Luchino Dal Verme compie cent’anni

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Luchino Dal Verme, già comandante partigiano della divisione garibaldina Gramsci, il 25 novembre compirà cent’anni. Vive nell’antica torre d’avvistamento dei dal Verme a Torre degli Alberi, nell’Oltrepo pavese. L’ho incontrato una prima volta nella primavera 1983. Stavo lavorando a un libro (Genti, formicona editrice, uscito sul finire dello stesso anno) e ho voluto raccontare la storia di quest’uomo, l’autorevolissimo comandante Maino che, dismesse le armi e rimboccate le maniche, nel dopoguerra ha fondato un’azienda agricola all’avanguardia in Europa. Un racconto distribuito su più giorni, in parte affidato al registratore, in parte scritto a penna. Una storia che qui ripropongo – divisa in tre parti – in occasione di questo suo nuovo straordinario traguardo. (G. G.)

Spero che ognuno si renda conto di quanto poco sia partigiano far parole e discorsi: resistenza è azione, è comportamento, è impegno, è stile di vita – è tutto tranne che parole. Al ricordo delle speranze del ’45 e al rimpianto dei compagni perduti, si aggiunge l’amarezza di questi anni, pieni di ingiustizie sociali, di corruttela e di violenza.
Ecco allora che parlare di resistenza non è patetico revival da reduci di guerra, ma un’occasione per cercare di capire errori fatti e scelte da fare, un’occasione per onorare chi ci ha creduto fino in fondo. Dobbiamo rifarci all’8 settembre, alla fuga generale, con l’Italia trasformata in un campo di battaglia fra stranieri, vuoto totale al vertice, fame alla base, l’arroganza tedesca su tutto, lo spettro fascista.
Che fare? Le sorti della guerra sembravano decise. Valeva la pena di esporre al furore nazista le povere valli di montagna per dar vita a formazioni che nel quadro della guerra mondiale potevano avere l’importanza di un granello di sabbia in mezzo al Sahara? Il Comitato di liberazione, il Corpo volontari della libertà, il Corpo italiano di liberazione hanno dato la necessaria risposta: l’Italia doveva scendere in campo, non poteva aspettare la libertàdalla mano dello straniero. Se è vero, come è vero, che la vita è fatta di scelte, quel momento storico non poteva che determinare scelte coraggiose. Quei primi drappelli scarmigliati che scendono in campo con le vecchie uniformi grigioverdi, i nuovi nomi di battaglia e delle povere armi strappate al nemico, sono la più grossa testimonianza di capacità di scelta che tutta la popolazione fece sua, fornendo quel supporto che il tempo dimostrò determinante.
Per me l’8 settembre è stata una data enorme. Io venivo già da sei anni di guerra, avevo sulle spalle due anni di esperienza di campagna di Russia, in un reggimento meraviglioso. Una situazione di privilegio assoluto, perché per sei anni ero stato sempre nel medesimo reparto, da sottotenente a capitano, con incarico anche di maggiore: responsabilità molto grosse, ma sempre con gli stessi uomini, o quasi. Ne conoscevo vita, morte e miracoli, e loro mi conoscevano, in tutti gli aspetti: umani, fisici, di resistenza, di capacità…
L’8 settembre io sono l’aiutante maggiore di gruppo, mi arriva un foglio che dice: «Il comando di divisione ha ordinato che tutti gli ufficiali si trovino a gran rapporto». Non l’8, ma il 15 settembre, otto giorni dopo, quando tutto era finito, otto giorni dopo che erano cominciati ad arrivare lì tutti i soldati che abitavano in quel paesino, da quell’esercito che si era smembrato, che si era sciolto, e tornavano a casa a dire: «Ma voi cosa state qua a fare»?
Io ero a Lugo di Romagna. Brandeggiammo un giorno cannoni verso i tedeschi, il giorno dopo dall’altra parte. Sono andato dal colonnello a dire: «Ma scusi, signor colonnello – lo stimavamo enormemente, avevamo fatto anni insieme – per piacere, mi aiuti a capire. Io non sono più capace di fare il burattino , con i miei soldati, con i miei uomini, che hanno ogni fiducia in me. Oggi non è più una questione di fiducia nelle istituzioni, è personale».
