Archive for the ‘armando barone’ Category

Io non ho capito

22 aprile 2013

di Armando Barone*

Allora io no, non capisco più. E mi passa anche la voglia di scherzare.
Io non ho capito quale cazzo di ragione avrebbe avuto il Pd a non eleggere Stefano Rodotà.
L’unico uomo che abbia mai visto contento di fare il Presidente della Repubblica. Non: onorato. Contento.
Non ho niente contro Giorgio Napolitano, se non che un uomo di quasi 90 anni avrebbe tutto il diritto di riposarsi, dopo un settennato politicamente orrendo, a cui a volte ha contribuito rifugiandosi nel Ruolo Istituzionale, facendo nascere il sospetto che fosse un alibi.
Non ho capito perché Bersani, dopo tutto il casino che ha fatto per fare del Pd un partito che non si allea con Berlusconi, abbia fatto il patto per l’elezione del Presidente. Non capisco, se di strategia si doveva parlare, perché la strategia del Pd sia cambiata. Io non ho votato per il Pdl. Non li toccherei neanche con un bastone. Forse neanche Bersani. Capisco quindi perché si sia dimesso. Evidentemente non comanda il Segretario, nel Pd.
Che poi il messaggio delle elezioni era: il M5S risulta il partito vincente, si è preso i voti che doveva prendere il Pd, quindi le posizioni del M5S sono in parte quelle della base Pd. Spostiamo un po’ l’asse su una politica più cittadina, militante, meno palazzinara. Facciamo la tara alle puttanate che sparano loro sull’euro, e dritti alla meta. Non hanno voluto fare il governo con Bersani? Va bene, che se ne assumano la responsabilità. Ora eleggiamo un presidente che incarichi qualcuno che faccia quelle riforme, quelle stesse su cui si trovano sia Pd sia M5S: governo a tempo, poi vediamo se gli elettori pensano ancora sia meglio tenersi la Lombardi.
A me pareva semplice, il messaggio. L’ha capito anche Vendola.
Non capisco, dopo elezioni come queste, come si faccia a pensare a Giuliano Amato che orchestra un governo con il Pdl. Giuliano Amato. Così il Pd continua a dare ragioni a Grillo di dire quello che dice. E perde, oltre la base, anche i dirigenti.
Che poi di Grillo, guarda, te lo dico io, non bisognava avere paura.
Io che non capisco, e adesso non ne ho veramente più voglia, di capire, ti dico che non bisogna nemmeno avere paura di Renzi, dai. O di Berlusconi.
Il Pd deve avere paura di se stesso.
Perché se non sei abbastanza intelligente per riconoscere che il sentimento di chi ti vota ora ti fugge, vuol dire che hai fallito. Che devi davvero “andartene a casa”. Ora, finché ce l’hai.

* da Zesitian

Alle elezioni del presente manca il futuro

12 novembre 2012

Renzi, Grillo, Cattaneo: un voto “contro” che di nuovo ha davvero troppo poco. Eppure sta tornando la voglia di fare politica con coraggio.

di Armando Barone

Ci sono voti “pro” e voti “contro”: siamo in un’epoca in cui i voti sono “contro”, emotivi e istintivi, proprio quando servirebbe il ritorno della politica ragionata, pensosa, immaginata. L’assetto politico attuale sta per essere travolto: il nuovismo di Renzi, l’ignoto di Grillo, il giovanilismo un po’ stantio di Cattaneo sono tutti fattori di cambiamento. Poi c’è anche lo spettro degli epigoni di Monti. E senza una nuova e più giusta legge elettorale, rischia di essere tutto inutile. Eppure sotto traccia c’è chi lavora per preparare davvero la svolta.

Ci sono i voti “pro” e i voti “contro”. I primi sono solitamente propositivi, ragionati e discussi sulla base dei contenuti, per il progresso e magari anche per il bene di tutti. I secondi sono voti per reazione contro qualcosa, contro qualcuno o contro tutti, spesso elaborati a partire da un corto circuito emozionale: reagisco emotivamente a qualcosa, quindi in quel momento le mie priorità sono ribaltate e rimescolate a favore del mio stato d’animo: vedo poco quel che mi circonda, molto la questione che adesso mi sta più a cuore. (more…)

Donne (ma niente dududu)

31 ottobre 2009
Non è la tv che fa schifo, è la realtà
di Armando Barone

Cominciamo col dire che non è e non può essere tutta colpa della televisione. Se un nuovo immaginario, becero e maschilizzato fino al disgusto, induce il sospetto che le donne, dopo tutto, possano essere considerate merce, e anzi a questo si accompagna una sorta di sommessa esultanza, una rivalsa alle lezioni di civiltà scambiate per buonismo d’accatto, non è solo un problema di qualità dello spettacolo, e nemmeno di libertà d’informazione. Non di solo corpo e carne di velina, né di bellezza a fascicoli, si tratta: qui il problema è sociale e politico, persino intellettuale. Si parla di due (solo due?) culture, anzi subculture in guerra, due immaturi modelli di relazione ai temi della pari dignità, della discriminazione di genere o per orientamento sessuale, infine al sesso. Ai tempi del berlusconismo e della democrazia videocratica, del pensiero unico populista e del mercato delle emozioni, dell’oligopolio del consenso elettorale, non è la tv che fa schifo, è la realtà.

La gnocca alla lotta di classe

Premesso che un uomo, prima di parlar di donne, dovrebbe sciacquarsi le idee e guardarsi bene attorno, premesso che dico questo non per lisciare l’eventuale lettrice che inciampi in questo blog ma perché conosco il sentimento d’esser uomo e ne temo la tendenza a vedere tutto secondo come natura e non come ragione l’ha fatto, osservo ciò che accade e scrivo. Ciò che accade sono fatti e misfatti culturali: tanto per cominciare, la moderna corruzione post tangentopoli, quella a base di gnocca e coca.
Qui parleremo solo della prima, of course – e a questo punto possiamo anche soprassedere al dubbio se sia stata goduta o meno, da Berlusconi o da altri, a Palazzo Grazioli o altrove, in cambio di denaro. Perché quello che interessa qui è lo scambio. Questo tipo di scambio, che baratta immagine per immagine, in un contesto in cui l’immagine è potere.
Parafrasando ciò che scrisse Ida Dominijanni su Il Manifesto in un’intervista alla D’Addario, quello che è angosciante in questi fatterelli da malaffare che sfiorano il misfatto di Stato è rendersi improvvisamente conto di un substrato non solo numericamente rilevante di donne che conoscono – costrette, riluttanti, incoscienti o spregiudicate che siano – la via del vendersi o del farsi vendere in cambio di una posizione sociale diversa. E fin qui non ci sarebbe niente di nuovo: è cosa antica quanto il mondo, dicono le sagge e i saggi, il sesso per il potere, che porta denaro e così altro potere.
Eppure un fattore nuovo c’è, e sta proprio nella nostra modificata (e snaturata) struttura sociale, sempre più costruita non su base censuaria o per casta professionale, non sull’avere o sul prestigio, ma sulla visibilità, e si dica pure visibilità televisiva.
In alto i divi dello schermo, in mezzo i visitati dalla notorietà, più in basso gli aspiranti qualcuno, in ultimo lo spettatore spaesato. Tra i divi dello schermo ci metto i politici quanto i pallonari, tanto per dire che le ragioni di censo del vecchio schema, spesso, corrispondono. A scendere, le cose si fanno più sfumate: la borghesia disgregata lascia emergere i professionisti e i consulenti che hanno agganci nell’elite superiore, e per questo spesso consacrati deputati o sindaci; la massa precaria, fondata su nuove e vecchie povertà, che non trova sbocchi se non i reality di paese o del Paese, o la puntata giornaliera al Win for Life dei Monopoli di Stato. Il censo si è legato a filo doppio all’immagine televisiva e patinata, e il connubio è mortifero, sotto il profilo culturale prima ancora che sociale.

