Archive for the ‘carcere’ Category

La lista d’attesa

26 marzo 2013

…contro il sovraffollamento delle carceri
di Luigi Manconi*

L’amico Luigi Manconi è tornato in Senato, eletto nelle liste del Partito democratico. Da sempre impegnato sul fronte dei diritti dei detenuti (era stato anche tra i firmatari del nostro appello per la concessione degli arresti domiciliari a Carlo Chiriaco, gravemente ammalato), il 25 marzo Manconi e Luigi Compagna (Gal – Gruppo Grandi Autonomie e Libertà) hanno presentato un disegno di legge su amnistia e indulto di assoluto buon senso volto fra l’altro a contenere il vergognoso sovraffollamento delle nostre carceri: «se la struttura penitenziaria territorialmente competente risultasse sovraffollata, il detenuto verrebbe iscritto in una lista d’attesa e sconterebbe la pena in carcere solo quando le condizioni di vivibilità fossero ristabilite. Nel frattempo verrebbe sottoposto alla detenzione domiciliare. Si tratta di un provvedimento ragionevole, già assunto da altri stati democratici». Assolutamente d’accordo con Luigi e Luigi. (G.G.)

«È del 2009 la prima condanna inflitta della Commissione europea per i diritti dell’uomo all’Italia a causa delle condizioni di vita all’interno delle carceri. L’Italia è stata condannata perché un detenuto, Izet Sulejmanovic, si è trovato costretto per lungo tempo durante la sua carcerazione a vivere in uno spazio al di sotto dei tre metri quadrati. E questo, per la Cedu, si configura come trattamento inumano e degradante. Recentemente i tribunali di sorveglianza di Venezia e Monza si sono trovati a decidere su una richiesta presentata da due detenuti che chiedevano un differimento della pena per il grave sovraffollamento degli istituti a cui erano destinati, cosa che li avrebbe costretti a una detenzione crudele. I due tribunali hanno sollevato una eccezione di costituzionalità a proposito dell’articolo 147 del codice penale che disciplina i casi in cui il differimento della pena può essere concesso. (more…)

Se la Lega riempie le carceri

14 marzo 2012

di Manila Filella

L’inclusione nel sistema dei diritti di chi oggi è marginalizzato e/o straniero è forse la grande scommessa del nostro tempo. Una questione ineludibile, già che non pare arginabile la pressione esercitata da chi fugge da una guerra, dalla miseria o dalla carestia alla ricerca o nel miraggio di un riscatto esistenziale oltre che economico. Tuttavia – a destra così come a sinistra – si tende a guardare ai quattro milioni di nuovi immigrati come braccia, muscoli a cui ancorare in parte la “salvezza” economica di un Paese alla deriva (in Italia i lavoratori stranieri  hanno un tasso di attività del 75 per cento – 12 punti più elevato degli italiani – e concorrono per il 9 per cento alla creazione del Pil, equivalenti a 3,7 miliardi di euro in gettito fiscale). Facciamocene una ragione: i nuovi venuti non sono mera forza lavoro ma, detto in estrema sintesi, una decisiva occasione di interazione e scambio, di reciproco arricchimento tra esseri umani. (G.G.)

