da Pavia, Giovanni Giovannetti
Il sindaco di Pavia ha conferito il Premio di San Siro (la massima onorificenza cittadina) a Gian Paolo Calvi – padre di Gian Michele – progettista del clamoroso illecito urbanistico di via Langosco che qui raccontiamo.
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Chissà cosa penserebbe oggi il claudicante commissario della Imperial regia polizia austriaca Melchiorre Ferrari – protagonista dei gialli d’ambientazione ottocentesca di Mino Milani – di quella Pavia ormai irrimediabilmente perduta.
Abbattute le imponenti mura spagnole. Abbattuti «i voltoni pieni d’ombra dell’antico bastione» presso Contrada di Porta Salara dove, al numero 3, in «tre stanze una sopra l’altra» abitava la ricamatrice Ofelia Trovieri. Il ponte Vecchio non è più lo stesso presso il quale la stria Gelinda Maffi nelle notti di luna piena mutava nella “cagna del ponte”. In via Robolini non abita più il sofferto amore adultero di Maria per Giacomo; da quelle parti si è fatto largo un invasivo parcheggio, proprio accanto alla canonica della romanica chiesa di San Primo. Stesso trattamento per piazzetta Cavagneria lì dove, nottetempo, scarnebbiava ingordo il “vampiro” transilvano Ferencz Lajos.
Che dire poi del trecentesco complesso monastico di Santa Clara in via Langosco? Nell’antico monastero dovrebbe trasferirsi la biblioteca comunale, ma il progetto è fermo da anni. Non si ferma invece la speculazione e per gli orti delle Clarisse il destino sembra ormai segnato, poiché – dopo il benestare della Conferenza comunale dei servizi il 14 dicembre 2010 e della Commissione Paesaggio il 17 luglio 2012 (voto contrario in solitudine dell’architetto Marco Chiolini) – approvando lo Schema di Convenzione proposto da Delta spa proprietaria dell’area, il 16 ottobre scorso la Giunta comunale ne ha sostanzialmente ratificato la cementificazione. Due palazzine, dodici appartamenti in una delle poche “aree verdi” residue nel centro storico cittadino.
Qui sopra vediamo l’Ortaglia ben evidenziata nel particolare della splendida stampa secentesca del canonico Ottavio Ballada: ieri come oggi o quasi si estendeva lungo via Calchi e via Langosco fino a via Scopoli, delimitata a est dalle mura spagnole tra i bastioni di Sant’Epifanio e di Santa Giustina (oggi viale Gorizia).
«Spariranno in un sol colpo diversi valori ambientali della zona», ha scritto Lisa Galmozzi Poloni del Fai, il Fondo ambiente, al quotidiano locale (27 ottobre 2012): «sparirà innanzitutto un brano di paesaggio urbano irripetibile per qualità. Con lui sparirà la testimonianza di quello stretto legame che connetteva il monastero di clausura ai suoi cittadini».
Il dovuto rispetto allo storico luogo di per sé sarebbe potuto bastare; nondimeno poteva bastare lo sfumato ricordo di quell’analogo intendimento fermato, nel 1996, dall’allora commissario prefettizio Domenico Gorgoglione. Ma a ribadire che l’area è inedificabile concorrono anzitutto le norme; norme disattese quel tanto che è servito a favorire un illecito; illecito al solito avallato da certificazioni comunali d’azzonamento assai confuse (quella del 9 luglio 2010 reca la firma del plurindagato diligente dirigente Angelo Moro).
Sì, un illecito clamoroso poiché nella realtà, dal punto di vista urbanistico, l’area è interamente disciplinata da norme che decretano il centro storico quale monumento «unitario e inscindibile» («le aree di impianto storico sono classificate di categoria “A” secondo il decreto ministeriale 1444/68», recita al comma 12 l’art. 12 delle Norme tecniche di attuazione – Nta – del Piano regolatore generale – Prg): dunque verde e parchi urbani pubblici e privati non sono né frazionabili né tanto meno edificabili, «e devono essere mantenuti a verde», in particolare le aree e i giardini di evidente pertinenza storica, come sono le Ortaglie di Santa Clara.