Sul lettone di Putin

È in questo quadro di passaggi di classe video che entrano – per tacer delle ministre o delle daddarie in lista – le aspiranti visitatrici dei tanti lettoni di Putin al centro di stanze e stanzette del potere. Nell’era che premia brandelli di fama o almeno la tenacia di conquistarla a ogni costo, nell’epoca in cui si lasciano deserte le Camere per far politica sul canale compiacente e si legifera in villa, alla prostituzione del sorriso o dell’intero corpo si affianca così la prostituzione di un intero immaginario. Si vende la propria educazione al lavoro che assegna un ruolo, all’istruzione che abilita al lavoro e all’emancipazione femminile, per un posto più alto nell’immaginario comune. E, fenomeno nel fenomeno, non si vende neanche la gnocca, o non sempre per lo meno, ma il suo simulacro: io, donna che coltiva faticosamente la propria avvenenza, ti concedo potere con la mia sola vicinanza; io, uomo maschio divenuto dominante grazie alla vincinanza della gnocca, variabile nel numero e nella qualità ma costante nel tempo, in cambio ti elevo al mio rango.
Siamo al “Chiù pilu per tutti” e a Cetto La Qualunque: Antonio Albanese è un genio e lo sapevamo già; ora però è chiaro che la satira e il grottesco sono stati abbondantemente superati dalla realtà.

Il maschio dominante depilato

Accennavo prima allo scontro tra due culture, o subculture, nel rapporto tra i sessi. Ebbene, più che uno scontro, sembrerebbe una cannibalizzazione nel tempo. C’era una volta la donna forte ed emancipata in sempiterna lotta per la pari dignità e c’era l’uomo in sempiterna crisi alla prese con la sua ristrettezza di vedute. Per lo meno, ce l’hanno raccontata così. E fino a quel momento c’era speranza che, rese edotte e consapevoli dei rispettivi problemi, le due metà del cielo si potessero ricomporre intorno a un’unica crescita culturale, alle dinamiche sociali che intendevano far progredire il Paese. Coppie di fatto, lotta alla discriminazione di genere o di orientamento sessuale, politica del lavoro fondata sulla flessibilità del tempo (e non: politica della flessibilità del lavoro nel tempo) sono solo alcuni dei punti in agenda.
Poi è successo qualcosa. Qualcosa che deve avere avuto a che fare con la Carfagna ministro, la lettera della Lario a Repubblica, la D’Addario e i bagni di Palazzo Grazioli, financo con gli insulti a Rosy Bindi. E poi con il progressivo sdoganamento delle destre estreme, i muscoli filofascisti della Polizia alla Diaz, la retorica dei tabù neo-militaristi dall’omicido Quattrocchi in poi, la politica dei respingimenti e la voce alta sul bus nel dire che l’immigrato puzza. La merda gettata su Ilaria Alpi, su Giuliana Sgrena, su Aldrovandi, su Giuliani. La gara dell’orrore tra Guantanamo ad Abu Ghraib e le catene di comando del “Tutto giustifica tutto”. I picchiatori degli omosessuali in cronaca nella Roma di Alemanno, gli sgomberi al manganello di De Corato a Milano. L’arretramento del linguaggio della Chiesa su fecondazione assistita, aborto ed eutanasia. L’ignobile e inqualificabile attacco alla dignità della famiglia Englaro.
Come vedete, vado in ordine sparso, per flash: riempitevi anche voi la memoria. Ci dev’essere un filo. È emerso un marciume che mescola calcolo politico e becera campagna elettorale, informazione omologata, strumentale e sintonica al potere, in una morchia confusa e indistinta che puzza di maschio andato a male. È aggressività ignorante, cavernicola, quella del maschio che non solo sostiene e sbandiera orgoglioso il principio secondo cui un bel paio di cosce assicurino il migliore avvenire, che i froci siano devianza di natura, che i muscoli depilati e un’arma lucida siano compagni migliori non si dica di un libro ma almeno del telefonino, ma anche si sente autorizzato a tradurre in pratica il manuale del destroide troglodita.
Del resto, se lo mostrano tutti i giorni in tv, allora forse si può. Prima c’era l’ipocrisia del politically correct. Ora che il politically uncorrect s’è fatto largo e imposto a larghe falcate, si punta a sdoganare le pulsioni della pancia. Per non dire del sottopancia.

Le elezioni con il televoter

Con questo non intendo dire che la colpa stia tutta a destra. Non esiste una destra così, neanche quella di Berlusconi è così. E nemmeno la destra populista di Berlusconi è così potente da entrarci nel cervello come lama nel burro. Tuttavia, come dicevo un poco più sopra, il problema è politico: il marciume fin qui –certo insufficientemente- raccontato è anche il prodotto dell’ondata di restaurazione revanchista che la destra ha portato avanti costantemente: i comunisti, e tutti i loro amici, sono nemici. Per comunisti si intendono i progressisti tutti, quindi chi sostiene cosette come pace, amore, pari diritti, laicità di pensiero e libertà di orientamento sessuale sono potenziali bersagli. In marketing si chiama induzione del bisogno: vuoi qualcuno che ti levi di dosso il pensiero? Guarda, io l’ho fatto, e sono un uomo di successo.
Per muover guerra elettorale a questi molli buonisti, non s’è trovato niente di meglio che buttarla sulla gnocca, sul fucile, sul fatto che se i deboli son deboli un motivo ci sarà. Pensiamo come pensa, sotto sotto, l’italiano ignorante. Facciamo leva sui suoi istinti, sul fatto che ne ha abbastanza del faticoso distinguo di Veltroni, di Amato, dei costituzionalisti. Siamo in tempi di arabi che buttano aerei sui buoni e sani Americani del Piano Marshall, che diamine.
Tutto questo non sarebbe riuscito senza la complicità del vuoto d’opposizione. Ah, la tentazione a sinistra di agganciare il modello di successo: meno pasionarie alla Rosy Bindi e più bellezza inutile alla Melandri. Ma ve lo ricordate che volevano far deputato la Parietti perché “Oltre che bella, è intelligente”? Vedi, darling, a rappresentare il tuo stipendio ci mando già un gran bel paio di gambe; se poi pensa pure, vedrai che roba. Doppio ah, che bello riciclarsi a moderni frantumando l’architrave della coscienza di classe in nome di un liberismo da banca immagine chiamato ‘riformismo’ e alleandosi con una classe imprenditoriale cialtrona. Triplo ah, fantastico, mettiamoli a morte politica anche noi, i comunisti, che ci hanno rampognato mezzo secolo con la questione morale!
Eppure neanche questo basterebbe a spiegare l’enormità e pervasività del fenomeno.
Negli ultimi vent’anni è successo che i linguaggi della politica e della televisione si sono sovrapposti al punto di essere indistinguibili: la televisione si è allontanata ancora di più dalla realtà dei fatti per ossequio alla politica, e la politica si è allontanata talmente tanto dalla realtà da identificarsi con la televisione. Tanto che Rifondazione e sinistre atomizzate sono scomparse, più che dal Parlamento, dall’immaginario, perché non sono più in video, non sono più protette dal rassicurante cachemire di Bertinotti.