Il tema del sovraffollamento degli istituti penitenziari è un problema strutturale di estrema gravità nel nostro Paese e va risolto, utilizzando, per i reati minori, strumenti alternativi alla pena detentiva. Le nostre carceri sovrabbondano di stranieri, provenienti da nazioni al di fuori dell’Unione Europea, i quali, nella maggior parte dei casi, sono stati condannati solo per aver commesso il reato di clandestinità, in conseguenza della mancata ottemperanza nei termini ad un’ordine amministrativo.
Tutta la normativa sull’immigrazione, voluta fortemente dalla Lega Nord, presenta profili di illegittimità costituzionale ed incompatibilità con la normativa europea ed internazionale, oltre a porsi in contrasto con i diritti fondamentali della persona umana e l’intolleranza e la continua criminalizzazione tout court dello straniero, ed oltre ad essere discriminatoria, distoglie tempo, uomini e risorse economiche che dovrebbero essere impiegate per contrastare i fenomeni di criminalità organizzata, quelli sì, reati di maggior rilievo, non collegati ad un’etnia, e ad oggi il vero vulnus della Lombardia.
L’attuale impianto legislativo sull’immigrazione è complesso e la macchina burocratica determina continui ritardi nei rinnovi del permesso di soggiorno agli stranieri lavoratori regolari o addirittura dinieghi,spesso ai limiti della discrezionalità, sicché si diventa clandestini, perdendo il posto di lavoro e la dignità, ma non è concesso ad alcuno sostenere che in Italia tutti gli stranieri irregolari delinquono, stuprano, spacciano, perché questa è una pericolosa equivalenza, frutto di slogan propagandistici e demagogici.
Intasare le carceri di clandestini non vuol dire risolvere il problema, né sottoporli tutti a processi penali solo per essere entrati nel territorio italiano in modo non conforme ad una legge dal retrogusto xenofobo, né tantomeno è corretto rimpatriarli in blocco in condizioni degradanti, come è appena successo nella vicenda dei respingimenti libici, situazione nella quale abbiamo subito l’ennesima condanna dalla Corte Europea dei diritti umani di Strasburgo.
È necessario ripensare la normativa sull’immigrazione, semplificando e razionalizzando le procedure di rimpatrio, per stabilire quali stranieri possano rimanere in Italia regolarmente, ricordando che il nostro pil è anche merito e frutto dei loro lavori, spesso snobbati da noi italiani, e che nonostante le leggi regionali osteggino l’inserimento delle etnie diverse da quella italiana, i profumi, gli odori, le abitudini ed i cibi stranieri sono entrati a far parte anche della nostra tradizione, a partire dagli esercizi commerciali che propongono il kebab. A questo proposito, di recente mi è capitato, in un’iniziativa del Pd, di presentare, a Pavia, un libro molto interessante sul tema, curato da Antonello Mangano, autore anche del testo Gli africani salveranno l’Italia.
Nel titolo è già riassunta l’essenza e l’errata direzionalità delle nostre paure «Sì alla lupara, no al cous cous». Mentre la Lega vietava il kebab, la ‘Ndrangheta si mangiava la Padania. Mi auguro non vogliate unirvi al desco.

Il carcere non porta voti

30 dicembre 2011

Dice Luigi Manconi, docente di sociologia dei fenomeni politici, presidente di “A buon diritto”, ex sottosegretario alla giustizia, che «la percentuale del sovraffollamento a Sollicciano è tra le più alte di tutto il sistema penitenziario italiano. Il sovraffollamento non è una categoria astratta, non deve evocare una spiaggia della riviera romagnola il 15 agosto, perché lì la condizione di addensamento dei corpi, oltre a essere il risultato di una scelta volontaria, è una condizione a tempo determinato che si conclude con la fine della giornata. Il sovraffollamento all’interno di una istituzione chiusa è in primo luogo un fattore di disumanizzazione, che determina la caduta rovinosa di tutti gli standard di qualità dei servizi e, più in generale, della vita collettiva. È oltre dunque uno stato di promiscuità, che significa accavallarsi, sovrapporsi, combinarsi e incrociarsi dei corpi; significa che l’assistenza sanitaria precipita, la qualità dell’alimentazione decade, l’attività di trattamento e socializzazione tende a diventare sempre più miserevole. E in una istituzione chiusa, questa condizione riguarda direttamente tutti i soggetti che vi si trovano».

E così pure i poliziotti diventano dei reclusi.

«È una condizione che riguarda il detenuto, l’educatore, lo psicologo e in particolare il poliziotto penitenziario. Quella stessa promiscuità costituisce un fattore intollerabile perché toglie l’aria, la possibilità di movimento e la libertà di azione, e diventa dunque un elemento coercitivo tanto per il custode quanto per i custoditi. Quel sovraffollamento si traduce in un fattore di stress, in senso proprio; significa esaurimento nervoso, indebolimento della propria capacità di autocontrollo, riduzione della lucidità, fatica psicologica, annebbiamento. In sostanza: crisi».
Con il rischio che l’unica liberazione diventi quindi il suicidio. (more…)

Carceri. Il rovescio del diritto

29 novembre 2011
di Vincenzo Andraous

Se qualcuno volesse soppesare il mal di pancia di un Paese, il malessere-disagio sociale che recide il valore delle relazioni, è sufficiente smanettare nella rete, saltellando da un blog all’altro. C’è un po’ di tutto, il furore e la rabbia di un popolo di delusi, e c’è pure poca conoscenza, un metodo artigianale dell’imparare, poco propenso a educarci a conoscere quanto ci circonda.
Di fronte a questo pasticcio delle intenzioni, che affondano le radici nelle nostre emozioni, c’è forte la richiesta di abbandonare i parolai interessati e intenzionali, di mettere in campo una giustizia equa, una solidarietà costruttiva, che non dimentica le priorità di tutela a garanzia delle vittime di soprusi e omertà, ma che da questo punto di partenza rilancia nuove opportunità di conciliazione da parte del detenuto.
La società non è qualcosa di astratto, che si riduce al parlato, al raccontato, è piuttosto una comunità fatta di persone, di istituzioni, di regole autorevoli da rispettare. E il carcere è società, non certamente una manciata di feudi out rispetto alle normative statuali, ma soggetti fondanti lo stato di diritto, eppure il carcere è diventato quotidianamente un caso che desta interrogativi, inquietudini, sordamente rispedite al mittente. (more…)