L’ordine dice: «Il comando di divisione ha ordinato che…» Io capisco che c’è qualcosa che non va, riunisco subito gli ufficiali, e dico: «State attenti, ragazzi, qui succede qualcosa che non va». Di solito l’ordine è: «Il colonnello comandante Pacinotti ordina che domani tutti gli ufficiali si trovino a rapporto. Il colonnello comandante». Invece, qui il colonnello comandante dice: «il comando di divisione ha ordinato che domani tutti gli ufficiali si trovino a rapporto . Firmato: il colonnello comandante». Che è questa nuova formula?
Andiamo al comando, che era a tre chilometri da noi, a Forlì, e li troviamo tutti tirati, con delle facce… «Cosa c’è qui? Cosa sta succedendo?» «Succede che il colonnello ha trasmesso quest’ordine, ma poi non lo esegue e tenta di raggiungere il Re, nell’Italia meridionale».
Riunione. Siamo restati tutta la notte a discutere: giuramento, onore, dovere, stellette, l’ultimo ordine militare è questo, però il giuramento è al Re, però chi è il Re… Morale: dopo ore avevano tirato fuori la parola: «Qui qualcuno tradisce: o è il comandante della divisione, o è il colonnello comandante». Due persone che personalmente stimavamo. Quindi siamo al casino totale: il Re – altro dramma – lascia completamente, scappa, è scappato.
Nel reggimento c’era una grossa fronda antifascista: non si salutava col saluto romano ma sull’attenti, rifiutandosi di fare quell’altro saluto. Ma erano balle di forma, di sostanza non c’era niente. Ma la fedeltà e la fiducia nella monarchia, era il valore portante, fuori discussione. Io, tra l’altro, vengo da una famiglia dove un prozio era precettore dei Savoia. Questi uomini destinati a diventare i responsabili del Paese crescevano in mezzo alle sottane e nei salotti. E allora lui, per allargare gli orizzonti, ha portato il duca Tommaso a fare un viaggetto che si chiamava allora Giappone e Siberia; e han pubblicato un libro che mi dicono che è ancora attuale oggi. Si capisce perciò che cosa rappresentava la monarchia in famiglia: affidamento, ma con molta critica. Delle nostre donne, nessuna faceva parte del Palazzo – diciamo – ma dell’ambiente, della parentela, sì. C’era molto sentimentalismo, molta più forma che sostanza.
Questo mito crollava. Ricordo che papà diceva: «Quando un Re viene messo in discussione, vuol dire che non c’è più, è crollato, è morto dentro». Per cui, quel famoso 8 settembre, ci trovammo di fronte tutti a questo dramma. Era più acuto negli ufficiali effettivi che in quelli di complemento, perché per gli ufficiali effettivi una scelta sbagliata in quel giorno voleva dire compromettere la carriera. Si trattava di tre scelte: obbedire all’ultimo ordine e presentarsi al comando di divisione, che voleva dire certamente – come dicevamo tutti – farsi prendere dai tedeschi e farsi mandare in Germania, eran già partiti non so quanti treni. Oppure, tentare di seguire l’esempio del colonnello e raggiungere l’esercito di liberazione che si stava ricompo
nendo a Sud. O infine – come poi abbiamo fatto in molti – a casa e poi vedremo.
Ci siamo lasciati. Prima di tirar fuori la parola «tradimento» c’è voluto un certo tempo, però ci siamo lasciati promettendoci di non rinfacciarci mai la diversa scelta che ciascuno di noi faceva. Io sono tornato qui, mi sono presentato a mia madre, e ho pianto dicendo: «Mamma, per la prima volta in vita mia non so più qual è il mio dovere». Prima di venir via, ai miei ufficiali, a tutti i miei soldati – non ne era scappato uno! – ho detto che avevo la licenza di mandarli a casa, con un foglio di carta in bianco, perché non si poteva dargli un foglio di carta del reggimento, voleva dire comprometterli. C’era scritto: «Ha servito con onore il suo Paese». Oggi in certe famiglie si trova il quadretto: è un foglio di carta non intestata firmato “Luchino dal Verme”, o “tenente Farina”.