Nessuno si senta immune

Non che partissimo da un modello culturale consolidato. Il disimpegno, la fuga dalla politica, il riflusso già negli Ottanta avevano impedito a questo Paese culturalmente fragile e arretrato di superare la sua tardoadolescenza sociale e politica. Tuttavia, le conquiste fondamentali dell’emancipazione non si sono mica dissolte. Sono sempre lì, pur minate e attaccate, resistono. Congelate in attesa che qualcuno si ricordi che, uomini o donne, di persone e di uguali sempre si tratta.
Non sono cambiate le risposte, ma le domande. Le domande da porre all’universo femminile non sono più: come può una donna vendere la propria compagnia come lavoro in cambio di un esercizio di potere; come può una donna (ragazzina) intendere il suo sputtanamento globale come l’opportunità di realizzare il sogno di velina, di fare il colpo grosso. Di donne fatte come son fatte non c’è da stupirsi, e non c’è da sottendere giudizio.
Piuttosto: come fa una donna a votare questa destra? Ammirare la gentaglia che gioca col suo corpo o del suo corpo fa un campo di battaglia elettorale? Questa Chiesa? Poi: come fa una donna a non incazzarsi a morte con questa sinistra immatura e ripiegata su se stessa, sulla scoperta del potere?
Se escludiamo le sacche di resistenza di cui parla Asor Rosa, capaci ancora di produrre pensieri e modelli non balbettanti, il pensiero omologato a reti unificate ha abbassato progressivamente le difese di tutti noi, sconosciuti e silenti spettatori, anzi telespettatori, abbandonati dagli intellettuali di sinistra e di destra senza una chiave di comprensione del reale. O meglio, senza che altre chiavi di comprensione del reale s’impongano alla nostra attenzione e si radichino a tal punto da funzionare come antidoto al veleno machista.
Ed ecco il punto: per contrappeso e contrasto all’affermarsi di un nuovo patentino a offendere e umiliare, oltre le minoranze a bersaglio, anche il sesso presunto debole, ci sono rimasti antidoti spuntati e anticorpi sfiancati. Rendiamoci conto che il livello del dibattito corrente intorno al ruolo femminile nella società, alla disparità e alla discriminazione, alla violenza psicologica e fisica e sessuale, alla prostituzione, all’omofobia, alla laicità della scuola e nella sanità, è fermo su binari del tipo: quote rosa in ogni quartiere, sono gli arabi che picchiano le donne, burka sì burka no, le donne sul lavoro va bene ma come la mettiamo coi figli, via le prostitute dalla strada, ma guarda che io ho molti amici omosessuali, crocifisso a scuola sì o no, l’aborto sì ma riparliamone (e per il riparliamone il debito è con un altro genio, Paola Cortellesi). Agghiacciante. È come mettere all’ordine del giorno in Parlamento il sommario di un tg Mediaset.

Abbasso le quote rosa

Tanto per fare un esempio, le quote rosa: terrificante sintomo di malattia scambiato per rimedio per la buona salute in politica. D’accordo, la pari dignità stabilita per Costituzione non bastava, però il pari numero per legge o per gentleman agreement non ha niente di etico: è lavarsi la coscienza. A pensarci bene, le quote rosa sono lo speculare di un’altra, fenomenale (nel senso di prodotto di un fenomeno) cazzata: la par condicio. In un Paese libero, la par condicio si raggiunge attraverso le comuni dinamiche del conflitto politico e di opinione, non col pari numero certificato a posteriori.
Soluzioni a quanto il sesso politico richiede – intendendo con questo il complesso di temi che vanno dalle pari opportunità nel lavoro, alle leggi sulla violenza a sfondo sessuale, all’aggravante di discriminazione per orientamento sessuale che recentemente ha messo alle corde il PD – verranno invece da una politica familiare (non: familista come quella dell’Udc o elettorale come quella del Pdl) che sostenga la maternità, costruisca asili nido, accresca le possibilità di sostegno al reddito, riconosca le famiglie di fatto e ricomponga le famiglie dei migranti, sperimenti nuove forme di assistenza alle vittime di violenze o soprusi. In una definizione, che si identifichi con la società.
Mi piacerebbe che non ci fossero dubbi su questo. Se il maschio continua a occuparsi poco dei figli, è materia per i sociologi; se la donna nel 2010 non riesce a trovare o a mantenere il posto di lavoro perché le si impone la scelta tra tempo familiare e tempo professionale, se viene pagata meno di un uomo a parità di livello, la materia è per legislatori.
Se una politica seria, di alternativa, potesse proporre questo, sarebbe già qualcosa. Poi toccherebbe alla televisione, far la sua parte. E qui il discorso ridiventa politico. Le frequenze, il mercato pubblicitario, il conflitto di interessi. Alle solite.

Monnezza è mezza bellezza

Non è solo televisione spazzatura. Non è solo questione di bellezza-merce: non sono così ingenuo da pensare che la bellezza (naturale o patinata o siliconata, triste o allegra o bronciodipendente) debba scomparire dalle copertine o dalle pubblicità o dagli ancheggianti e poco vestiti corpi da corpo di ballo. Che la bellezza del corpo umano, e quindi per ovvi motivi del corpo femminile, serva per vendere, è un fatto e non vedo perché dovrebbe equivalere al servaggio. Tuttavia, la soglia del cinismo dovrebbe arrestarsi qui: la mercificazione del nudo, dell’identità e del sentimento ha una profonda influenza sul nostro immaginario.
Inciso: se per pubblicizzare un cosmetico posso mostrare un corpo nudo e così alludere alla seduzione, siamo nel campo della semantica e della promessa marketing – se ne può discutere, insomma. Se ogni quattro minuti del palinsesto ho uno stacchetto dimenaculo, ogni tre pagine labbrone tumide, una copertina su due apre con la gnocca, beh, abbiamo un problema. Non tutto può essere seducente. Ed essere educati a pane e sesso patinato, prima o poi, genererà pure qualche problema con la realtà. Fine dell’inciso.
Diamo troppo spesso per acquisito, se non per scontato, che la televisione sia un solo un mezzo, il più potente in Italia, ma pur sempre un medium. Non è proprio così.
Prima di tutto, se è ancora un medium, qualcuno deve avere libertà responsabilità diretta di forma e contenuti, e dare vita alla cosiddetta linea editoriale. Ed è fin troppo palese che in Rai (ma anche in Mediaset) questa libertà sia relativa: la televisione è oggi un mezzo eterodiretto, in cui l’editore non è mai completamente libero. E non tanto e non solo per la pressione telefonica del potere, come avveniva anche in passato, quando l’iperlottizzazione era una prassi egualmente deprecabile – anche se, va detto, più discreta. Quanto per la castrazione intellettuale a cui volontariamente si sottopongono editori, direttori di testata, direttori artistici e così via. E dico castrazione perché a volte non è nemmeno censura o autocensura preventiva: chi ha la responsabilità dei palinsesti e dei contenuti, dal più alto livello dirigenziale all’autore in stage non pagato, è immerso come noi nella morchia generalizzata. Che se ne renda conto o meno. E se il clima aziendale peggiora, si salvi quel che si può. Si innesca, insomma, un circolo vizioso per cui chi non è in grado o non vuole ribellarsi alla monnezza contribuisce alla crescita della monnezza, che viene venduta per bellezza.
Col risultato che anche il pubblico più avvertito trova un’offerta poco diversificata – e di qualità ad altezza gnocca.

