti capo ai vari individui con cui entrano in contatto, esercitando una sorta di mediazione tra ambienti sociali». Tipico esempio di questa capacità della ’Ndrangheta di tessere relazioni è il suo “incontro” con la Massoneria. In una intercettazione ambientale del 18 settembre 2009 tra Pino Neri e l’amico e sodale Antonio Dieni, Neri afferma a chiare lettere di farne parte: appare chiaro «come in questo contesto può risultare estremamente preoccupante l’ingresso di Pino Neri nella Massoneria: la capacità di fare sistema da parte dell’associazione risulta notevolmente potenziata nell’ambito massonico; come ampiamente rilevato nelle indagini, l’ingresso nelle logge massoniche costituisce il momento di collegamento con ceti sociali in grado di fornire sbocchi per investimenti imprenditoriali, coperture a vari livelli, con conseguente integrazione della ’Ndrangheta nella società civile e abbandono di un atteggiamento di contrapposizione nei confronti di quest’ultima: in altri termini il rapporto tra ’Ndrangheta e Massoneria, costituisce un momento in cui il sodalizio criminoso passa da corpo separato a componente della società, e pertanto più pericoloso in quanto in grado di mimetizzarsi». Sono le stesse drammatiche conclusioni esposte nella Relazione della Commissione parlamentare antimafia (19 febbraio 2008): «La ’Ndrangheta, da corpo separato, si trasforma in componente della società civile, in potente lobby economica, imprenditoriale, politica, elettorale. Da allora diventa l’interlocutore imprescindibile, il convitato di pietra di ogni affare, investimento, programma di opere pubbliche avviato sia a livello regionale che centrale, ma anche di ogni consultazione elettorale, amministrativa e politica. […] Con questa forza la ’Ndrangheta ha sempre cercato, quando ne ha avuto l’opportunità, di valicare l’area del proprio insediamento. Il suo essere locale non è mai stato considerato una gabbia o una limitazione al proprio agire mafioso, ma ha invece rappresentato una pedana di lancio verso altri territori – geografici, economici e sociali – nei quali stabilire relazioni e in cui sviluppare nuove attività criminali». La ’Ndrangheta ha colonizzato la Lombardia con almeno 20 Locali, di cui 15 individuate a Milano, Cormano, Bollate, Bresso, Corsico, Leg
nano, Limbiate, Solaro, Pioltello, Rho, Pavia, Canzo, Mariano Comense, Erba, Desio e Seregno: «Qua in Lombardia siamo cinquecento uomini, Cecé; non siamo uno», riferisce il capo della Locale di Bresso, Saverio Minasi, a Vincenzo Raccosta, della Locale di Oppido Mamertina in Calabria.
La colonizzazione mafiosa della politica è più che palpabile, ed è su questo pericolo che si sono dilungati gli inquirenti. Ma fino ad ora nessuno fra i “politici” ha visto il carcere. A meno che non si voglia far poggiare l’architrave del teorema sulle sole spalle di una qualche figura minore come il pavese Chiriaco, l’unico “politico” attualmente incarcerato. Detto senza mezzi termini, equivarrebbe a una beffarda presa in giro.
La mafia esiste
di Giovanni Giovannetti
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