Oggi Luchino Dal Verme compie cent’anni

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Che la festa continui con questa sua riflessione a tratti amara sul “suo” Oltrepo. Quell’Oltrepo montano oggi a misurarsi con l’abbandono delle terre, e un’agricoltura «di rapina» da reinventare intorno a nuovi modelli produttivi, più rispettosi del territorio. Una storia di stringente attualità. (G. G.)

Oggi l’agricoltura di montagna è un’agricoltura di rapina: il grano non paga le spese che si fanno. La parte fieno non ne parliamo: sono tonnellate che partono dalla montagna e vanno verso la pianura. Alla pianura non conviene produrre fieno, ma produzioni più ricche, più alte di unità foraggere-ettaro: per esempio, il mais allo stato ceroso. Con le macchine, coi terreni fertili, con le grandi estensioni, col mais trinciato la stalla di pianura si alimenta a costi molto più convenienti. Però è indispensabile un po’ di fieno, altrimenti nascono dei problemi. E così il fieno si va a prendere in montagna. E i paesi ricchi sono sempre più ricchi, i paesi poveri sempre più poveri. Il fieno continua ad andare giù, e alla terra non viene restituito nulla: un impoverimento continuo del territorio.
Non è giusto che sia così. Abbiamo capito che era arrivato il momento di preparare modelli perché la montagna generasse, producesse, ricostruisse le risorse che esauriva. La montagna non può esaurirsi completamente, se no addio: nasce il calanco, nasce il dilavamento. Siamo andati in Francia, a cercare dei modelli simili, e siamo partiti con la proposta della linea vacca-vitello, cioè mandrie che per sei mesi pascolano – il che vuol dire non affienare quando i quantitativi di raccolto sono talmente scarsi da non pagare i costi – e sei mesi sono semistabulate con l’alimentazione locale, affienata sul primo taglio.
Questa è la nostra proposta, che richiede una grossa crescita culturale della popolazione locale, di uscire dalla fase di agricoltura di rapina. Continua l’esodo verso la pianura, la terra viene lavorata soprattutto dai vecchi, e in parte ancora con sistemi tradizionali. Certo, anche qui è arrivato l’atomizzatore, anche qui è arrivata la fresa, non c’è dubbio. Però c’è ugualmente molto lavoro a mano: l’allestimento verde, quello che qui chiamano taca su i cò, lo fanno le donne, lo fanno i vecchi. La potatura, il riallestimento, lo fanno prevalentemente i vecchi, o i giovani il sabato e la domenica. Con la piccola proprietà terriera che esiste qui, una famiglia che rimane prende in affitto anche la proprietà dei vicini, oppure fa le lavorazioni per conto loro, in parte abusive, perché non ha la licenza per farle. Se non le facesse non potrebbe ammortizzare il trattore, ad esempio. Avviene dunque un certo accorpamento, in modo più o meno corretto, anzi, in modo non corretto, perché provvisorio.Non c’è nessuno che affitta la terra al vicino perché questo vuol dire vincoli di diciott’anni. Invece, anno per anno, volta per volta, ci si mette d’accordo sul compenso per il raccolto, o qualche altro aiuto. Questo però rende la terra molto precaria, la situazione molto provvisoria.
I principali mestieri, nella fascia bassa, fino ai 600 metri, sono l’uva e la frutta. Dai 600 in su, la base è l’avvicendamento grano-erba medica. Pochissima zootecnia, specialmente solo ingrasso, e un po’ di latte. La principale figura professionale è il tuttofare! Non c’è più la specializzazione, come una volta il fabbro o il falegname.
Una delle ragioni per sviluppare questa attività è che l’impianto prato-pascolo destinato all’affienamento e al pascolamento richiede una aratura ogni dieci anni. E il pascolo, quando è impiantato, assoda molto il terreno, e non avviene il dilavamento.
A proposito del problema dell’Oltrepo e delle frane, una delle ragioni di questo grave problema – che ci sono sempre state, intendiamoci – sono le arature. Una volta, coi buoi, si facevano secondo linee di livello; oggi invece, coi trattori, si fanno in massima pendenza, e molto più profonde. Se si fanno tutti gli anni, come succede adesso per il grano, si peggiora, e molto la situazione. Invece, con l’impianto prato-pascolo, il terreno si rassoda, il dilavamento è molto minore, e il sistema franoso è più contenuto. Il problema va visto globalmente, altrimenti è inutile fare convegni sul problema dell’Oltrepo.
E ancora i boschi. Qui un tempo il bosco serviva per scaldarsi e per farsi il pane: il pane si faceva con le spine, con le cose povere. Il forno era acceso tutta la settimana: lunedì lo faceva la Carolina, martedì bastava una fascetta per riportare il forno in temperatura, e lo faceva la Giovanna, ecc. A turno lo facevano tutte, aggiungendo ciascuno la sua fascetta, ma la massa restava calda. E qui noi, mi ricordo, appena appena ce la si faceva ad accontentare tutti nelle loro esigenze di legna. Poi il fascismo ha molto incoraggiato il diboscamento, con la storia della battaglia del grano. Sono stati messi a coltura una quantità di terreni che assolutamente dovevano restare a bosco: parte a vigna, parte a grano… Infine, quando è arrivato il Liquigas e il petrolio, i boschi sono stati abbandonati: più nessuno fa legna. Non è più remunerativo, se non in casi rari. Così il bosco deperisce, o brucia. È allora molto importante, come funzione antincendio, il pascolo delle bestie nel bosco, nel bosco adulto, perché tiene pulita la lisca che c’è sotto.
Tra le cause principali delle frane c’è poi l’abbandono delle terre. Quando scendono gli uomini, dopo di loro scendono le acque disordinatamente, e quindi le terre, mentre prima la mano dell’uomo teneva pulito tutto. E un’altra causa sono le sorgenti: qui una volta, in tutti i paesini, in tutte le frazioni, c’era una falda impermeabile dove le acque affioravano, una sorgente, insomma: eran sacche d’acqua che durante l’estate venivano risucchiate fino all’ultima goccia, con fatiche tremende! Ma con l’avvento degli acquedotti, tutti questi fontanili non sono stati più utilizzati e praticamente sono sacche d’acqua che continuano a premere e a infiltrare.
Non bisogna generalizzare troppo: in certi casi ci sono cause precise, in altri no. E le frane in Oltrepo ci sono sempre state. Ho letto un ricorso fatto dai Dal Verme nel 1800, per non pagare le tasse, dove si diceva che loro avevano queste povere terre schifose, in un paese che si muoveva in modo tale che si chiamava “casa del matto”. C’è ancora questo paese: Casa del matto, perché la terra era matta. E tutto questo testimonia che frane ce n’erano anche allora.