Il fine giustiifica il medium

Tuttavia, qui il dubbio è che la tv non sia neanche più un medium, un mezzo, ma un fine. L’impressione è quella che non ci si appelli neanche più, alibi passepartout, al dio mercato. Arrivarci, esserci, porsi in vetrina, dai politici dimenafogli alle letterine dimenaculo, significa giocare nel giro grosso. Non è più apparire, ma un essere. La realtà televisiva diventa, per prodigio dell’oligopolio Rai/Mediaset e dell’offerta omologata, realtà condivisa dalla coscienza collettiva. Non l’unica, certo, ma comunque egemone. E se la morchia maschiocentrica passa come realtà egemone, in pari dosi attraverso la cronaca e attraverso lo spettacolo, bene si può capire come faccia ad avere tanta forza di penetrazione.
La realtà e la tv sono oggi vasi comunicanti di un liquido venefico. E contro quel liquido vi è poco o nulla a fare argine. Che fare? Ribellarsi, certo, ribellarsi.
La tv è un mondo irriformabile nell’era di Berlusconi, e così la politica. Per invertire la sovrapposizione dei due mondi, dovremmo ribellarci a entrambe. Per farlo, serve la dispersa ma veemente forza degli intellettuali, la libera critica nell’informazione (Il Fatto Quotidiano è un nuovo, buon esempio di redazione ed edizione affrancata dall’oligopolio, mentre Il manifesto ne è l’esempio storico) e, naturalmente, dalla realtà. Quella non televisiva. Quella in strada, in piazza: i soggetti sociali che hanno confidenza con l’azione e la vocazione al conflitto. Sì, credo proprio che la speranza possa venire solo dai nuovi e aspri conflitti sociali che questa tv autoreplicante e questa politica autoconservatrice nascondono, minimizzano, ridicolizzano. Nuove domande potrebbero essere: il femminile è pronto al conflitto? E il maschile? E tutti e due, tre, cento mondi senza distinzione di genere, sono attrezzati e disposti ad aprire le ostilità? Materia per un altro articolo, temo.

Non farmi la morale, baby

La scomparsa della pubblica opinione, l’imporsi delle subculture gonfiate a steroidi, il disorientamento del femminismo, l’ignavia e il silenzio del mondo intellettuale (i maestri, dico, dove sono finiti i maestri?): ecco come si può arrivare a un panorama tanto desolante. E poi c’è chi dice: “Ma chi sei tu per farmi la morale”.
Ecco, questa è cosa che fa gonfiare le vene al collo. Di solito te lo dicono di Berlusconi: non me ne importa nulla di quello che fa nel suo letto. La risposta va in automatico, e sembra una battuta: non è il suo, è il lettone di Putin.
È il Presidente del Consiglio, quel tizio bassetto e antipatico, è l’uomo più potente d’Italia, l’uomo che governa, anzi diremo comanda, e che tiene per le palle il nostro futuro. Cos’è, è diventato troppo pretendere che un eletto dal popolo sia per lo meno una persona per bene, se non proprio capace?
Maddai, non facciamogli la morale. Ci sono cose più importanti da rimproverargli. Sospetto di collusione con mafia, corruzione accertata, reati economici, etc etc. Quattro governi di crescente pericolosità sociale e diminuzione di diritti e libertà. Danni economici da Prima Repubblica. Al confronto, se si comporta da puttaniere, come tanti altri uomini di potere, è quasi normale.
E qui le vene scoppiano: come dire che, al confronto della rapina a mano armata, la mano che ti fotte il portafoglio è niente. E allora, che facciamo, la lasciamo passare? Proprio tu, donna, non prendi fuoco a sapere che, per perdonare oscurare sviare l’attenzione dalle sue figure di merda internazionali, un coro di volgari servi ripetano a reti unificate che trattare così le donne è una bazzecola? Che ora si può, anzi si deve, perché in fondo in fondo, a ben vedere, milioni di Italiani sono come lui?
Le ripercussioni di questo messaggio a reti unificate le lascio volentieri ai sociologi, ma non vedo perché dovrebbe sfiorarci appena, anziché colpirci come una schicchera sulle orecchie gelate, sapere che l’Uomo Esempio di Successo, oltre che disonesto, è pure scarso a rispetto per la donna.
Smettiamola, donne e uomini, di pretendere poco perché nessuno è senza peccato, e ai peccati grandi ci pensa Dio o Chi Ne Fa Le Veci. Di aver paura di parlare di etica e anche di morale. Se vogliamo un Paese a nostra immagine e somiglianza, ci riapproprieremo delle reali dimensioni della vita comune, del valore della convivenza civile, del progresso umano, della sana eterna guerra tra sessi. Dei nostri progetti di famiglia, qualunque siano. Lasceremo il tubo catodico e la noia satellitare o digitale nell’ambito che a loro compete: l’intrattenimento. Torneremo a chiederci chi possiamo votare senza avere un moto di rigetto.
Prepariamoci a difendere i nostri figli da queste aggressioni subculturali. Prepariamoci allo scontro, ai prossimi conflitti culturali e sociali. Non sia mai che, ogni tanto, se ne possa vincere uno.

Nel setaccio dell’intelligenza

13 giugno 2009
Una nient’affatto serena e pacata analisi del dopo Elezioni
di Armando Barone

All’indomani di queste Europee, che in Italia sono in realtà elezioni di conferma del primo anno di mandato, il quadro è chiaro: l’Italiano premia il voto populista e demagogo. Vota a destra, certo, senza entusiasmo ma in massa. E anche per mancanza di alternative, a meno di non considerare alternative credibili il vuoto preconfezionato del PD o la superofferta 3×1 della sinistra detta radicale.
L’analisi politica dei protagonisti non brilla per finezza. A Franceschini e al suo illuminato entourage, che ha tenuto a precisare che «è finita la luna di miele di Berlusconi con gli Italiani», l’unica risposta sensata è «omiodio». Berlusconi, per cui è stata colpa della moglie se non ha sfondato il tetto del 40%, paga solo un maldestro tentativo di orientare i sondaggi – un bluff da broker di scommesse. Per la Lega, che ostenta in ogni dove tutta la serena volgarità di Borghezio, sdoganato anche lui – sgradevole effetto collaterale – si tratta della conferma che il partito è diventato nazionale. E tristemente, occorre prenderne atto. Per l’Idv-che-ha-quasi-raddoppiato-i-voti ora si tratta di costruire l’alternativa a Berlusconi. Condannando De Magistris a confrontarsi addirittura con (ah, ironia della sorte!) Mastella. Ferrero e Vendola meritano un minuto di silenzio, che pare di sparare sulla crocetta rossa. Per l’Udc, è finito il bipolarismo – che non è mai iniziato, ma l’importante era che lo dicesse Tabacci, quello più intelligente, se no poi si scopre che hanno detto un’altra cazzata.