Non paghi, per due volte lorsignori hanno violato persino le regole da loro stessi arbitrariamente indicate: a partire dal discutibile art. 36bis delle Nta del Prg (discutibile in quanto non applicabile alla zona “A”), là dove (prima violazione) al comma 2 e al comma 10 autorizza – si perdoni il passaggio eccessivamente tecnico – «una capacità edificatoria pari a un indice di 0,1 mq» di Superficie lorda di pavimento – Slp – in aggiunta ad «un terzo della Slp degli edifici esistenti» non abusivi «e da demolire», mentre lo Schema di Convenzione proposto dalla proprietà l’8 febbraio 2012, a pagina 3 confessa che i capannoni pericolanti presi a pretesto per l’aumento di un terzo della superficie occupabile (da 888 a 1.218 mq) «sono stati demoliti il 12 dicembre 2007», quando la norma ammette solo gli «edifici esistenti e da demolire».
Proprietà e Comune orchestravano di avvalersi della perequazione (l’acquisizione di aree da parte del Comune in cambio della possibilità per il privato di edificarne una modesta percentuale): io Comune ti autorizzo a fare business nel centro storico in cambio… di 3.390,30 metri quadri di terreno agricolo al quartiere Sora, lontana periferia cittadina, terreno di cui Delta condivide la proprietà con la Immobiliare Nuova srl di Carmine Napolitano (488 mq sono di Delta e 2.902,30 di Napolitano: aree agricole in proprietà a due società immobiliari? Sarà…). Peccato che (seconda violazione) la cessione “gratuita” di altre aree sia consentita solo «in zona avente la medesima destinazione» (art. 36bis, comma 5 Nta). Peccato che la stessa Giunta comunale nella sua deliberazione del 16 ottobre scorso ammetta che l’area da acquisire si trovi in zona agricola, peraltro immodificabile.
Ma chi ha congegnato una tale buffa? L’azzonamento dell’Ortaglia a “F” (attrezzature generali pubbliche) invece di “A” (centro storico) pare l’avesse suggerito il notaio Antonio Trotta (lo ricordiamo tra i fautori della lottizzazione abusiva Green Campus al Cravino), suggerimento subito accolto dal duo comunale Panighi-Moro.
Il funzionario del settore Ambiente e Territorio Fabio Panighi e quel suo dirigente Angelo Moro li rammentiamo più che pretoriani dell’interesse privato invece di quello pubblico; e non è bello, già che a fine mese lo stipendio glielo passa il Comune (sarà poi vero?) Ad unico esempio, citeremo l’apostolato dell’aprile 2010, quando gatto e volpe sono accorsi in Consiglio comunale a perorare il voto favorevole alla illecita lottizzazione Greenway nel Parco della Vernavola (proprietari alcuni parenti dell’ex presidente della Commissione comunale Territorio Alberto Pio Artuso); autorizzazione poi cancellata dal Tribunale amministrativo regionale nel giugno 2011; sentenza definitivamente confermata il 13 novembre scorso dal Consiglio di Stato.
Infine elencheremo alcune curiose simmetrie. A rappresentare la Industrie Meccaniche Riunite (i vecchi proprietari) il 19 novembre 1996 – data in cui la società viene incorporata nella Delta spa (atto sottoscritto presso il notaio Trotta) – ritroviamo Franco Corona. Sua figlia Raffaella è titolare della Pro-Domo sas, compartecipe al 15 per cento di Green Campus srl, a sua volta responsabile della immane truffa urbanistica al quartiere Cravino. Il progetto e la direzione dei lavori al Green Campus sono a cura di Gian Michele Calvi: Studio Calvi, come il progetto dell’illecito urbanistico di via Langosco, qui firmato dal padre Gian Paolo Calvi, al quale il sindaco filo-cementificatore ha coerentemente conferito il “San Siro”, la massima onorificenza civica. Non priva di autoironia, la motivazione sottolinea che «nella sua cinquantennale esperienza nella progettazione edilizia e di recupero, Calvi rappresenta l’eccellenza cittadina…».