Caro Presidente

17 novembre 2011
Lettera aperta al nuovo Presidente del Consiglio Mario Monti
su etica pubblica, carceri e spese militari
di Giovanni Giovannetti

Gentile Presidente Mario Monti,
Al momento non mi riconosco tra coloro che pregiudizialmente hanno criticato la Sua nomina, e di fronte al baratro dell’emergenza nazionale sia economica che politica, volentieri mi turo il naso e resisto ai miasmi di un governo “tecnico” e non “politico” (Governo dei banchieri? Filonuclearisti e privatizzatori incalliti, indifferenti al plebiscito referendario? Si vedrà. Nonostante tutto restiamo una democrazia, resiste un Parlamento a cui l’esecutivo dovrà rispondere).
E poi, diciamocelo, con la Sua nomina il Paese ha voltato pagina (e questo è un bene) così che qualcuno tornerà stabilmente ad Arcore e da lì nelle più vicine aule dei tribunali. E qualcun altro razzista e balùba andrà all’opposizione, a meditare sui nuovi ministeri alla Coesione territoriale e all’integrazione, quest’ultimo affidato allo stimabile Andrea Riccardi, già benemerito fondatore della Comunità di Sant’Egidio.
Caro Presidente, al riguardo, mi consenta una breve digressione sull’etica pubblica, dopo anni passati a registrare la minimizzazione delle travi (come la deriva economico-finanziaria) e la parallela enfatizzazione più che gridata delle pagliuzze, ovvero della criminalizzazione di marginali e migranti invece dei banchieri e dei finanzieri new economy a cui dobbiamo la catastrofe (per tacere di mafiosi e corrotti). (more…)

La galera

15 novembre 2011
di Giovanni Giovannetti *

Salvatore Verde, Il carcere manicomio, Sensibili alle foglie 2011
Samanta Di Persio, La pena di morte italiana, Rizzoli 2011
Irene Invernizzi, Il carcere come scuola di Rivoluzione, Einaudi 1973
Ernesto Bettinelli, La Costituzione della Repubblica italiana,  Rcs libri 2006

