Con gli occhi di un bambino

by

di Giacomo D’Alessandro

Neanche un metro di sentiero. Tutto asfalto, ora strade di paese, ora stradine sterrate, fino a passare sulle statali più trafficate. Da Bracelli, dove il nostro comodo e grazioso (e caro!) Bed and Breakfast ci ha svegliati sotto un cielo cupo e uggioso, siamo scesi in ben 7 camminanti fin quasi a Beverino, sul torrente Vara protagonista di una delle peggiori piene che nell’alluvione dello scorso ottobre ha causato anche dei morti.
Ci accoglie infatti un capannone sventrato su un’ansa del fiume, ancora soffocato da ammassi morti, alti metri, di legname e detriti trascinati dalla corrente.
Sembra che nonostante tutto la pioggia condivida le motivazioni del nostro cammino: ci ha ripetutamente minacciati nei giorni scorsi, oggi più che mai incombe dal nero delle nubi, ma non si aprono le dighe dei cieli.
A camminare con noi c’è Daniele, un ragazzo di vicino Roma, che fa l’insegnante di scuola media ma è dottore in biologia. Maria Grazia, al settimo giorno di cammino come me, educatrice e animatrice di Torino, lo ha convinto al telefono i giorni scorsi: da Roma a Beverino per una sola tappa. Sono i miracoli che fa la Stella, stimolandoci la libertà e il coraggio di ricucire a partire dalle nostre relazioni. Non si ricuce infatti necessariamente qualcosa che si è lacerato o strappato, proprio qui sta la profezia di questo folle cammino: si getta il cuore sulla strada con la volontà di intessere unioni nuove, di avvicinare spiriti e corpi ancora un passo oltre la già presente amicizia, compagnia, frequentazione.
Tentiamo di portare un filo che possa cucire anche cose le quali non si immaginava: erano già così da prima, non c’era stata alcuna rottura, perché c’era equidistanza, non si toccavano, non si disturbavano, convivevano lasciandoci in pace, a ciascuno la sua pena. Che senso ha unirle?
E’ una domanda difficile. In fondo chi è venuto qui a camminare sa perché è venuto, perché ha aderito, ma prima di partire non sapeva esattamente cosa andava a fare, come sarebbe stato. Pur con tutte le informazioni del mondo, si è partiti sulla fiducia, su un’idea, sul gusto condiviso di un possibile orizzonte, abbozzato da qualcuno.
E’ una domanda che rimane, nonostante tutto.
Un po’ come la tappa di oggi: a prima vista la potremmo definire una “brutta” tappa, a livello paesaggistico. Tanto asfalto, un po’ di traffico, clima piovoso, luoghi in parte alluvionati in parte senza nulla di che. Una campagna inselvatichita o mezza cementificata come tante.
Eppure sono proprio queste strade che nessuno percorre a piedi. Sono questi paeselli anonimi che nessuno collega più con i passi, con il tempo di sporgersi da un ponte, di ascoltare gli uccelli in una macchia, di accompagnare lentamente il fiume, di sentir la ghiaia gracchiare sotto le scarpe.
Poco dopo l’ora di pranzo, io e mio fratello lasciamo la compagnia andare avanti e ci fermiamo per prendere al volo una vaschetta di patatine da mangiucchiare lungo la strada. Entriamo in quello che sembra la brutta copia di un bar americano di fuori città. Aria scura, densa di fumo e sapori, un grasso ometto brizzolato e sudato dietro al banco, musica di sottofondo e qualche commensale abitudinario. Dal cucinino proviene lo sferragliare nervoso di una cuoca di mezz’età unta e indaffarata.
Non sappiamo tutt’oggi quale sia stato il loro ragionamento. Fatto sta che alla nostra richiesta di “una porzione di patatine grande, da 2,50” (come da cartello piccola – media – grande) una cameriera compare dopo venti minuti buoni con un cartone da pizza stracolmo di patatine calde. L’ometto batte veloce sulla cassa: 6 euro.
Se qualche automobilista – sfrecciando sovrappensiero alle due di un pomeriggio dal cielo incerto di un giorno come tanti – ha l’impressione di aver intravvisto un paio di “giovinotti” sfatti, camminare a lato strada con un cartone in mano pescandone avidamente manciate di patatine e faticando a tenere l’equilibrio quanto la retta direzione, lo rassicuriamo: non aveva mangiato pesante. Noi invece sì.
