A proposito di Controre di Domenico Brancale
di Gianluca Pulsoni
Deporre è un verbo di estremo interesse. Contempla molti significati, certamente, e fra questi alcuni che còlti nel loro uso e senso antropologico proprio delle nostre società occidentali sembrerebbero essere distanti anni luce fra loro. In questo caso specifico, ci si riferisce alla deposizione in accezione laica, cioè alla giustizia, e alla deposizione della figura del Cristo: due momenti che si potrebbero definire epifanie di una cosiddetta “verità” generale. La voce che testimonia e il corpo che diventa testimonianza. E in un certo senso, a collegare queste due polarità estreme, c’è l’arte, come sempre in mezzo. Campo di un divenire umano che sfida la natura come modo di stare o non stare al mondo.
Nel suo lavoro lirico, nel corso di questi anni, Domenico Brancale si è spesso confrontato col senso profondo del termine deposizione nei suoi estremi, fino anche a includere la parola nel titolo di una sua lettura-spettacolo fra le più riuscite ma forse, soprattutto, rivelatrici, dove nello scenario la pietra faceva da contraltare figurativo pressoché perfetto alla fissità “cavernosa” della voce. Anche ne L’ossario del sole, che è stato e tutt’oggi è un esercizio di alta poesia sospeso tra erotismo trobadorico e squarci espressionistici, l’autore non sembra abbandonare questo interesse, semmai enuncia e intensifica l’operazione di una fine simbolica del mondo, operazione il cui rovescio complementare o suo negativo, la deposizione simbolica dell’io, potrebbe essere motivo ispiratore di Controre, fatica che riprende motivi simili della precedente ma che si muove in direzione fatalmente altra.
Dal titolo emblematico, chiaro nel suo buio, e quasi scolpito, Controre: dove l’ora è «L’ora contro, la breccia in ogni pensiero». In un certo senso, è forse un “libro delle ore”, cartografia che segna e circoscrive un ciclo temporale, alla maniera della ore liturgiche per i diversi periodi dell’anno. Ma se così, il rimando andrebbe còlto come vicinanza a toni di una scrittura nata prima sacra e poi divenuta civilizzata, in cui storicamente e culturalmente appaiono riconosciute tanto la dimensione orale quanto quella testuale, ambedue congiunte e articolate nella prassi rituale della preghiera, una dimensione antropologica del dire lirico che forse lo stesso Brancale non disdegna nel confrontarvicisi, tanto nella sua scrittura quanto nella sua lettura, nonostante le possibili asperità e divergenze nei particolari. Ora, una particolarità di un tale modello sta sicuramente nel rapporto autore-testo. L’autore se non gli autori nei “libri delle ore” sono generalmente (culturalmente, storicamente) considerati secondari se non alle volte anonimi, rispetto al possessore del libro, spesso unico, il cui nome invece si ricorda come indicazione della singolarità, identità e storia del volume. Basti pensare a uno dei casi più noti, il Libro d’Ore di Filippo II, scritto e miniato dai frati Andrés de León, Julián de la Fuente e Martín di Palencia, memori dello stile manierista di Giulio Clovio. Scritto e miniato: in altri termini, eseguito.
A questo punto, si potrebbe desumere dall’esempio un possibile ragionamento. Da sempre lo scrittore esegue il testo, e in senso strettamente tecnico, cioè dalla burocrazia alla religione, ovviamente passando anche per la letteratura, nella misura in cui il proprio gesto “supporta” la voce-in-parola. Data una tradizione, dato un codice, stando agli estremi menzionati, si può suggerire che scriva per l’altro. Meglio: scrive per l’Altro. È il guardiano di una specie di regno di mezzo, un reame di ombre o allucinazioni. Ma una pragmatica della scrittura così suggerita può allora essere vicina a quella propria dell’atto della deposizione e magari nelle due suggestioni già indicate, che varrebbero come copertura della sfera del profano così come quella del sacro. In fondo, anche qui, rimarrebbe costante la mediazione di una alterità, sia essa di natura giuridica o divina, sempre sotto un giudizio terzo. Così la scrittura. Si scrive per dire altro, ma si scrive anche per essere detti altrimenti. Due momenti di una ulteriore specifica “verità”, quella dell’espressione. Da questo punto di vista, l’analogia con i significati relativi alla deposizione non svelerebbe altro che l’ambivalenza della soggettività in azione. L’essere soggetti di ma allo stesso tempo anche a qualcosa. Poco importa poi se di identico o differente, qualcosa accade, qualcosa è accaduto. E qualcosa ri-accade: diversamente, di nuovo.
Ora, la scrittura delle Controre di Brancale sembra aperta a una possibilità del genere, dal momento che l’intendimento all’origine pare non lasciar scampo, tocca un limite: «Scrivere è un mestiere d’ignoranza». Lungi dal tono altisonante della dichiarazione, il quale rivela esso stesso un certo sapere, una forte cognizione, qui il senso della frase vale tutto nell’efficacia del suo rovesciamento: se la condizione per scrivere è una tabula rasa della conoscenza, lo scrittore non potrà poi far altro che incorporare di riflesso questa condizione nel suo produrre scrittura: di modo da riflettersi, prodursi, incorporarsi in essa. In questo modo, la scrittura diverrebbe una occasione antropologica straordinaria di svelamento del sé più profondo, dove elementi come ritmo, musicalità, pause, cesure, sintassi e financo determinate scelte linguistiche possano assumere grande importanza nel tratteggiare il corpo e il volto dello scrittore, detti dalla sua non-più-sua scrittura: «Nessuna bocca più. Nessun occhio. Nessun orecchio./ Esiste un volto./ Un volto che non sta più nelle ossa./ Un volto che resta la violenza del suo nome.// Ogni osso risuona di quest’affanno./ Ogni uno della dimenticanza.// La nudità è invisibile».
