di Paolo Ferloni
Nel corso del XX secolo il PIL – Prodotto Interno Lordo – è stato visto come un indicatore del benessere economico ed è stato in genere considerato anche da noi lo strumento principale di misura dello sviluppo dell’economia del Paese.
Appare però ormai chiaro che il benessere di una nazione non può essere dedotto soltanto dalla misura di quanti beni e servizi essa produce. I limiti del PIL infatti sono ben noti: ad esempio, esso non considera le attività svolte al di fuori del mercato, come il lavoro domestico svolto in famiglia o il volontariato o lo svago. Con un paradosso osservava l’economista britannico Arthur C. Pigou già negli anni trenta che quando un gentiluomo di campagna sposa la propria domestica, il PIL diminuisce perchè ella, divenuta moglie, non è più remunerata, anche se la realtà produttiva non sia cambiata per nulla.
Del resto lo stesso ideatore del PIL, l’economista di origine russa Simon Kuznetz poi premio Nobel nel 1971, presentò al Congresso americano la sua proposta nel 1934 dicendo che «Il benessere di una nazione non poteva essere esclusivamente desunto da un indice delle entrate nazionali». Però dalla seconda metà del secolo XX fino ad oggi i confronti fra economie dei diversi Paesi sono stati per lo più basati sul PIL pro capite come indicatore principale del livello di benessere e di sviluppo, nonostante esso includa spese in verità improduttive come quelle militari, non tenga conto degli aspetti negativi, causati ad esempio da sprechi, errori e produzioni che implichino danni ambientali anche di lunga durata, e tenda a sovrastimare il contributo degli incrementi d’insieme delle produzioni industriali rispetto alla crescita di quelle agricole.
Per queste ragioni furono via via introdotti da varie scuole di economisti dei sistemi differenti di valutazione. In particolare l’ONU avviando dal 1966 il Programma per lo Sviluppo delle Nazioni Unite (UNDP) ha cercato di aiutare le nazioni partner a promuovere e sostenere un tipo di crescita che migliori la qualità della vita per tutti in quattro settori principali: la riduzione della povertà, politiche e istituzioni democratiche, prevenzione e rimedi alle crisi, ambiente e sviluppo sostenibile. In tale contesto è stato introdotto nel 1990 un diverso criterio, espresso con l’Indice di Sviluppo Umano (HDI), un indicatore composito che combina indicatori di aspettativa di vita, livelli di educazione e reddito, tali da monitorare insieme lo sviluppo economico e quello sociale.
È stato anche proposto dal 1994 ed usato da 11 Paesi più avanzati il Genuine Progress Index (GPI) che darebbe un’idea più accurata del progresso economico effettivo di un Paese. Dal 2001 la Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico – OCSE, che comprende 34 Paesi ed ha sede a Parigi, ha avviato una serie di iniziative, tra cui dal 2007 il Progetto Globale per misurare il Progresso delle Società, per ottenere confronti tra i Paesi associati sulla base di un Indice di Vita Migliore, o Better Life Index – BLI.
Nello stesso intento il presidente francese Sarkozy ha nominato nel 2008 una Commissione di vari studiosi per misurare risultati economici e progresso sociale, avente noti relatori come Joseph E. Stiglitz, Amartya Sen e Jean-Paul Fitoussi. Nel 2009 è apparso un rapporto in cui, dopo aver esaminato i temi classici del PIL con riferimento anche a qualità di vita, ambiente e sviluppo sostenibile, si propone lo «spostamento dell’enfasi dalla misura della produzione economica alla misura del benessere delle persone». Si raccomanda di valutare il risultato economico guardando al reddito e ai consumi, piuttosto che alla produzione, approfondendo gli elementi distributivi e la condizione delle famiglie. Il rapporto suggerisce di misurare il benessere attraverso un approccio multidimensionale che tenga conto degli aspetti di valutazione soggettiva dei cittadini, affiancando alle analisi anche indicatori di sostenibilità, non solo ambientale, ma anche economica e sociale. «What we measure affects what we do» (ciò che misuriamo condiziona ciò che facciamo) è il risultato empirico che se ne ricava, pensato per orientare i francesi verso un miglior benessere oltre che verso una più alta produttività.
