di Bruno Ziglioli
Pubblichiamo il testo dell’orazione del 25 aprile tenuta dallo storico Bruno Ziglioli in Piazza Italia a Pavia per il 64° anniversario della Liberazione nazionale. È uno dei più belli e sentiti degli ultimi anni.
Signor commissario straordinario, autorità civili, militari e religiose, cittadine e cittadini, il 25 aprile simboleggia il successo della Resistenza nella lotta contro il nazismo e il fascismo, e l’inizio del cammino – il momento fondante – della nuova Italia democratica. Quel giorno, 64 anni fa, terminava per gli italiani una guerra orribile, crudele, che per tanti fu un autentico abisso di dolore e di disperazione. La fine di quella guerra significò la sconfitta di un aberrante progetto di dominazione, coltivato da Hitler e dal nazismo. E di quel progetto il fascismo italiano era stato partecipe e complice, soprattutto nella sua stagione più violenta, cioè quella della Repubblica sociale italiana.
Uno degli scopi di queste celebrazioni è, naturalmente e doverosamente, quello di ricordare e di rendere omaggio ai caduti della Resistenza. E voglio riferirmi alla Resistenza in tutte le sue possibili declinazioni. Ci fu la Resistenza attiva di chi prese le armi in pugno, e si unì alle formazioni partigiane. Ci fu la Resistenza degli operai, che, tra la fine del ‘43 e i primi mesi del ’44, entrarono più volte in sciopero, partecipando così al più grande movimento di scioperi dell’Europa occupata dai nazisti. Ci fu la Resistenza civile, silenziosa, della popolazione, di quei cittadini che aiutarono, soccorsero, i feriti, i fuggiaschi, i combattenti, esponendosi a rischi elevati, quando – come minacciava un bando della Repubblica sociale – poteva bastare un bicchiere d’acqua offerto a un partigiano per essere passati per le armi. Ci fu la Resistenza di quei militari che rifiutarono l’arruolamento nell’esercito di Salò, e preferirono rimanere a soffrire nei campi di lavoro in Germania. Infine, ci fu la tragedia dei “sommersi” (per citare Primo Levi) di tutta Europa nei campi di sterminio: i triangoli gialli degli ebrei; i triangoli marroni degli zingari; quelli rossi degli oppositori politici; quelli rosa degli omosessuali; e quelli di tutte le altre minoranze etniche, politiche e religiose perseguitate nell’Europa occupata.
Queste donne e questi uomini ci hanno consegnato un’Italia migliore, più libera e più giusta di quella in cui loro si erano trovati a vivere e – con la loro scelta e con il loro sacrificio – hanno restituito dignità a tutto il popolo italiano.
Ma lo scopo di queste celebrazioni, oltre al ringraziamento e all’omaggio ai caduti e ai patrioti, è anche quello di fare il punto, di prendere la temperatura dello stato dei sentimenti e degli ideali democratici nel nostro paese, tenendo alta l’attenzione anche verso i fenomeni del nostro tempo.
Spesso, oggi, nel discorso pubblico, in televisione, sui giornali, su alcuni libri, il valore di quella scelta, di quel coraggio, di quello spirito di sacrificio, viene messo in discussione. Secondo alcuni, occorrerebbe ridimensionare, o quantomeno relativizzare, la portata storica della Resistenza italiana. Si ascolta poi spesso un richiamo insistente alla necessità di creare una “memoria condivisa”, richiamo che a volte sembra invece nascondere in realtà l’invito a una “smemoratezza patteggiata”, a un azzeramento delle identità.
Il procedimento che a volte si vede all’opera, a fasi alterne, è semplice. Da un lato si propone una “defascistizzazione” del fascismo, del quale viene data una rappresentazione bonaria, efficientista, tutto sommato tenera con gli oppositori – soprattutto a confronto del mostro nazista – e nascondendone, nel contempo, la vera natura di regime totalitario, realizzato nella sua quasi interezza ben prima dell’avvento al potere di Hitler. E questo messaggio di minimizzazione del fascismo sembra essere penetrato piuttosto a fondo, a giudicare dalla diffusa indifferenza con la quale – per esempio – si espongono e si vendono, agli autogrill, sulle bancarelle, su internet, oggetti, calendari, magliette che inneggiano a Mussolini e al fascismo, cioè a un uomo e a un regime che hanno portato l’Italia alla guerra, alla miseria, alla distruzione.
Dall’altro lato – è l’altra parte del procedimento – i venti mesi di guerra di Liberazione vengono descritti come una barbarie collettiva, in cui non sarebbe esistita una parte giusta e una sbagliata, un torto e una ragione: tutti avrebbero avuto torto, perché tutti avrebbero commesso in ugual modo brutalità e uccisioni. Tutti sarebbero da biasimare, i partigiani come i repubblichini, perché entrambi avrebbero violato l’imperativo morale di non uccidere.
Questi tentativi di sminuire, o di relativizzare, il movimento partigiano non tengono conto dei veri imperativi morali che sono stati alla base della scelta di tante donne e di tanti uomini della Resistenza, e che li distinguono nettamente da chi scelse Salò.
Le donne e gli uomini schierati dalla parte della Repubblica Sociale hanno combattuto, in buona o cattiva fede, per una causa sbagliata: per un’Italia asservita al nazismo, e per un disegno di sopraffazione, fatto di brutalità, di violenza, e di razzismo.
