Nel nome di Vitruvio

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Un «giuramento di Ippocrate» anche per gli architetti
di Giovanni Giovannetti

Leonardo da Vinci aveva intuìto l’importanza dell’acqua quale fonte di energia ben prima dell’introduzione della macchina a vapore nella civiltà industriale; ma anche la sua ambivalenza devastatrice. Era infatti ossessionato dalle alluvioni, specie dopo la catastrofica inondazione della piana d’Arno cui lui stesso, quattordicenne, aveva assistito, tanto da indurlo a ritenere che i cataclismi «fossero una conseguenza della perfidia umana» (Carlo Pedretti).
Nel 1484 una delle ricorrenti pestilenze colpì duramente Pavia, Como e Lodi, per raggiungere l’anno dopo Milano dove infierì, provocando 50.000 morti. Leonardo ne fu testimone, si rese cioè conto di quanta «semenza» alla probabilità di contagio recassero le precarie condizioni igieniche e, avveniristicamente, propose lo sventramento della malsana e miasmatica città medievale e la sua riprogettazione decentrata in quartieri di circa trentamila abitanti: così facendo «disgregherai tanta congregazione di popolo, che a similitudine di capre l’un addosso all’altro stanno, e empiendo ogni parte di fetore, si fanno semenza di pestilente morte», scrive Leonardo nel Codice Atlantico (184 verso).
Rimodulando Vitruvio e i più vicini nel tempo Trattato di architettura di Antonio di Pietro Averlino detto il Filarete (1464) e il De re aedificatoria di Leon Battista Alberti (il primo moderno trattato di teoria dell’architettura, pubblicato postumo nel 1485), abbozzò allora un geometrico e funzionale “organismo urbano” su due livelli collegati da scale, quello superiore per i pedoni – con belle case giardini e terrazze – e inferiore per botteghe, magazzini, corsi d’acqua e strade (periodicamente lavate) per il trasporto delle persone e delle merci, nonché canali sotterranei per le acque di scarico delle «cose fetide», a garanzia dell’igiene e della salute pubblica. Un principio mutuato dal sistema vascolare umano; edifici intervallati da spazi liberi, un luogo tranquillo bello e razionale, luminoso e rispettoso della persona umana.
«Oltre alla pianificazione elementare funzionale del territorio, che trova i suo accenti più originali nell’inserimento delle componenti idrico-fluviali nell’area cittadina» ha scritto Gianni Carlo Sciolla «interessa a Leonardo l’organizzazione razionale delle varie componenti (che ha il suo punto più alto nella ricerca dei livelli multipli) e dei loro risvolti sociali». Insomma, quella visione globale concreta e funzionale, politica e non solo estetica o utopica, che fa di Leonardo «il primo urbanista moderno, anticipatore di soluzioni che solo più tardi verranno faticosamente avviate» (Firpo).
«Solo chi padroneggia sia la pratica che la teoria è dotato di tutte le armi necessarie e può conseguire pieno successo», avvertiva Vitruvio al libro primo del De architectura; e tra le virtù intellettuali necessarie al buon architetto più di duemila anni fa l’amato latino elencava «la cultura letteraria, essere esperto nel disegno, preparato in geometria e ricco di cognizioni storiche; deve avere nozioni di filosofia e di musica, saper qualcosa di medicina e di diritto, ma anche di astronomia, astrologia, ottica» poiché «tutti i campi del sapere sono fra loro connessi».
Sembra il ritratto di Leonardo: nel suo sguardo, ha scritto Eugenio Garin, «uomo e natura, ragione umana e legge naturale, si integrano reciprocamente» in progetti concepiti «secondo ragione a misura umana». Non stupisca allora quel paragone tra i «medici, tutori, curatori de li ammalati» e il «medico architetto» al capezzale del «malato domo» di Milano, nella lettera di presentazione al concorso per il tiburio: «Signori padri diputati, sì come ai medici, tutori, curatori de li ammalati bisogna intendere che cosa è omo, che cosa è vita, che cosa è sanità e in che modo una parità, una concordanza d’elementi la mantiene e così una discordanza di quelli la ruina e disfà […] Questo medesimo bisogna al malato domo, cioè uno medico architetto, che ‘ntenda bene che cosa è edilizio e da che regole il retto edificare diriva e donde dette regole sono tratte e ‘n quante parte sieno divise e quante sieno le cagione che tengano un edifizio insieme e che lo fanno permanente, e che natura sia quella del peso, e quale sia il disiderio de la forza e in che modo si debbono contessere e collegare insieme e, congiunte, che effetto partorisc[h]ino. Chi di queste sopra dette cose arà vera cognizione, vi lascerà di sua rason e opera soddisfatto» (Codice Atlantico, 730 recto).
Corpo umano e corpo urbano: quanto Vitruvio e umanesimo s’imporrebbe che masticassero gli urbanisti odierni, traendo da queste fonti «il perfetto equivalente del giuramento di Ippocrate» per i medici, ammonisce Salvatore Settis nel suo recente Se Venezia muore (Einaudi 2014). Un “giuramento di Vitruvio”, a cui attenersi, avrebbe forse potuto arginare lo scempio attuale.

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