Per finire, penso sia necessario un qualche “esame di coscienza”. Come ex partigiano, riguardo alla Resistenza, è molto più quello che ho avuto di quello che ho dato. Ma oggi, in questa Italia, di segni di essa se ne vedono pochi. Ho avuto modo di conoscere alcuni tra i più autorevoli uomini del Pci e della Dc, e se confronto il loro impegno, il loro credere, con i giovani funzionari di oggi, vedo che ormai c’è un abisso. Ma non tocca a me dirle queste cose, insomma. Della Resistenza rimangono le conseguenze dirette, che se noi possiamo trovarci tutte le volte in una sala o in un convegno o in una piazza a criticarci e a confrontarci, lo dobbiamo alla Resistenza, senza dubbio. E se il Paese ha fatto dei passi giganteschi, se c’è ancora un movimento sindacale, è grazie a essa.
La nostra crisi oggi non è “Resistenza sì, Resistenza no”, è crisi culturale. Non siamo capaci di renderci conto dei problemi, di come ha camminato il mondo, con l’energia nucleare, l’atomica… in quarant’anni è successo molto di più di quello che è successo in quattrocento anni prima. Per me è molto più vasto il problema. Ma la Resistenza è ancora attuale se si vuole riprendere la misura dell’uomo. Perché, se in questi anni si sono fatti passi giganteschi sul piano delle condizioni generali di vita, sul piano del modo di rapportarsi degli uomini tra loro non si è fatto un passo, si è andati indietro. Mentre allora c’era stata una testimonianza di solidarietà enorme.
Quanto a me, se conoscenza dei propri limiti è felicità… una volta dicevo felicità, oggi dico serenità. Sì, serenità è conoscenza dei propri limiti fino ad amarli, ne sono sempre più convinto.

Luchino Dal Verme
(da Genti, formicona editrice, 1983)

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