Le donne e gli uomini della Resistenza, invece, hanno combattuto per una Patria indipendente e libera; per un sistema di diritti inviolabili e riconosciuti, per la democrazia, per la giustizia, per la pace.
Coloro che vogliono sminuire o relativizzare la Resistenza descrivono i suoi valori come un mito in buona parte fasullo, che nascondeva divisioni profonde e anche tentazioni totalitarie. Certo, il ruolo di noi storici è quello di studiare la storia, nella fattispecie quella della Resistenza italiana, senza tacere nulla, smitizzando quello che c’è da smitizzare ma – come ha ricordato recentemente il presidente Napolitano – «tenendo fermo un limite invalicabile rispetto a qualsiasi forma di denigrazione o svalutazione di quel moto di riscossa e di riscatto nazionale cui dobbiamo la riconquista anche per forza nostra dell’indipendenza, dignità e libertà della Nazione italiana».
Lo stesso Renzo De Felice, uno storico che è stato al centro di grandi polemiche tra revisionismo e antirevisionismo, ha scritto nel 1995: «La Resistenza è stata un grande evento storico. Nessun ‘revisionismo’ riuscirà mai a negarlo».
La Resistenza è stata sicuramente un fenomeno complesso, diversificato, anche sul piano politico. Molte donne e molti uomini hanno scelto la Resistenza riflettendo le loro rispettive convinzioni politiche: cattolici, socialisti, comunisti, azionisti, liberali. Furono queste le componenti più attive nei Comitati di Liberazione, e nelle stesse formazioni combattenti.
Il Comitato di Liberazione Nazionale è stato un esperimento segnato da lotte interne, ma dominato (e accomunato) dalla prefigurazione di un’Italia diversa, fondata sui valori della tolleranza, della solidarietà, e di quell’uguaglianza dei diritti che era stata violata e cancellata dalla dittatura fascista.
Come sarebbe stato altrimenti possibile procedere alla stesura della Costituzione repubblicana, il prodotto più alto dei valori del movimento resistenziale? Come è stato possibile che forze certamente tanto diverse, nella visione del mondo e della politica, siano riuscite a raggiungere un accordo di quel livello, di quella maturità, di quella semplicità
?
La Costituzione repubblicana fu il frutto di un compromesso alto ed equilibrato, tra valori e ideologie forti che creavano contrapposizioni forti, e che richiedevano mediazioni a loro volta alte ed equilibrate. In questo modo è stato possibile creare un corpo condiviso di valori e di principi, sui quali fondare un nuovo sentimento di appartenenza degli italiani, dopo il disastro civile, economico ed etico del fascismo e della guerra.
Oggi, in presenza di contrapposizioni forti generate da valori e ideologie deboli, quel compromesso si dimostra anche efficiente, continuando a garantire l’equilibrio tra i poteri dello Stato e il corretto svolgimento della vita democratica.
Qualcuno si spinge a considerare la nostra Costituzione come un ostacolo per la modernizzazione del Paese. Invece, il vero problema, oggi – a più di sessant’anni dall’entrata in vigore della Carta costituzionale – è quello di attualizzare quei valori e quei principi, di riuscire a trasfonderli nella pratica civile e politica della società di oggi, con la sua complessità. Non si tratta cioè di onorare un monumento al passato, da consegnare ai posteri come simbolo di avvenimenti lontani. No: io sono convinto che la risposta alle sfide che la nuova società si trova oggi ad affrontare, a partire per esempio dall’immigrazione, dall’integrazione e da tutti grandi i problemi che ne derivano, non possa che essere trovata a partire da quei principi e da quei valori.
Per esempio dall’articolo 3: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Credo che dobbiamo rileggerla tutti con grande attenzione, ogni tanto, la nostra Costituzione.
È necessario però che i cittadini – dal canto loro – partecipino alla vita politica e civile del paese, con rinnovata passione. La partecipazione è stato un elemento fondamentale di quegli anni di fuoco, e di quelli che immediatamente seguirono. È stata alla base della rinascita morale del nostro paese. Oggi, con lo sfarinamento dei legami collettivi, questo tipo di impegno, al di là del semplice esercizio del diritto di voto, perde di attrattiva, e prevalgono la rassegnazione, il cinismo, il qualunquismo e l’apatia.
Eppure la politica resta uno straordinario e indispensabile strumento di cambiamento e di sviluppo civile: per questo il nostro presidente della Repubblica mette spesso l’accento sull’importanza dell’impegno e della partecipazione di tutti i cittadini alla vita politica del paese.
Quella che l’ex cancelliere tedesco Kohl ha definito «la grazia della nascita tardiva», comporta al tempo stesso un privilegio e un rischio. Il privilegio è quello di poter godere giustamente della libertà, in un sistema certo di diritti e di doveri, senza dover mettere quotidianamente a repentaglio la propria esistenza e la propria incolumità per conquistarlo, e senza avvertire eccessivamente il peso di un passato sanguinario.
Il rischio, però, è quello di considerare quella libertà come un dato naturale, acquisito per sempre, immutabile, che non comporta un’attenzione e una cura costanti. Questa attenzione e questa cura tutti noi dobbiamo praticarla quotidianamente, e dobbiamo impegnarci a trasmetterla alle giovani generazioni, e alle generazioni future, per formare cittadini, non automi, o consumatori passivi, ma individui liberi, come furono le donne e gli uomini della Resistenza.
Pavia 25 aprile 2009