Scorie

Eppure nel setaccio dell’intelligenza qualche scoria dovrà pur rimanere. Di grosso e di ovvio c’è che: uno, se Berlusconi tentenna lo fa per scandali e scandalicchi (a seconda che lo dica Famiglia Cristiana, Libero o Repubblica) da Prima Repubblica: sesso lusso e peculato – certo non per altre e ben più gravi ragioni quali essere accusato di aver corrotto David Mills; due, i frammenti del consenso a Berlusconi che si volatilizzano finiscono per depositarsi sulla Lega, incredibilmente anzi no – e su questo torneremo; tre, l’Idv vince grazie alle sue candidature eccellenti e per effetto dei vasi comunicanti che la legano al PD; quattro, anche all’appello del voto Europeo, si comferma l’amara sentenza: la Sinistra atomica è giunta al punto di non ritorno. C’è da sperare che si possa evitare un terzo grado di giudizio.
Si mormora ancora, un po’ meno stupiti e un po’ più rassegnati del solito: ma come fa a essere così strapotente il messaggio di Berlusconi e del suo governo? A ogni elezione si fanno i conti, e anche stavolta, che il consenso doveva ritrarsi dinanzi alle vicende giudiziarie a lui collegate e dinanzi all’esibizione del suo privato, un lusso volgare denunciato dalla moglie e non certo dagli odiati togati comunisti, il supporto non è comunque mancato. Il dazio pagato è stato minimo. I suoi elettori sono rimasti, tutt’al più, perplessi. E chissà se tra loro ci sono anche gli elettori di AN, congelati dai berluscones in attesa che l’eterno maggiordomo Fini li porti di nuovo in tavola, alla fine della parabola di Berlusconi. Fine che non arriva mai.

La lega bombarda

Dicevamo: c’è la sempre incomprensibile, e terribile, avanzata della Lega. I medici guardia, le cariche della polizia sui rifugiati politici, le campagne anti-rom e i respingimenti in nome della campagna elettorale permanente hanno dato i loro frutti. Come tutti i popoli che hanno poca esperienza di immigrazione (in emigrazione, invece, sarebbe laurea in secula seculorum), l’Italiano è tendenzialmente xenofobo, e la Lega gli apre la strada a sentirsi serenamente razzista. Ma questo non basta a spiegarne l’ulteriore avanzata: fin nelle Marche, anche in Emilia, anche in Toscana.
Per di più, la Lega è oggi il partito (nazionale) con l’invidiabile record di presa per il culo dei suoi elettori: in vent’anni che esiste e nonostante quattro governi dell’amato-odiato Berlusconi, il suo fare politico è improntato a un’incrollabile doppiezza.
Facciamo un breve ma significativo elenco? Secessione, niente. Federalismo? Solo fiscale, e non è detto. Roma ladrona? La Lega ha lottizzato come chiunque altro, gode dei favori di denaro di Berlusconi, incassa i rimborsi elettorali come gli altri, vota gli aumenti di stipendio ai parlamentari. Immigrati, romeni, zingari? La Bossi-Fini non solo non ha mai funzionato, ma anzi ha compromesso seriamente il funzionamento degli apparati. Vogliamo parlare della legge elettorale Calderoli? Europa? Dopo aver sostenuto che era una jattura, e l’euro una creazione di Prodi, adesso la Lega corre alle Europee ‘per difendere il latte italiano’, ossia per far ritirare le sanzioni inflitte quegli stessi allevatori che ha fin qui bellamente ignorato. Lavoro? Difende i lavoratori di Malpensa dopo aver plaudito alla formazione della Cai, creazione di Berlusconi e dei suoi sodali, prima e dopo le Politiche del 2008. Plaude a Sacconi che demolisce il diritto di sciopero, a Tremonti che in Finanziaria premia i padroni e le banche, punisce cassintegrati, disoccupati e precari, ma i suoi elettori la votano, e continuano a esibire il fantasma dell’operaio leghista come uno scalpo del fu schieramento popolare di sinistra. E tutto questo senza contare la beffa di CredieuroNord.
Il senso della rappresentanza politica della Lega si limita al gridare quello che la sua base grida. Il fare, è quello di tutti gli altri, anzi peggio, anzi meglio se coi soldi di Berlusconi.
Messa così, gli elettori della Lega sarebbero tutti poco furbi, apertamente xenofobi, ricchi di famiglia e soprattutto masochisti. E non è proprio così.
La spiegazione di questo straordinario impero del consenso, che i barbari nordisti condividono con gli odiati patrizi mediolani, ha una sua spiegazione. Lontana, ma non troppo. Risale ai tempi di Tangentopoli, dove si originarono le fortune politiche e personali di Berlusconi.

La mamma partito

Quando Tangentopoli faceva scrivere sui muri viva il pool, l’Italiano osservava cauto e scettico l’eroe Di Pietro, diceva a tutti di non aver mai votato per la DC o il PSI e discettava sul fatto che, adesso, non si poteva nemmeno gettare la croce addosso a tutti. C’era un sistema, occorreva adeguarsi. E poi si sa che ai livelli alti non si paga mai.
Bisogna comprenderlo, compatirlo. Per gli Italiani grama gente (povera, semplice) i partiti erano la mamma. A cui chiedere per sistemarsi. Di cui lagnarsi se si alleava con questa o quell’altra comare, da difendere se veniva attaccata. E Lo Stato era la casa di famiglia: caro rifugio per i tempi bui, insopportabile prigione quando la luce brilla fuori dalle finestre. Pur sempre il luogo dell’autorevolezza, delle radici, dell’educazione.
Il padre? Eh, il padre non era sempre certo: Gramsci e Togliatti, De Gasperi. Preti, madonne. Ex fascisti. Carcerati, anarchici. Americani, francesi, cinesi. Russi. Qualcuno che insegnasse una via alla democrazia per un Paese giovane, rissoso, ma grato d’esser sopravvissuto all’inferno della guerra, e quasi fuori dall’incubo della fame.
Con la strategia della tensione, le stragi, il terrorismo e la repressione, l’Italiano bambino si stringeva al petto della mamma partito, militava per lei e per sé, andava a scuola di vita con la militanza e poi tornava alle urne per raccontare cosa aveva imparato. Nella casa Stato, però,
qualcosa s’era incrinato. Ombre, minacce. La casa in cui era nato, costruita dai genitori o dai nonni partigiani, pareva nascondere qualcosa. Si cominciò a diffidare, coltivare rancori. Ad andarsene, addirittura a combattere, lo Stato. Il fatto era che lo Stato pareva esser diventato proprietà di qualcuno, e non la casa di tutti. E questo qualcuno intendeva disporne a proprio piacimento.
Visto che la mamma non si poteva discutere, ci si guardò dai padri: meglio allontanarsi. Meglio distrarsi, dopo la sbornia di sangue. Meglio marinare la scuola di vita e divertirsi. La mamma partito provò a mettersi in mezzo, ma niente. Arrivò il momento in cui la politica non contava più. Lo chiamarono riflusso. Erano i padroni alla riscossa, protetti dalla Loggia. E c’era anche quel robusto decisionista che pareva aver chiaro tutto, poteva badare lui alla mamma partito, e se è per quello pure alle altre mamme. E poi, poi diavolo quanti soldi pareva portasse a casa. L’Italia pareva l’America: e chi ci ferma più?

