di Giovanni Giovannetti
Nei giorni scorsi abbiamo ricordato il 69° anniversario della strage nazista di civili (soprattutto donne, bambini e anziani) a Sant’Anna di Stazzema nell’entroterra versiliese; tra il 29 settembre e il 5 ottobre cade l’altrettanto triste anniversario della strage di Marzabotto in Emilia. Ma non va dimenticato il martirio egualmente agghiacciante delle popolazioni civili nei territori occupati dalle truppe italiane. Una fascistissima pagina, vergognosa e criminale, della storia italiana.
Durante il fascismo, giornali, riviste e rotocalchi riservarono ampio spazio alle imprese belliche africane e spagnole. Il successo della propaganda di regime fu indiscusso: l’Italia visse allora momenti di esaltazione nazionalistica collettiva per la vittoria. Il coro della legittimazione – e della rituale disinformazione, sospesa tra l’eroico e il fiabesco – univa tutta la stampa italiana, dalla “Domenica del Corriere” alla “Tribuna Illustrata”, all’“Illustrazione italiana”, al settimanale fascista “Gente Nostra” (che, nell’aprile 1931, aveva assorbito “L’Illustrazione Fascista”), fino alle testate minori o periferiche.
Ma non si cerchino in questi fogli notizie veritiere sulla italianissima deportazione di 100.000 nativi nordafricani dall’altopiano del Gebel Nefusa, per oltre mille chilometri nel deserto e poi rinchiusi in tredici campi di concentramento nei pressi di Bengasi e di Sirte; campi carenti di cibo, acqua, igiene. Buona parte erano donne, bambini, vecchi; morirono in oltre 15.000 o per fame o per sete, o uccisi dagli italiani: un vero e proprio atto di ‘pulizia etnica’. Non si cerchi in Italia l’eco della distruzione e dello sterminio di interi villaggi con bombe all’irpite e al fosgene (armi chimiche vietate dalla Convenzione di Ginevra del 1925). O di altri massacri di civili inermi in Cirenaica e nel Fezzan (così come poco dopo in Etiopia); crimini ordinati dal governatore Pietro Badoglio e dal suo vice, il generale Rodolfo Graziani che – sostenuti dal ministro delle Colonie Emilio De Bono – fecero ‘terra bruciata’ intorno agli irriducibili patrioti di Omar al-Mukhtàr (non più di 3.000 partigiani appartenenti alla confraternita islamica dei Senussi). Non troverete impresse dal piombo tipografico la notizia delle fucilazioni indiscriminate o – come all’oasi di Cufra in Libia nel gennaio 1931 – quella di unghie e occhi estirpati, di uomini evirati e lasciati morire dissanguati, di donne incinte squartate e di feti infilzati, di testicoli e teste mozzate esibiti come trofei (e una volta nominato vicerè di Etiopia, il maresciallo d’Italia Graziani – quarant’anni prima del dittatore argentino Videla – diede ordine di uccidere i ribelli catturati gettandoli dagli aerei in volo).
Tutto questo è persino peggio di quanto hanno testimoniato i sopravvissuti delle due principali stragi naziste di civili in Italia, a Sant’Anna di Stazzema in Toscana e a Marzabotto in Emilia. Elio Toaff, il futuro rabbino capo di Roma, era stato partigiano sui monti dell’entroterra versiliese. In quella tarda mattinata era giunto quasi per caso a Sant’Anna, poco dopo la partenza dei tedeschi. Dietro la chiesa una sola casa superstite. L’uscio era spalancato. Toaff entrò e tutto pareva in ordine, a parte un dettaglio: in mezzo alla stanza sedeva morta la Evelina, quasi fosse stata viva. Il giorno prima del massacro aveva avuto le doglie per il suo terzo figlio. Le belve avevano squarciato il suo ventre con una baionetta e strappato il bimbo vivo dalla pancia e freddato con un colpo alla tempia. Il cordone ombelicale ancora legava il cadaverino alla madre uccisa. Enio Mancini è tra i pochi superstiti della strage di Sant’Anna: «Vedete questa fotografia? È di qualche giorno prima e solo due bambine sono sopravvissute. Vidi i cadaveri carbonizzati sulla piazza. Tra loro cercai i miei piccoli amici. Ricordo l’odore della carne bruciata; una sensazione che ancora non ho superato è proprio l’odore di quell’immenso carnaio di cadaveri fumanti». Fare ‘terra bruciata’: lo stesso ‘metodo’ adottato a Monte Sole presso Marzabotto poche settimane dopo (le stesse divisioni, assassini in divisa al comando di Max Simon e Walter Reder: 770 civili uccisi).