Eh sì, ben altri tempi quelli del commissario Ferrari, tempi in cui la città contava 26mila abitanti, l’acqua del sò bel Tesìn lui la poteva ancora bere e i pavesi erano persuasi – ha scritto Angelo Stella – che Pavia sarebbe sopravvissuta a tutto, «anche ai pavesi». Pavesi come i Calvi, i Damiani, i Corona, i Marazza, i Piacentini, i Maestri, i Pacchiarotti, i Bugatti, i Trotta e compagnia silente (Carmine Napolitano ed Ettore Filippi non li citiamo solo perché il primo è lucano, il secondo salentino), degni eredi dei Pedrazzini, dei Febbroni, dei Fasani.
Non resta allora che cercare l’altra Pavia e l’incanto delle sue uggiose atmosfere autunnali negli enigmatici romanzi storici di Mino Milani. Vero, commissario Ferrari?
5 dicembre 2012 alle 19:20 |
Il monastero di Santa Clara. La Chiesa e le Ortaglie
Già in epoca medievale esisteva al margine orientale della città, all’interno della terza cerchia di mura, una chiesa dedicata a Santa Maria degli Orti accanto alla quale risiedeva una comunità di monache cistercensi. Tra il 1474 e il 1476 l’ordine cistercense venne sostituito da quello francescano e nel monastero, completamente rinnovato, si insediarono le monache Clarisse.
L’impianto del monastero è grandioso anche se la costruzione è contenuta in una rigorosa sobrietà. Il chiostro rettangolare si apre sul cortile interno con un porticato continuo su cui si affacciano i vani di uso collettivo, mentre al piano primo si dispongono le celle delle monache. Il porticato appoggia su colonne che partono da un muretto continuo e che sorreggono archi q tutto sesto con breve piedritto e volte a crociera.
Il culto veniva officiato in due luoghi distinti, la chiesa esterna che si apriva sulla piazzetta antistante e la chiesa interna più arretrata, di uso esclusivo delle monache. La prima, aperta al pubblico, ha un orientamento insolito nord-sud, forse determinato dalla sussistenza di parti dell’antica chiesa cistercense di cui si sono trovate tracce nella zona del coro e che il livello più basso del pavimento , rispetto alla strada, potrebbe confermare. La seconda è orientata est-ovest, secondo la tradizione, risultando pertanto perpendicolare alla prima, rinunciando così alla più consueta assialità tra le due che permetteva, con la collocazione di una grata, lo svolgimento di uffici in comune. La chiesa esterna è a navata unica con coro profondo e una facciata a capanna arricchita da tre acroteri circolari e conclusi da un cono rivestito da formelle di cotto. Al centro doveva aprirsi un rosone circolare profilato da cornici di cotto che risulta tamponato e parzialmente compromesso. Il portale è pervenuto, tuttavia l’architrave e l’affresco inserito nella lunetta soprastante sono conservati al Museo Civico del Castello nella sala XII. L’architrave porta una splendida iscrizione in volgare che, rivolgendosi al passante gli ricorda la dedica a Santa Maria delle Grazie e la data di fondazione del 1476; l’affresco soprastante rappresenta la Madonna che con un ampio velo protegge i propri devoti.
A fianco del coro si innalza il piccolo campanile che svetta tra le coperture del tetto con una cella campanaria aperta sui quattro lati con varchi a sesto acuto. La parte sottostante la cella è ripartita in riquadri delimitati da una decorazione a listelli lisci alternati ad un fregio a “dente di sega”, sostenuti da una serie di peducci.
Della chiesa interna è apprezzabile il fianco sud dove ancora tamponate, si colgono delle finestre di gusto tardo-gotico scandite da contrafforti talora decorati con fregio a “nido d’ape”.
Dall’esterno si apprezzano ampie estensioni di muratura quattrocentesca di ottima fattura nella quale si aprono delle finestre riquadrate dal tipico “fazzoletto di calce” bianco.
Al lato est del chiostro si affianca una vasta area verde che corrisponde agli originari giardini ed orti di pertinenza del monastero.
Il monastero non ebbe sempre vita facile, anzi ebbe momenti di miserie e privazioni finché non venne soppresso nel 1782 e trasformato in caserma (su progetto del Pollak); successivamente, passando di proprietà alla Municipalità pavese venne utilizzato come ricovero dei mezzi della nettezza urbana. Più recentemente liberato da tutto, è stato destinato alla sede della Biblioteca Civica Bonetta ed i lavori del primo lotto avrebbero dovuto concludersi nella primavera del 2006.
1 Maggio 2018 alle 08:56 |
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