Casa Mediaset

Con Tangentopoli, lo shock: l’Italiano prende ad avere in sospetto anche la mamma: ripudio, separazione, rivalsa. Il padre adottivo finisce preso a monetine in strada. Nonostante abbia visto chiaramente per anni cosa stava succedendo, l’Italiano si sente tradito e invoca punizioni esemplari. Un po’ ipocrita, l’Italiano. Ma almeno ha una reazione, uno scatto d’orgoglio. Ci si aspetta la prova della sua maturità elettorale. Ma l’onesta diffidenza per la sua casa Stato è ormai aperta ostilità. La sua adolescenza, tra i tabù del Vaticano e i totem della televisione, si allunga. Dopo aver marinato le lezioni sulla propria storia e sulla geografia del sociale che cambia, difficile che prenda in mano la propria vita democratica.
Appare difficile anche farsi una fidanzata, una famiglia. Se cerchi un partito che somigli alla tua mamma partito, troverai quello che è rimasto in giro: copie sbiadite. Difficile anche farsi una nuova casa, l’Europa, che non somiglia per niente alla tua, e finisce che ne diffidi tanto quanto. Dal canto loro, le mamme partito sono allo sbando. Hanno paura dell’abbandono. E allora serrano i ranghi, negano tutto, si barricano nella casa Stato, e comincia a prendere corpo l’idea che dei figli si può fare anche a meno. Ai figli devoti, poltrone – e schiaffoni a figli ribelli.
Abbandonati dalle madri prima di aver deciso di abbandonarle loro stessi, gli italiani sono disorientati, stanchi, affamati di informazione e di risposte. L’idea sarebbe tornare sui banchi di scuola, scoprire le alternative, emanciparsi, impegnarsi. Ci prova pure, l’Italiano, ma ogni tanto si perde a bighellonare guardando la tv. Ed è dalla tv che conoscerà l’onda lunga del populismo classista.

Il Paese Azienda

All’arrivo di Berlusconi in politica, l’Italiano è un tardoadolescente confuso, che ha rotto con la mamma, lasciato la scuola di democrazia ed è in cerca di un surrogato di guida che gli dica come si fa a diventare uomo. La Provvidenza gli appare sotto forma di Mediaset.
Berlusconi capisce che l’Italiano è un consumatore insoddisfatto. Lo blandisce col marchio del non-politico, del non stato. La sua persona diventa il prodotto, e glielo vende come emblema del successo. Assume manodopera e la fornisce di kit elettorali come i kit di vendita degli agenti di commercio. E la campagna elettorale diventa pubblicitaria: occupare ogni spazio, con ogni prodotto, continuativamente.
Il pubblico diventa una parolaccia: è il privato che vince, è la libera competizione il suo nuovo credo, e chi non ci riesce, semplicemente, è un fesso. Il lavoro non è più un diritto. È un dovere. E anzi l’Italiano è grato al padrone perché, in tempi di disoccupazione e sistemi clientelari, chi lo assume gli dà la possibilità di consumare. Il linguaggio di Berlusconi, grezzo e ignorante ma ammantato di visicdo paternalismo, è quello dei ricchi. Butta via la tua storia, ne possiamo fare a meno, dice. E l’Italiano ne rimane affascinato: decisionismo alla Craxi, soldi che spuntano ovunque, e fuori dalle balle quelle suocere di comunisti. Basta con il non si può, il sentirsi inadeguato rispetto a intellettuali, storici, europeisti.
La casa Stato diventa l’Azienda: il governo consiglio d’amministrazione, il parlamento platea di azionisti, la politica mercato, l’informazione marketing. La politica estera è un fatto da piazzisti: non vince chi ha merce migliore, ma chi riesce a venderla. L’Azienda non tollera opposizione, chiaro. Liquida i sindacati come fannulloni, gruppi fanatici, ostacoli al dispiegarsi della produttività. L’azienda se ne infischia della Storia. Conta il presente, conta il futuro.
L’Italiano si sente miracolato: se la casa Stato è ostile, l’Azienda invece è amica, pronta ad arruolarlo, ossia a dargli quel ruolo che aspettava. L’Italiano si sente importante nel suo ruolo di consumatore, perché l’economia gira con lui. Per la verità non vive bene, anzi i soldi sono sempre meno, ma è solo perché è colpa dell’Europa e dell’euro, della crisi, dell’Opposizione. Dello Stato.
Quando in Parlamento si approvano leggi ad personam, non si stupisce: io avrei fatto lo stesso, pensa, e può non vergognarsi. Quando gli si propone di vedere gli immigrati come bersagli, non gli pare vero: sdoganata anche la paura del diverso.
È tanto suadente il linguaggio del partito vincente, e tanto intenso il bombardamento continuo della merce berlusconizzata, che quando si vede chiamato alle urne, ci va volentieri: bisogna fare il tifo nella finale del Campionato Bipolare.

L’uomo ostile

Berlusconi è l’uomo che è ostile con lo Stato, che ha in spregio le regole della democrazia, quello per cui ogni legge è un laccio – e ha imparato presto a sciogliere i propri nodi e a ad annodare le gambe degli altri. Quello per cui il potere, che logora chi non ce l’ha (battuta atroce, ma l’Italiano ne ride, invece di spaventarsene), va usato per se stesso e propri scopi. La sua concezione di libertà è al di fuori di qualsiasi etica e morale, perché non attiene al pubblico, ma al personale. La sua azione politica non tiene mai conto di una collettività, ma di una convergenza di interessi. E in cima al suo credo c’è la ricchezza personale e di chi è utile a conservarla, incrementarla, perpetuarla.
Per l’Italiano, che in Berlusconi riconosce la potenza del ricco e del successo, l’individualismo classista, l’ostilità verso gli apparati, non conta niente che, per paradosso, la carica che Berlusconi ricopre sia la più importante dello Stato. Che abbia applicato al pubblico il manuale Cencelli come i vituperati partiti della Prima Repubblica, che abbia bloccato qualsiasi concorrenza ai suoi interessi e perfino si sia elevato al di sopra della legge. Che le tasse che abolisce a ogni campagna elettorale dal 1994 a oggi siano in realtà aumentate. Che abbia inglobato fascisti e post fascisti nel suo partito azienda. Che sia un corruttore. Che il Paese Azienda vada di male in peggio. Che si sia incominciato a contare un po’ troppe balle: sulla spazzatura, che tanto riguarda i napoletani o i palermitani, o sulle mafie, che tanto riguardano i siciliani e i napoletani. Perfino sull’Abruzzo usato per la campagna elettorale. Purché decida lui tutto e subito, si accetta anche che i pubblici ufficiali vengano trasformati in polizia dell’Immigrazione, si tollera che le scuole cadano a pezzi senza fondi. Che i banchieri, indicati al pubblico come i responsabili della grande crisi, vengano premiati – e neanche sottobanco.
Ecco, se Berlusconi si accompagna con minorenni, o anche maggiorenni ma sempre sciacquette sono, forse quello può essere un problema. I festini coca e starlette della Prima Repubblica non piacciono più. La ricchezza e il lusso esibito a villa Certosa infastidisce. I voli privati col menestrello di corte è esagerato. Che perfino la persona più vicina a lui ne metta a nudo e in prima pagina il privato, fa un po’ schifo anche all’Italiano. Che forse non è ancora pronto, dopo le leggi razziali e i fascisti, le leggi ad personam, i rapporti clientelari, la corruzione, la politica derby, il razzismo da paese e tante altre belle cosette, a vedersi sdoganato, il giorno dopo l’ingresso della gnocca al Ministero, anche il pisello.