Tornato a casa, ho dovuto star qui due mesi nascosto: tedeschi, fascisti, me ne han fatte di tutti i colori… Il comando fascista era a Voghera. I miei davano molto aiuto a tutti i soldati che tornavano a casa e dal Piemonte andavano in Emilia. In quel periodo l’Italia è stata fantastica: che cosa non ha accolto, tutti quelli che passavano, che trasmigravano, li davi da mangiare e gli raccoglievi in casa.
Verso i primi di ottobre, sono passati di qua due ai quali mia madre ha dato ospitalità come dava a tutti. Erano due spie mandate su dai tedeschi, dai fascisti di Voghera, che poi ci hanno denunciato, dicendo che avevamo in casa le radio, e che eravamo in collegamento chissà con chi, tutte balle inventate di sana pianta. E lì sono cominciati dei veri soprusi: han portato via me, papà mio, processo, non processo, degradazione… Perché allora non potevano farmi niente, non ero più in età di leva, quindi non avevano argomenti. Il comportamento è stato talmente grave che ci ha fatto capire che cos’era. Perché, il vero dramma del fascismo, è stato che nessuno di noi aveva mai sofferto sotto il fascismo. Le adunate al sabato pomeriggio e alla domenica erano un fastidio, certo, perché era più piacevole andare a giocare al pallone che andare al premilitare, ma il resto… Eravamo giovani, allora, chi l’ha sofferto erano gli operai che dovevano aver la tessera per poter lavorare, quelli che avevano bisogno di esprimere qualche cosa e si accorgevano che il fascismo non glielo permetteva. Io l’ho soltanto intravisto, appena appena, nel mondo cattolico, perché la mia formazione era quella. L’avevo visto soffrire, perché vedevo i comportamenti, ma clandestini – anche nei nostri riguardi non ne parlavano ufficialmente, avevano paura. Erano i boy-scouts, il mondo scout, che il fascismo aveva sciolto, come aveva sciolto l’Azione cattolica, perché eran tutte associazioni che non gestivano loro.
Erano state costituite le cosiddette «Aquile randage»: dei nuclei piccolissimi, il cui obbiettivo era di continuare a ritrovarsi, non di portare avanti una proposta politica diversa. Affermare il principio: «Noi siamo una piccola associazione, e noi la portiamo avanti, indipendentemente dal fatto che il fascismo ci impone di scioglierci». Direi che era tutto limitato lì, per quel che ne so io, nessuna azione. Le uniche azioni precedenti di resistenza erano state promosse dal Pci, pochissimo anche lì, ma senza dubbio qualche cosa lì c’era in atto, di cui non avevamo la misura. Ma quel fascismo che noi non avevamo sofferto durante il periodo fascista, se non sul piano della forma, o su altri piani secondari, nel periodo immediatamente dopo l’8 settembre, abbiam capito che razza di gente era! E abbiamo ricominciato a ritrovare i collegamenti a livello di reggimento, per conoscenze personali.
Io stavo qui, il colonnello Cerloneschi stava a Valenza, un altro stava altrove: abbiamo cominciato a ritrovarci, a rivederci… «Che cosa fa? Non è possibile star qui con le mani in mano… D’altra parte indirizzi non ce n’è». Viceversa, dal Sud cominciavano a dire: «Promuovete qualche cosa, datevi da fare». Noi abbiamo fatto una certta analisi – in quattro, cinque, sei, molto slegati, con molte difficoltà, perché il mezzo di trasporto era la bicicletta… «Qui l’unica cosa che possiamo fare noi, oggi come oggi, è organizzare un servizio di informazioni più valido e più corretto possibile per gli alleati. Vediamo di fare una cosa di questo genere».
Nel mio reggimento, c’erano vecchie tradizioni di cavalleria, di ippica, di concorsi ippici; e tra gli ufficiali tedeschi c’era gente che si conosceva su questo piano. A Valenza c’era un comando tedesco, con un vecchio colonnello del reggimento in pensione che aveva in casa sua, perché gliel’avevano requisita, quegli ufficiali tedeschi che si conoscevano perché si montava a cavallo insieme nei concorsi ippici. Attraverso questo vecchio uomo abbiamo cominciato a cercare di avere notizie da loro, attraverso il farli bere. Io facevo la spola tra Valenza e il Penice, dove intanto era nata una stazione clandestina di comunicazione con gli alleati. In bicicletta, va e vieni…
