Terza e ultima parte
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A guerra finita io ero preoccupato delle mie formazioni partigiane: «che cosa succede adesso a questa gente? Chi la riporta oggi ad inserirsi nella vita?» Avevamo degli automezzi presi a Pavia, roba abbandonata dai tedeschi, o dall’esercito italiano. Volevo che questo materiale non andasse disperso: l’ho raggruppato e ne ho fatto una cooperativa di autotrasporti, con i partigiani. Ma non ero preparato a passare dalla parte militare alla parte di organizzazione civile, e i mezzi erano terribilmente eterogenei, e poi ognuno aveva una sua esigenza e mentalità (la mentalità del camionista è tutta diversa). Dopo poco ne sono uscito, e loro han portato avanti ancora questi automezzi, allora indispensabili, perché non ce n’erano molti in giro. Questa è stata la prima cosa. E ho capito che non era la mia strada, non potevo fare quel mestiere, dovevo far tutt’altro.
Mi è venuta allora l’idea di fare l’editore. Mi sono fatto dare da papà mio duecentomila lire, che mi sembrava di dissanguare la famiglia, perché sapevamo tutto – di giuramento, di onore, di dovere, di dedizione – però i doveri economici, zero assoluto. D’altra parte, prima della guerra c’erano in banca tre milioni di titoli di Stato della mia famiglia, dopo più niente. Con quei tre milioni i miei vivevano larghissimamente, perché gliene venivano duecentomila lire all’anno, quando un’automobile ne valeva diecimila. Era gente di sobrietà estrema, però non aveva mai avuto problemi economici. In casa si era sempre respirato questo concetto dell’economia, della sobrietà, del non spreco, del rapporto correttissimo coi dipendenti. Paternalismo totale, ce ne siamo resi conto dopo, ma rapporto privilegiato. Dopo la guerra ci siamo trovati con una situazione patrimoniale quasi intatta, però le cascine non c’erano più, e così molte famiglie, e lo stesso i soldi.
Prima l’azienda di famiglia era a mezzadria. E io non capivo niente, non mi rendevo conto del problema reddito-capitale. Mi faccio dare quattro soldi dal papà, vado a lavorare nella casa editrice. Guadagno, però mi accorgo che ci vuol ben altro. Venivo qui ogni tanto, e vedevo qui la cascina bruciata, là quell’altra che non ce la fa più, il mezzadro che non ha i soldi per comprare un nuovo paio di buoi, e io non ho niente da dargli. Ci voleva altro.
Mi sono sposato e mi sono trasferito qua: ecco, si comincia da capo. Ho proposto ai mezzadri di trasformarsi in cooperativa. Una volta la mezzadria era cinquanta e cinquanta, il lodo De Gasperi proponeva il quarantasette e il cinquantatre, e poi altre cose. Dopo un anno abbondante che ero qui mi sono accorto che non ce n’era né per noi né per loro. Dico: «Guardate, qui non si va avanti, non è questione di quarantasette e cinquantatre, o del trenta e venti. Su questa base noi non reggiamo più, dobbiamo inventare un’altra cosa. Io vi propongo di fare tutta questa zona a vigna, perché è la più idonea, e la affidiamo al tale (un certo Peppino da Prati) che è bravo e se ne intende, di modo che con una macchina sola si fa quello. In quella vallata, invece, alleviamo vacche con il latte per tutti». Questa proponevo di affidarla a Guglielmo, che era molto in gamba. «Resterebbero senza lavoro tre o quattro, ma per loro ho già trovato due inserimenti qua e là…» Dico: «Cosa c’è che non va?» E loro: «E io devo bere il vino fatto da lui? Io devo bere il suo latte?» Era troppo presto: troppo presto per i tempi, troppo presto per la mia preparazione, insufficiente forse a reggere una situazione di questo genere. Era molto più comodo andare avanti col regime paternalistico. Però ho capito: qui bisogna mettersi a studiare qualche cosa, perché altrimenti non se ne viene più fuori, né noi né loro. E i bambini intanto non hanno neanche le scarpe…
Mi son messo a studiare. Non avevo fatto l’Università, ma il liceo, e male: a calci, poi c’era stata la guerra. Mi son messo a studiare, a guardarmi intorno: le macchine, i trattori. Certo, la meccanizzazione risolve tutto, però riduce la gente. E ho preso in considerazione due o tre strade. La frutta, anzitutto. Sono andato da un vecchio uomo di qui, il signor Cesare Taravelli di Santa Maria della Versa, che era un fior di individuo, e m’ha detto: «hai ragione, punta su questo, punta su quello, ma perché non curi anche il vino?» Rispondo: «Perché siamo troppo in alto, in montagna». Tra le zone povere, la fascia al di sopra dei 600 metri, la nostra è ancora la meglio, andando in su è sempre più povera, ma qui è già un grosso salto indietro rispetto ai versanti di pianura dove fai l’uva. Qui se l’andamento stagionale non è perfetto, non fai il vino buono. Per cui ho fatto a tempo a piantare delle viti, sbagliando, poi mi sono reso conto che qui l’uva arriva a maturazione perfetta un anno su tre! Perché siamo in montagna, e i nostri versanti non guardano la pianura. Qui si faceva il vino per autoconsumo: la gente viveva in miseria, c’era la fame, l’energia se la davano col vino. Ma neanche a parlarne di fare una produzione industriale. Finché è tutto autoconsumo, va benone: ancora oggi io bevo il nostro vino di qui, ma sulla produzione industriale niente da fare.