La sbornia del centrosinistra

Una socialdemocrazia dovrebbe parlare il linguaggio dello stato sociale, che è la funzione primaria e non accessoria dello Stato, e con quello ricostruire il rapporto tra Stato ed elettore. L’errore, per ammissione stessa di alcuni protagonisti del primo governo Prodi, è stato prima di aver sottovalutato Berlusconi, e poi di averlo sopravvalutato. Il populismo del padrone di Arcore aveva prodotto una tale improvvisa ondata di consenso, e per giunta a riempire i vuoti lasciati da democristiani e socialisti craxiani, che la componente progressista tradizionale ha clamorosamente sbandato: si è creduto prima di poterlo neutralizzare inserendolo nel sistema partitocratico (vedi Bicamerale), e poi di sottrargli consenso giocando sul suo stesso terreno.
Errori terribili. Spesso, quando si parla della mancata produzione di un’alternativa da parte del centrosinistra, si riduce la questione all’accettazione, più o meno supina, del liberismo economico come principale linea guida della politica di un Paese. Non basta: la portata culturale di un messaggio del genere è enorme, su un elettorato immaturo e disorientato come quello italiano. Legittimandolo come interlocutore, si è dato a Berlusconi il vantaggio di rappresentare il nuovo e l’ostile. Seguendolo sul terreno ultraliberista, si è concesso al suo personale successo di rappresentare la prospettiva di successo economico di un intero Paese. L’ansia di autoconservazione di una vecchia classe politica, sfibrata da Tangentopoli, non poteva competere con l’incarnazione del vincente.
In più, in un contesto in cui un’economia profondamente prostrata faticava a reagire, si sono abbandonati due temi fondamentali di ricostituzione del rapporto elettore-istituzioni: lo stato sociale e la legalità.
Si dimentica che la questione morale e la lotta al nero e all’evasione non appartengono alla sfera della mera politica parlata. Sono il morbo nero dell’economia. Portare soldi allo Stato e cominciare a redistribuirli è un potente viatico a mosse impopolari come l’aumento delle tasse – vecchio cavallo di troia di Berlusconi tra gli scontenti del centrosinistra. Colpire le rendite e incentivare la produttività avrebbe potuto competere con il vuoto delle politiche economiche escogitate da Tremonti, il cui genio creativo è tutto trucchi da commercialista di bassa lega, per giunta distruttivi per il patrimonio dello Stato. Si sarebbe messo in campo il nuovo vero contro la fuffa innovativa. Non è detto che avrebbe prevalso, ma almeno ci sarebbe stata partita.
Il governo che Mastella e Dini hanno fatto cadere è stato l’epilogo finale di una lunga serie di scelte sciagurate. Era l’ultima occasione per dire all’Italiano che lo Stato non gli è ostile. Che anzi, quello ostile all’Italiano era proprio Berlusconi. Fornendo un vero ricambio in Parlamento, ridistribuendo il tesoretto, sanando l’orribile ferita dei precari, demolendo il tragico impianto giudiziario ad personam, riformando la giustizia e l’impianto carcerario anziché fare l’indulto, restituendo all’informazione il suo ruolo di servizio, assicurando pluralità al mercato e dismettendo i panni del verace alleato della Chiesa, avrebbe ottenuto molto di più.
Con quella maggioranza forse non si poteva fare tutto (si poteva fare una maggioranza migliore?), ma – ovvio – certo molto di più di quanto non si è fatto.
Senno di poi? Forse, ma nel dubbio è sempre meglio ribadire, visto che dal Berlusconi exploit siamo arrivati al Berlusconi quater. E quel poi assomiglia sempre di più a un cattivo doposbronza.

L’alternativa è conflitto

Il peccato più evidente del centrosinistra, e da qualche anno anche della sinistra, è stata l’incapacità di rappresentare l’alternativa – si dice così. E anche di comunicarlo, ma questa è una vecchia storia. Come costruire l’alternativa, se non era chiaro prima, lo è adesso. Per opporsi a Berlusconi occorre capire cosa è Berlusconi. E fare il contrario.
Berlusconi è la forbice sociale che si allarga. La tentazione autoritaria. È l’illegalità premiata, l’appello all’evasione fiscale. È populismo. È il ricco contro il povero, che mette il povero contro il più povero. È soldi per se stesso e per i sodali in affari. È anche, a volte e non tutta, Confindustria. Berlusconi è anche la Lega, quando parla di immigrazione. È il padrone, e i padroni se non gli piaci ti licenziano. È insensibile al diritto internazionale. È cattolico perché il Vaticano è potere. È l’occupazione delle frequenze e la lottizzazione della Rai. È tutto e completamente ripiegato su se stesso. È un bluff riuscito, perché nessuno va mai a vedere. Berlusconi disprezza gli Italiani. Ma non ne può fare a meno, è malato di consenso. Berlusconi è menzogna.
Tutto ciò che non è Berlusconi può essere vera opposizione. Di conseguenza: redistribuzione, informazione, legalità, immigrazione, laicità. Sostenere politiche di redistribuzione: tassare le rendite e i grandi patrimoni finanziari, ridurre il prelievo fiscale prima ai precari, poi ai lavoratori dipendenti e poi a tutti, gradualmente ma continuativamente. Sostenere l’operaio contro il padrone: la cassa integrazione va estesa ai precari, va prevista la defiscalizzazione per le piccole imprese che producono, innovano e assumono. Informazione: contro le menzogne e le campagne immagine di Berlusconi, per arginare lo strapotere delle sue televisioni, non c’è che informare correttamente, proteggere l’editoria indipendente, liberare le frequenze, liberare la Rai dall’influenza dei partiti. Legalità: recupero dell’evasione, istituzione del conflitto di interessi per costituzione, radere al suolo il palco delle leggi che protegge Berlusconi, a cominciare dal lodo Alfano e dalla legge sulle intercettazioni, riscrivere le norme in materia di reati finanziari. Immigrazione: la gestione dei flussi non è né ordine pubblico né lavoro a chiamata. O si comprende che l’immigrazione ci sarà sempre, che è un tema internazionale, e soprattutto che porta benefici all’economia, non danni, o è meglio ritirarsi, sciogliere il partito, smettere di fare politica.
Laicità: non è ammissibile che un partito non abbia una linea politica su diritti civili e temi etici, perché significa che non è degno di rappresentare nessuno. La libertà di coscienza è una linea. Il cattolicesimo oltranzista è una linea. Avere dubbi e aprire dibattito è una linea. Avere quindici linee per dieci dirigenti è un insulto all’intelligenza degli elettori.

La risposta è controcultura

Queste sono risposte a Berlusconi. Colpire la sua menzogna, informando. Affondare la sua popolarità, controinformando. Sostenere i redditi più bassi e da produttività significa togliere i redditi bassi e le piccole imprese da sotto l’ombrello del ‘popolo della partita IVA’ che elegge Lega e PdL. Coltivare la legalità e dare risposte serie alla società civile, negando qualsiasi connivenza con il PdL, è semplicemente avere dignità. Ma se non bastasse si pensi a cosa vuol dire recuperare anche solo frazioni di economia al nero: valori da due, tre leggi finanziarie. Altro che usare il tesoretto per il debito pubblico, come l’ineffabile Padoa Schioppa sosteneva.
Aprire ai temi dell’immigrazione, proponendo una gestione costante dei flussi e non un rubinetto militarizzato, e alle politiche di integrazione, seguendo i modelli sperimentati con successo altrove, vuol dire aprire un conflitto con gli elettori, rischiare: ma si deve, o la partita con la destra è persa da oggi.
Difendere l’autonomia del Parlamento dal Vaticano e da ogni altra influenza è semplicemente doveroso, ma se non bastasse si valuti che il voto cattolico è per natura ampio ed estremamente vario. Contenderlo a Berlusconi non significa fare a gara con lui a chi bacia più tonache, ma dare rappresentazione di tutte le sue componenti. Come? La risposta è sempre la stessa: laicità nello Stato e religione quale che sia nel privato. È un patto accettabile da qualunque parlamentare che sappia fare il suo mestiere, con buona pace di Binetti e soci.
Da questi punti programmatici nasce l’idea di fondare una controcultura che si opponga alla cultura dominante, o non-cultura berlusconiana, ben più pericolosa perché sopravviverà all’uomo Berlusconi. E solo con queste premesse, è possibile parlare di partiti, quali e quanti, di consenso, di leadership.