La seconda parte della giornata è trascorsa sul Monte Grosso, che abbiamo dovuto scavalcare per scendere su Aulla. Paesino dopo paesino, tra gatti, giardini fioriti e qualche anziana signora al lavoro, abbiamo macinato parecchi chilometri per fortuna senza più traffico a infastidirci. Anche qui gli incontri non sono mancati: quelle due parole preziose e indimenticabili che dal cammino è più facile sciogliere, con chi capita a tiro. Il passante, la signora in giardino, il cacciatore in jeep, qualche curioso paesano. Persone che oggi non capita più di incrociare, non dalle veloci macchine, non sulle autostrade, non nelle affollate città e nei loro centri. Parole che i ritmi moderni ci hanno scoraggiato dal cercare, relegandole a un vecchio modo di vivere non più necessario, non più interessante, non più. Perché, signori, noi abbiamo il benessere, la tecnologia, la libertà e l’indipendenza di starsene ognuno per sé…
Ma è qui tra queste stradine, col fiato corto e la meta lontana, che lo stupore ci prende, nel guardar scorrere la vita di cui ci eravamo dimenticati.
E’ la signora di 83 anni che sale le scalette del suo giardino carica di un mucchio d’erba per i conigli.
E’ l’anziano del paese sul fuoristrada nel bosco che ti racconta quanta strada a piedi, da giovane alpino, per quei sentieri.
E’ la chiacchierata spensierata con chi ti cammina accanto e ti dà la tranquillità di riprendere le fila e il senso della tua vita di tutti i giorni.
E’ anche quell’amico che senti al cellulare e resta stupito, un pizzico invidioso, di sentire che sei “a camminare”, fuori da tutto e dentro la pienezza che si dispiega attorno a te.
Aulla è teatro di accoglienze, treni, saluti. Chi viene e chi va. Il parroco e le sue volontarie che ci accolgono da “pellegrini”: siamo finalmente sulla Via Francigena, dove l’accoglienza a chi cammina è a misura, semplice e calorosa, generosa e rincuorante. Qui passiamo ancora insieme, e con Giovanni e Roberta appena arrivati, l’ultima serata di questo braccio ligure che si conclude. Di questo tratto che ho avuto la responsabilità e l’onore di guidare, da Genova ad Aulla, un inesperto ventunenne affiancato da ben più grandi e titolati compagni di viaggio, doni che non dimenticherò e che ho nitidi nel cuore.
Qui, ancora una volta, passa il testimone di questo piccolo grande sogno, ed altri continueranno un cammino che non mi è dato – e forse è giusto volere che sia così – fare tutto, perché qualcosa di così grosso e ambizioso va affidato a molti, ciascuno un pezzetto, ciascuno ciò che può dare.
Sento di aver camminato per me e per i tanti amici che hanno fatto con me solo la prima tappa, per i molti che neanche quella. Sento di aver imparato ancora di più a stupirmi delle piccole e grandi cose che la lentezza del cammino permette di gustare. Con piacere, spesso. Con fatica, altrettanto spesso.
Ho sentito vicina la mia famiglia in questi passi, così come ho sentito famiglia i miei vicini, nuovi e sconosciuti, di altre età, di altre città.
Ho di nuovo constatato che c’è un momento, per ogni viaggio, in cui le parole si fermano, e non si può condividere fino in fondo se non si cammina insieme. Tanti sono i modi per fare questo. Ma c’è bisogno della volontà di fidarsi, e partire. Spero di dividere questo desiderio con molti, con ciascuno, per preparare i cuori alla prossima occasione di mettere i piedi nella stessa direzione, e andare.
Dal poco che ho visto, non credo sia difficile.
Siamo noi, il nostro mondo “adulto, civile e benestante”, a farci credere che sia difficile, o inutile, o incompatibile. Uscire da queste piccole catene culturali a volte è semplice, è un passo, poi un altro.
Stella d’Italia mi ha regalato questa sensazione, viva, potente.
Che in fondo, camminare è dimostrare a se stessi di sapere sempre scoprire il mondo con gli occhi di un bambino.

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