Un giorno incontro un ragazzo di Voghera, che mi dice: «Stai a sentire, io so che tu stai facendo lavori di collaborazione…» «Ma chi te l’ha detto, cosa ne sai tu? Come fai a inventare queste storie? Sei un provocatore! Vieni qui per provocare! Io non so niente, non so niente, non faccio assolutamente niente, sono nel disordine totale, me ne guardo bene…» «Bene, dice, non so niente. Hai ragione, fai bene a non dirmi niente. Comunque sappi che io mi chiamo Legnano, se hai bisogno, se ti serve, se cerchi… ricordati che mi chiamo Legnano e sto nel tal posto a Voghera, e in te ho piena fiducia». «Va beh», dico. «E tu come ti chiami?» «Cosa vuoi che mi chiami? Non mi chiamo niente, non sono nessuno! Se è per farmi capire con te, siccome Legnano è una marca di biciclette, scegliamo qui come nome la sottomarca, la sottomarca è la Maino. Almeno come sottomarca». Ed è nato il nome Maino.
Poi su questo abbiamo giocato enormemente, che Maino voleva dire Mai no. Hanno scritto degli articoli su questa cosa, si sa come sono i giornalisti: il Maino era quello dei Mai no. Invece era nato come sottomarca della Legnano! Amen.
Continuo quest’attività, e intanto nascono le formazioni, con tutti i tipi possibili e immaginabili. All’inizio, non c’è dubbio, prevalentemente Pci: ragazzi che, costretti all’obbligo di leva, per paura di essere mandati in Germania preferivano piuttosto venire nelle formazioni – di questo noi ce ne rendevamo conto, e non potevi dirgli di no – e perseguitati politici che avevano già svolto dell’attività in pianura, ma non ce la facevano più a vivere là e venivano in montagna. Formazioni, dunque, molto eterogenee.
Un bel giorno viene da me un vecchio uomo, Alcide Civardi, un funzionario delle poste di Milano, un fior di individuo, che aveva fatto molta attività ed era stato mandato su perché a Milano non poteva più vivere, era troppo segnato. Viene da me e mi dice: «Stai a sentire, succede questo e quest’altro. Io sono incaricato dal Pci di affidarti l’incarico della formazione di queste zone». Io ero molto perplesso, dico: «Ma ne avete discusso, ne avete ragionato? Ma ti rendi conto di cosa vuol dire? Io devo ricominciare da capo…» Invece lui aveva fatto un’analisi della storia, del comportamento, della famiglia, ecc. e concluse: «Ci sembra corretto e giusto fare così». E io. Ma ci siete di mezzo voi, sono io che comando o siete voi che comandate…?
Avevo una grande diffidenza nei confronti del Pci: era il bolscevismo, era la rivoluzione, era il sovvertimento, nella nostra mentalità e nel nostro giudizio. Difatti c’erano state delle opposizioni, l’ho saputo vent’anni dopo: due comandanti di formazione, Ciro e l’Americano, tutt’e due del Pci, si sono opposti. Han detto al partito: «Ma voi siete matti, cosa vuol dire dare il comando della “Gramsci” a un dal Verme?» E si sono battuti perché questo non avvenisse.
Io non solo non l’ho mai saputo, da loro, ma ho avuto da loro una totale solidarietà, sul piano umano, sul piano militare, sul piano delle piccole e delle grandissime cose. Vent’anni dopo, quando ho avuto quel vergognoso attacco ai tempi di Feltrinelli, perquisizioni nella casa, loro hanno scritto un articolo sul giornale, e ho avuto la loro sempre piena solidarietà. Con la mia formazione, c’era anche un altro dramma: la scomunica. C’era di mezzo la Chiesa, i comunisti! Il mio reggimento era cattolicissimo: «Ma tu sei matto! Ma guarda che, appena abbiamo finito di far la guerra con questi, dobbiamo farla con quelli!»
Per fortuna incontro un giovane sacerdote che conoscevo da tempo e mi dice: «Luchino, non hai capito proprio niente. Ma se tu credi, credi nella vita come dono, come responsabilità, ricordati che il dono immediatamente successivo è quello della libertà. E se non sei capace di batterti per la libertà dell’altro uomo, se non ti rendi conto che ti fai tanto più libero quanto più ti impegni per la liberazione dell’altro, perché lui si liberi, perché lui sia libero, allora non hai capito niente». Era un uomo estremamente illuminato: è morto in Brasile, perché poi ha avuto dispiaceri con la Chiesa…