Lo Stato alleato

La maturità dell’Italiano elettore e della sua vita democratica è solo sospesa, non cancellata. Non ancora, almeno. La sua formazione può riprendere, ma a patto che lo Stato cominci a comportarsi da alleato e non da elemento ostile. Ricucire il rapporto tra Stato e cittadino significa anche molte altre cose, di cui qui non v’è cenno, quali per esempio rivedere il rapporto tra cittadini e Polizia, radicalmente compromesso dopo il G8, o fermare lo scempio della scuola e dell’ambiente. Al centro di questa rifondazione non può esserci che un vero ricambio della classe politica – quanti anni ci vogliono? – che imposti e risolva la questione dell’incompatibilità delle cariche, della trasparenza delle organizzazioni partitiche, degli stipendi di deputati e senatori e, finalmente, proponga una legge elettorale non orientata al bipolarismo, che in Italia non si può fare e non è cosa da fare.
Essere tra i padri ricostruttori dello Stato alleato come antitesi dello Stato ostile berlusconiano, invertire la tendenza in favore della crescita culturale del sistema Paese, è un’autentica rivoluzione. A questa rivoluzione può aspirare solo una sinistra consapevole di cosa è il berlusconismo e di come si combatte. Capace di sostenere una battaglia culturale e politica di lungo respiro, inclusiva nei confronti di liste civiche, movimenti, intellettuali, società civili. In questo quadro, certo, è importante valutare la scelta di uno o più leader in area progressista, ma la questione sembra essere di lunga sopravvalutata. La reale dimensione di una leadership si valuta solo nel tempo, e parrebbe fin troppo banale e semplicistico dire che non è la singola persona che ne determina il risultato. Il ruolo del leader è quello del moltiplicatore del consenso, della rappresentanza visiva, dell’agente primo del processo di trasformazione. Il parlante del nuovo linguaggio: chiaro, deciso, pronto a dibattere. Se anche carismatico, ben venga.
Non si vedono ora leader che mostrino di possedere queste consapevolezze, e di guadagnare autorevolezza con le loro argomentazioni. Se sia il momento storico o la confusione delle forze progressiste a impedirne la nascita, non è dato di sapere. Del resto, l’Italiano siamo tutti noi, elettori immaturi e disorientati: nel riprendere la nostra formazione alla democrazia, chi lo sa, potrebbe accadere di incontrare nuovi leader, nuovi agenti del cambiamento, nuovi moltiplicatori del consenso. Il cammino è lungo: che la Sinistra sia con noi.

La teoria degli insiemi e la Casa del Popolo

4 giugno 2009
Lettera aperta a Irene Campari e Pablo Genova
da Pavia, Armando Barone

Se ci figurassimo il Circolo Pasolini, la sinistra anticapitalista e Insieme per Pavia come tre insiemi di persone e idee per la città, quante e quali sarebbero le intersezioni di questi tre insiemi? Lavoro, Case Popolari, cultura dell’antirazzismo. Pace. Sostegno alle fasce deboli. Ambiente. Merci a km zero. Niente cemento, niente ipermercati. Divertimento giovanile. Cultura e musei. L’acqua come bene pubblico.
Leggo i programmi di Prc e Pdci, gli articoli di Irene. Poi rileggo il nostro, e mi accorgo che stiamo parlando lo stesso linguaggio. Tre lingue che la babele elettorale distingue e separa, fedele alle rispettive originalità, eppure così familiari l’una all’altra, così contigue, come lingue che si contaminano a forza di prestiti nella piccola Europa.
Lunedì sorrideremo e ci incazzeremo con in mano le stampe del sito della Prefettura, ma guardando un po’ più in là, a quello che verrà poi, viene il dubbio: non è che, senza accorgercene, stiamo costruendo quel blocco a sinistra, aperto e plurale, di cui da anni si cercano le tracce? Non sarebbe un esperimento interessante, dopo le Elezioni, provare a lavorare sulle nostre intersezioni?
Tempo fa mi trovai a discutere via blog con Paolo Ferrero di sedi ‘attive’. Ossia: utilizzare sedi e circoli di partito con ruoli di servizio, ricostruendo il rapporto con il territorio. Come avere una casa del popolo in ogni città o magari in ogni quartiere, con assistenza legale gratuita o a rimborso spese, accoglienza immigrati, ufficio coordinamento dei csv, sportello gas e km zero. E una potente opera di contro informazione e libera cultura.
Fare politica in questo modo non sarebbe più utile, lungimirante, persino più gratificante?
Paolo Ferloni, nell’ intervista ‘embedded’ che abbiamo pubblicato di recente sul nostro blog, ha invocato l’abolizione delle etichette. Diceva: occorre sapere chi siamo, e cosa non siamo. Nel suo profilo mi ci sono riconosciuto. E per uno come me, che si è sempre riconosciuto nell’idea comunista ancora da costruire, figlia e nipote della Resistenza, interessata alla decrescita, viva nell’eco di Puerto Alegre, non è parso neanche innaturale.
Due partiti uniti in un processo di rinnovamento, il circolo politico e culturale, la lista civica di sinistra: se le rispettive storie possono dividere, l’agire politico può unire. E dove c’è agire politico, c’è rappresentanza. Democrazia, come si usa dire, ‘dal basso’.
Posso anche sbagliarmi, ma c’è un futuro, qui, da qualche parte.
Interessa?

una bella piazza

20 Maggio 2009
ufficio oggetti smarriti – catalogo n.04
di Armando Barone

Non trovo più i comizi in piazza e, se è per questo, neanche la piazza. Ricordo che una volta c’erano, quegli omini lontani in piedi sul fronte del palco, al fondo della piazza, magari davanti all’antico balcone dei Capitani. Facevano fischiare i microfoni arringando la folla, e la folla fischiava o applaudiva, poi i tanti a casa e i pochi in sezione o in trattoria. Rappresentavano un’altra piazza, giù a Montecitorio, e la loro presenza lì, legittimata dall’autorità e dai notabili del paese, pareva legare le due piazze, questa nostrana a quella lontana, in un raro e prezioso ponte immaginario. E pareva normale che, il giorno dopo, su quella piazza tornasse il mercato e il quotidiano incontrarsi, studiarsi, strusciarsi. In piazza si era sotto gli occhi di tutti, e quel tutti somigliava terribilmente a una comunità. Litigiosa, certo. Ci si innamorava e ci si mandava a fare in culo con eguale, encomiabile impegno.
Oggi, non so: la piazza l’abbiamo rimpiazzata col salotto buono, e «Occhio a non sporcare», «Non alzare la voce», «Non facciamoci riconoscere». Come in casa d’altri. Manca solo che ci mettiamo le pattine.
E i comizi, quelli, li abbiamo trasferiti in hotel e centri congressi, col grande schermo e le poltrone in velluto. E si applaude per forza, perché in platea (al 90%) ci sono i tuoi. Tanto che non sono mica più comizi: le chiamano convention. Come fanno gli agenti di commercio. C’è pure il gadget.
È che prima, quando volevi parlare con la città, andavi in piazza e la città era lì. Adesso, chi lo sa? Vuoi vedere che prima o poi anche la città ci toccherà cercarla all’ufficio Oggetti Smarriti.
Se da grande divento sindaco, la campagna elettorale la faccio in Ape Car.