È dei giorni scorsi la notizia che il presidente americano Obama ha chiesto al Department of Health and Human Services di finanziare una Commissione di psicologi e di economisti, di cui fa parte Daniel Kahneman, psicologo e premio Nobel per l’Economia nel 2002, per definire una non banale misura della felicità del cittadino americano e del benessere economico capace di realizzarla.
E trovare poi una correlazione tra “Felicità Nazionale Lorda” e Prodotto Interno Lordo.
Navigando in Internet, si vede che nel piccolo regno del Bhutan sull’ Himalaya, compreso fra India e Cina, esiste da molti anni una simile Commissione, ed il primo ministro britannico Cameron, dopo la sua visita al Bhutan nel 2009, pare ne abbia voluto sottolineare la validità, additandola in una recente intervista come un esempio da seguire.
Negli USA si citano volentieri le parole rivolte da Robert Kennedy alla Università del Kansas nel 1968: «Non troveremo mai un fine per la nazione né una nostra personale soddisfazione nel mero perseguimento del benessere economico, nell’ammassare senza fine beni terreni», e «Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell’indice Dow-Jones, né i successi del Paese sulla base del Prodotto Interno Lordo».
E in Italia cosa si pensa e che si fa?
In un’audizione tenuta a Roma da poco, il 22 febbraio 2012 presso la Commissione V “Bilancio, tesoro e programmazione” della Camera dei Deputati, Enrico Giovannini, presidente dell’Istituto Nazionale di Statistica – ISTAT, e partecipante italiano ai progetti OCSE ed alla Commissione francese, ha esposto il programma di nuovi indicatori per nuove politiche avviato in collaborazione tra ISTAT e Consiglio Nazionale dell’ Economia e del Lavoro – CNEL.
Sono stati proposti sette domìni simili a quelli individuati dalla Commissione Stigliz-Sen-Fitoussi e dall’ OCSE, cioè ambiente, salute, benessere economico, istruzione e formazione, lavoro e tempi della vita, relazioni sociali e sicurezza. Sentite le parti sociali, ISTAT e CNEL hanno completato il quadro con altri cinque domìni: benessere soggettivo, paesaggio e patrimonio culturale, ricerca e innovazione, qualità dei servizi, politica e istituzioni.
La serie di temi è stata oggetto di discussione e di inchiesta con un apposito questionario raccolto entro la fine di Febbraio 2012 in un blog, per arrivare a definire in maniera più adeguata e soddisfacente il BES, o Benessere Equo e Solidale, insieme di indicatori che possa risultare plausibile per determinare il grado di felicità nel nostro Paese.
È peraltro prevedibile che la misura del benessere equo e solidale per l’Italia non si discosti poi troppo dalla valutazione che troviamo già oggi in rete sul sito dell’ OCSE sopra indicato, in cui si sono usati per il predetto BLI 11 indicatori leggermente differenti (vi manca il paesaggio e il patrimonio culturale), e nella quale l’Italia occupa una posizione medio-bassa, grazie anche forse alla tradizionale generalizzata insofferenza o fatica che fa l’ italiano medio, e con lui più o meno tutte le amministrazioni del Paese ai diversi livelli, a fornire dati statistici ai rilevatori dell’ ISTAT quando essi cercano di raccoglierli.
Il sito del Dipartimento dell’ Economia del Ministero delle Finanze, se si crede alle dichiarazioni dei redditi 2010 pubblicate il 30 marzo scorso, dice che siamo pur sempre un Paese in cui la media degli imprenditori ha redditi mediamente più bassi di quelli della media dei lavoratori dipendenti. Alcune domande: si credono più felici gli imprenditori o i lavoratori? O forse in media sono felici in pari misura? Ma chi sarà più sincero e chi racconterà balle? Non è che forse statistici abili – italico genio – possano riuscire a depurare i dati dalla zavorra delle frottole? O nel 2012 c’è da restare fermi alla statistica di Totò?
E infine: ciò che misuriamo condizionerà ciò che faremo?
Dai confronti che si potranno trovare tra il BES italiano e il BLI degli altri 33 Paesi dell’OCSE ci si può augurare che un Governo di ministri e dirigenti ministeriali non dilettanti possa trarre utili indicazioni per scelte politiche appropriate e calibrate, tali da liberare spazi di democrazia e legalità a vari livelli nel Paese.
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