Ma c’era sempre questo atteggiamento nei riguardi del Pci, di diffidenza. Mi ricordo le discussioni avute con Italo Pietra e Carlo Zucchella, giù in una fornace. Zucchella, un piccolo uomo, ma enorme, enorme! Avevamo l’impegno di assumere la responsabilità militare delle formazioni, di rispettare l’andamento, ma loro non pretendevano che firmassimo una tessera Pci. Anzi, quando io mi sono lamentato di certi ragazzi che erano del Pci, era il mio commissario che li rimetteva a posto, in un modo spaventoso, cosa che io non avevo mai osato fare.
L’impegno di questo commissario era perché la linea discussa e scelta alla fine venisse applicata secondo le direttive che io poi davo volta per volta. Per esempio, uno dei passi giganteschi è stato quello di dire: «Va bene, facciamo questa azione qua, però quando abbiamo deciso di farla e abbiamo deciso gli uomini, io ho il diritto di dire; “No, questo no, è sproporzionato alle sue forze, perché non è preparato, perché è troppo giovane, perché è troppo vecchio, ecc.” Quando poi sei in azione, però, la condotta dell’azione la guido io e pretendo di guidarla io. Può essere anche un altro, ma se date l’incarico a me, pretendo che, in fase di azione, i comportamenti siano come dico io». Loro andavano alle azioni così, alla “carlona”, invece io pretendevo l’avanguardia e la retroguardia, se no morivano come mosche… Il commissario è stato bravissimo, e ha detto: «Ma non c’è dubbio, deve essere così e non può che essere così». Un conto è l’autorità e un conto è l’autorevolezza…
Italo Pietra e altri come me si aveva una esperienza militare, sapevamo che non si possono fare le cose così. E i commissari comunisti sono stati fedelissimi, bravissimi. Durissimi nel pretendere ufficialmente dai loro uomini che ciò venisse rispettato. Accettato questo criterio, un altro stress. A una riunione di questo gruppettino del partito che mi dà l’investimento e mi dice: «Luchino è responsabile della cosa e…» e io accetto, immediatamente dopo mi cantano questa canzone: «Non c’è tenente né capitano, né colonnello né generale…» Bisogna andare indietro di quarant’anni per capire ciò che voleva dire per noi. Poi mi sono accorto, e l’ho scritto anche sul libro del nostro reggimento, che era profondamente vero: non sono i gradi che ti danno l’autorità, è il tuo comportamento, le tue capacità. L’autorità viene da infinite cose, non dai gradi. Però, al momento, è stato uno shock per me: «E qui come si fa?» Difatti, ho cominciato da capo, ho cominciato a fare delle azioni, magari inutili, ma del loro livello. non potevano credere e accettare che fossi capace: dovevano vedere che lo ero.

(fine della prima parte)

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2 Risposte to “Luchino Dal Verme compie cent’anni”

  1. monicadalessandropozzi Says:

    Gentile Giovanni, ebbi la fortuna e la gioia, anni fa di conoscere il comandante “Maino”; oggi, nella ricorrenza dei 70 anni della liberazione , ho segnalato questo articolo e questo blog, al progetto #adotta1blogger su facebook.https://www.facebook.com/groups/1559256780995597/ .
    Ulteriori informazioni le può trovare qui:http://social-evolution.it/adotta1blogger/.
    Buona festa!

  2. Francesco Says:

    È un brano straordinario, luminescente, di alto valore narrativo, oltre a costituire un vero e proprio documento d’indagine storica. Alcuni passaggi sono talmente icastici da offrire al lettore una visione nitida della memoria: “Che fare? Le sorti della guerra sembravano decise. Valeva la pena di esporre al furore nazista le povere valli di montagna per dar vita a formazioni che nel quadro della guerra mondiale potevano avere l’importanza di un granello di sabbia in mezzo al Sahara?”.

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