Più che evidente ogni simmetria con la repressione italiana in Cirenaica o in Etiopia o in Grecia o nei Balcani.
Ricorderemo il massacro di 150 contadini il 16 febbraio 1943 a Domenikon in Grecia: qui l’intera popolazione maschile tra i 14 e gli 80 anni venne trucidata dai componenti la 24ª divisione fanteria Pinerolo al comando del generale Cesare Benelli. Ancora in Tessaglia, qualche settimana più tardi altri 60 civili verranno fucilati a Tsaritsani. Decimazioni per rappresaglia si registrano a Domokos, Farsala, Oxinià.
Quanto all’Albania non può spegnersi l’eco dell’eccidio di Mallaska (la “Marzabotto albanese”): 80 villaggi dati alle fiamme, centinaia di civili trucidati. A fine conflitto in Albania si conteranno ben 850 villaggi distrutti.
In Slovenia si conserva ancora vivido il ricordo dell’assassinio di 102 ostaggi civili a Lubiana nel marzo 1942. Così come in Croazia ben ricordano l’eccidio di Podhum, il 12 luglio 1942 (91 le vittime, incendiato il villaggio, uccisi tutti gli uomini tra i 16 e i 64 anni, il resto della popolazione deportata in campi di internamento).
In Montenegro, a Pljevlja il 2 dicembre 1941 vennero fucilati 74 civili. E poi Causevici, Jabuka, Crljenica, Drenovo (i villaggi distrutti, numerosi abitanti uccisi). E ancora a Babina Vlaka, a Jabuka, a Mihailovici: qui le truppe italiane ammazzano 120 civili. E qui ci fermiamo, poiché si presenta angosciante e interminabile l’elenco dei lutti, dei saccheggi, degli incendi, degli stupri… Di questa criminale politica della ‘terra bruciata’perseguita oltremare dall’Italia fascista (che in Africa è anche politica di genocidio) rimane dolorosa la ferita nella memoria civile delle ex colonie. La si racconta in libri di storici come Angelo Del Boca (Italiani, brava gente?, Neri Pozza 2005) e Giorgio Rochat (Le guerre italiane 1935-1943. Dall’impero d’Etiopia alla disfatta, Einaudi 2005). Memoria coltivata anche in numerose agghiaccianti fotografie locali (con gli occupanti in posa davanti a cadaveri penzolanti dalle forche o accanto a ceste colme di teste mozzate).
All’opposto, tra le truppe italiane di occupazione in Africa e nel Paese erano diventate popolari ben altre fotografie: «Io domando: donne, da queste parti? Nessuna, rispondono con cupa rassegnazione, ma abbiamo delle fotografie…», ha scritto Ennio Flaiano in Tempo di uccidere. All’orrore del genocidio si era inteso sovrapporre il mito delle «brune ed aggraziate figlie del sole, sbocciate, come fiori gentili, in quelle serre dei tropici», il mito della ‘Venere nera’.
22 agosto 2013 alle 23:40 |
Aggiungiamo pure all’elenco i 20.000 prigionieri austro-ungarici catturati nel 1915-18 e deportati all’Asinara, di cui solo 6.000 fecero ritorno, abbandonando i compagni in terra sarda, morti di stenti, colera e sete, vittime di una guerra voluta per il prestigio dei generali, figli dell’aristocrazia dell’Italia liberale.