A ben leggere, non pare poi sbagliato ribadire come la cifra dell’ “essere detti dall’opera” sia una costante nei luoghi delle Controre di Brancale, i quali potrebbero intendersi come localizzazioni psico-fisiche dell’immaginazione, dove però il “modellamento” dell’io deforma e disinforma qualsiasi immagine o intenzione. Luoghi che si chiamano, «della sospensione» e «della sovversione», e rivelano – grazie anche al manierismo linguistico presente – affinità e continuità ineludibili, come fossero spazi di una dialettica implacabile. «Ecco, sconosciuto, scrivere è stendere in avanti le braccia nella speranza di sfiorare qualche cosa di te che non si può vedere, al di qua dell’orizzonte, nelle pieghe della parola lontananza. Vivere scrivere portano a nulla». E un movimento verso – soprattutto – «un silenzio cosparso», un vanire. «Mi ritiravo nel cranio, abbandonavo la superficie della riconoscenza. Perdevo l’essere a te un altro tu da cercare. Sfiguravo». Da nulla a nulla. Fuori di sé prima, in sé dopo. Formulando così le cose, ci sarebbe allora da aggiungere come conseguenza che un tale rapporto tra sospensione e sovversione, nel corso di queste Controre, non sia altro che un modo diverso di alludere al senso, abbozzato, dell’atto della deposizione come ideale trait d’union. In fondo, cos’è deporre se non l’abbandonare e il delegare a funzioni terze parti di sé come la propria parola, oppure il proprio corpo, e perciò sospenderle dal proprio contesto canonico, al fine poi di auspicare per queste una trasfigurazione in forze, un qualcosa capace di rovesciarne le logiche, e perciò sovvertirle, e far significare così l’Altro? «Una pagina di ossidiana, una pagina di nuvola, una pagina che cerca un nome. Una pagina per niente al mondo senza nome. Tu resti la soglia. Tu, libro che non muore».
Lasciate tra i luoghi del soggetto delle Controre, si trovano le Corrispondenze di resa e le Corrispondenze di attesa. Dalle denominazioni, si può subito carpirne l’impressione paradossale, dal momento che la “resa” e “l’attesa” suggerite non stanno a significare altro una comunicazione non comunicata, che non vuole essere comunicata e che così ritorna forse al mittente, oppure lo investe. In queste “corrispondenze”, da intendersi liricamente, cioè nei loro rimandi e accordi formali e sostanziali, sono evocate figure di artisti come Barcelò, oppure Vedova, ma anche altri. Più nello specifico però, queste “corripondenze” sembrano passaggi rivelatori della forma attraversata dal movimento di questa scrittura, la forma diaristica. Dove, se non appunto nel diario, ovvero in uno degli ambiti della scrittura più prossimi alla memoria, una comunicazione si rivela per ciò che da sempre è, ovvero non direttamente comunicata? Qui, tutto parte da un pressuposto, assai duro quanto chiaro: «Nessun sentiero, nessuna indicazione». Tutto sembra ignoto, e dunque da scoprire o riscoprire: si scrive e si legge da una perenne condizione che appare dettata da una distanza incolmabile, tanto nel tempo quanto nello spazio. Da tale punto di vista, le “corrispondenze” citate funzionano come amplificazione della distanza. Si scrive e si legge per allontanarsi sempre di più. Non solo dagli altri, quanto anche da sé stessi. Come dire: a parlare, c’è una voce postuma. Condizione tipica della forma diaristica, che sposta al presente la mancanza, sia quando «La fiamma che alimenta le cose si spegne lasciando nell’orbita delle nostre pupille geometrie inconsolabili, simulacri – rimorsi nel vento.», sia quando «un nuovo giorno nel sonno della cenere e nel crepitio dell’osso si attorciglia al fiato».
Per una voce intesa postuma, c’è da sempre nella forma diaristica una “parola” intesa come deposta. Depositata, custodita, sigillata. Queste Controre non sembrano fare eccezione. Ora, “deposta” secondo quale schematismo, se non quello già precedentemente alluso? Una parola dunque sospesa nel suo verbo e sovvertita nel suo senso, si tratterebbe di questo, dal momento che non va da nessuna parte e non sembra poter essere facilmente leggibile. Piuttosto: è parola indicibile perché da vedere e scrutare prima di tutto, perché afona di principio. Qualcosa che varrebbe come forma – vuota – da considerare oppure usare, come “figura”, e che andrebbe idealmente a relazionarsi ai movimenti delle “corrispondenze” citate, alla resa e all’attesa, mettendo le basi per rendere possibile un suo diversa comprensione, anacronistica e controfattuale, affine – stavolta in maniera radicale – alla pratica diaristica. La scrittura come segreto, «Segreto al quale non siamo rivelati». Da qui, una ulteriore marcatura nella separazione tra scrivere e dire, il “confino” della voce nelle «pagine bianche della resa», «la lingua di fine», l’insistere – una volta di più – sullo scrittore detto dall’opera, se non addirittura identificato nell’opera in sé, nell’ «Essere qui tradotto, indirizzato alla morte, agli amici, nel luogo intimato dal lutto». O, detto altrimenti, deposto. In un tale ipotetico diario, nei suoi parallelismi e rovesciamenti, nel suo spazio rituale di azioni e irrapresentabile di immagini, la scrittura sembra però destinata ad una decifrazione che non verrà mai, lo stesso atto di lettura. In fondo, «L’indice è vuoto». E il diario, uno specchio.
Qui il lettore è complice del segreto.
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