E scopro il mondo delle galline, e scopro che sono delle trasformatrici formidabili di alimento-prodotto. Il tenore di vita cominciava a migliorare, e i consumi di carne e di uova in Italia salivano. E son partito con pulcini e gallinesempre più avanti, vado in Francia a lavorare da operaio, per capire certe cose che qui nessuno sapeva: l’Università era al buio totale su malattie, ecc. Finché le galline sono dieci va tutto bene, ma quando i numeri vanno su manca proprio il substrato culturale. E dunque sono andato a lavorare in Francia, a scopiazzare, rubare modelli, rubare esperienze… tornato indietro, parto proprio sul serio.
Prendo contatto con l’Università di Pavia, con il povero Adriano Buzzati – che era stato mio compagno in guerra. E lui mi affida a un suo aiuto a Pavia, Scossiroli, che mi dice: «Certamente, partiamo col piano genetico, facciamo così e così». Si cominciava allora a parlare di polli da carne. «D’altra parte hai ragione, tu sei in montagna, fuori dalle nebbie, potrebbe essere interessante».
A Pavia lavorava anche un professore americano, mi pare si chiamasse Leroy, che un giorno venne anche qui. Vado avanti due o tre anni, ero già all’individuazione: omozigoti, eterozigoti. E insomma, stiamo facendo una chiusa di pulcini e capita un macchinone degli americani. Dicono: «Caro dal Verme, noi vorremmo lavorare con lei». «Ma voi chi siete?» «Siamo della Rockfeller», «E che volete? Perché volete lavorare con me?» «Perché abbiamo saputo da questo professore di Pavia che lei sta facendo un lavoro molto serio, ma dobbiamo anche dirle che lei è in ritardo rispetto a noi di vent’anni». «Come, in ritardo di vent’anni? Ho già gli omozigoti!» Lo sapevano più di
me a che punto ero… «Lei ha duecento famiglie, noi non lavoriamo con duecento, ma con ventimila, e con tre biologi, mentre per lei il professor Scossiroli dà assistenza genetica tre volte l’anno…» «Ma possibile?» «Abbiamo già individuato la resistenza a certe malattie, e calcolato bene la trasformazione mangime-carne. Siamo molto più avanti di lei. Se lei lavora con noi, noi vogliamo lavorare con lei. I patti li inventerà lei, ma ci deve dire se è disposto a lavorare con noi, altrimenti dobbiamo cercarne un altro, e lavorarle contro. Noi siamo troppo in anticipo, e lei sarà schiantato, dovrà piantar lì fra tre anni, perché il nostro programma di espansione è rapidissimo. Se non ci crede, venga in America a vedere».
Son salito su un aereo per l’America, per andare a vedere, ed era vero. Al ritorno sono andato in Università e ho detto: «Amici miei, che voi non siate in grado oggi di farci un piano di impostazione genetica lo ammetto, non ve ne faccio nessuna colpa. Ma che non sappiate che gli americani, non a livello di laboratorio e di ricerca scientifica, ma a livello di produzione commerciale somo già a questo punto, è semplicemente pazzesco!» «Ah, ma sai, le razze italiane…» «Benissimo le razze italiane, ma per competere con quelli o si parte con un programma governativo di dimensioni enormi – e io l’ho detto che le mie finanze non mi consentono di partire a livello competitivo con loro – o altrimenti si va sulla loro strada». Insomma, piantai tutto e partii con loro. E ci sono ancora oggi.
(Fine)
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