«Il 50 per cento delle carceri va chiuso, il nostro sistema è fuori dalla Costituzione». E chi lo denuncia? Pannella? No, l’affermazione arriva dall’ex ministro della Giustizia Angelino Alfano, ora segretario politico del Pdl. Gli fa eco il capo dello Stato Giorgio Napolitano, che definisce «drammatica» la situazione: una questione di «prepotente urgenza» perché le carceri italiane, così sovraffollate, «sono inumane».
E dire che dopo le lotte per il rispetto dei diritti costituzionali dei carcerati negli anni Settanta, si era fatto fronte al disastro depenalizzando alcuni reati e ponendo mano a leggi innovative come la Gozzini del 1986: permessi premio, affidamento al servizio sociale, detenzione domiciliare per i condannati a pene sotto i tre anni e per i carcerati con meno di due anni da scontare; semilibertà per le pene detentive non superiori ai sei mesi o per gli ergastolani che abbiano già scontato almeno venti anni di carcere e 3 mesi l’anno di sconto della pena a chi avesse mantenuto un comportamento corretto in carcere, ecc.
Negli anni che seguono sconteremo scelte politiche di segno opposto: il taglio dei fondi (per il lavoro, per la formazione, per la manutenzione dei fabbricati, per l’assistenza e il sostegno psicologico ai detenuti) e normative «securitarie» come la “Bossi-Fini” (2002), che ha trasformato in delinquenti i numerosi stranieri “clandestini”, fino a ieri perseguibili con una semplice ammenda. O come la “Fini-Giovanardi” che, dal 2005, sostanzialmente ha messo sullo stesso piano spacciatori e consumatori, criminalizzando i “tossici”, nascondendoli in carcere. O come la “ex-Cirielli” (2005), che ha sospeso le attenuanti generiche ai recidivi, allungando la detenzione e dunque la permanenza nel circuito carcerario (modifiche sconfessate dallo stesso primo firmatario, il senatore Salvatore Cirielli). Fino al recente taglio governativo del 22 per cento ai fondi destinati al DAP, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria da cui dipende la gestione delle carceri. Se da un lato aumentano i detenuti (oggi sono 67.900 – il 40 per cento dei quali rimane in attesa di giudizio – quando i penitenziari ne potrebbero contenere non più di 45.000) dall’altro si registra una carenza di organico calcolata in 3.000 fra educatori e assistenti sociali, e solamente l’1,8 per cento dei detenuti ha la possibilità di lavorare o di frequentare corsi di formazione (fonte: Rapporto 2009-2010 del Garante dei detenuti della provincia di Milano), con buona pace del carattere rieducativo della pena sancito dall’articolo 27 della Costituzione. In crisi d’ossigeno versa anche il personale di Polizia penitenziaria, per la gravissima carenza d’organico (36.000 invece di 45.000) che impedisce un’adeguata pianificazione del lavoro, e lo relega a “braccio meccanico” che apre e chiude le celle. Servirebbero almeno 5.500 nuove assunzioni, ma nel 2011 se ne sono viste solo 760 e se ne sono andati in 2.000.
Una situazione allarmante, ben sintetizzata da Salvatore Verde ne Il carcere manicomio: dal 2007 al 2010 «i detenuti sono aumentati del 50 per cento e le risorse sono diminuite del 25 per cento. Nel 2010 la spesa è stata pari a 2 miliardi e 204 milioni di euro» (p. 19), fondi destinati in misura rilevante al personale (80 per cento) e solo il 3 per cento al funzionamento delle carceri (il 4 per cento alla manutenzione). Sono scelte politiche. Così come il fondo destinato all’avviamento al lavoro, che è passato da 71.400.000 euro a 49.664.207 in cinque anni. Così come è scelta politica il taglio di quasi il 70 per cento in dieci anni delle risorse per il sostegno psicologico dei detenuti, a fronte, come rileva Verde «di un aumento esponenziale degli “utenti”, degli atti di autolesionismo, dei suicidi e delle sofferenze psichiche» (p. 20).
In una lettera dal carcere di Monza (4 agosto 2011), gli stessi reclusi denunciano una situazione «che ha ormai oltrepassato ogni limite di sopportazione e di decenza, uccidendo l’unica e ultima cosa che rimane a un detenuto: la dignità di essere uomo». E così proseguono:

viviamo ammassati in tre per ogni cella ovvero con un letto a castello per due persone ed una brandina volante per la notte con spazi di movimento che non superano il metro quadro per detenuto … l’acqua calda non esiste se non di tanto in tanto in due docce, mal funzionanti, per settanta persone […] Le celle dell’ultimo piano sono incrostate d’umidità, come le altre, ma con un optional in più: piove dentro ad ogni temporale e si dorme con teli di plastica addosso […] Gli oltre 900 detenuti, cioè il doppio di quelli per cui questa “galera” è stata costruita, sono costretti per 20 ore in 7,5 metri quadri tutto compreso. Il rapporto con il personale di sorveglianza è gerarchicamente malsano. Nessuno è responsabile di niente tranne che della sua funzione di schiavettare mille volte al giorno come se da questa parte delle sbarre ci fossero animali.

In tre dentro celle di 7,5 metri quadri, la stessa superficie di un parcheggio auto a righe blu. Uguale sorte per i detenuti a San Vittore (il carcere milanese contende a quello genovese di Marassi il triste primato dei suicidi), come riferisce una interrogazione del consigliere comunale milanese Mirko Mazzali al sindaco Giuliano Pisapia dopo una visita, il 10 maggio 2011, da parte di alcuni parlamentari:

[…] erano presenti nel carcere di San Vittore 1.641 detenuti, 1.537 uomini e 104 donne a fronte di una capienza regolamentare consentita di 712 posti; il 65 per cento dei detenuti sono stranieri e il 70 per cento sono in attesa di giudizio; i tossicodipendenti dichiarati sono 230; i casi psichiatrici sono circa 400; a fronte di organico della polizia penitenziaria stabilito dal Ministero di 990 unità, gli agenti effettivamente presenti sono 34 donne e 308 uomini. La delegazione ha visitato celle di 7 metri quadri ove erano ristretti tre detenuti e celle di 13 metri quadri dove ce ne erano 9 o 10; l’amministrazione non fornisce i mobili per riporre gli effetti personali né gli sgabelli per tutti i detenuti perché altrimenti diverrebbe pressoché impossibile muoversi all’interno della cella; cella ove quasi tutti i detenuti passano almeno 20 ore al giorno nella più completa inattività; i detenuti che lavorano, infatti, sono in tutto 280 (meno del 20 per cento) per un periodo limitato ed esclusivamente alle dipendenze dell’amministrazione per mansioni interne all’istituto poco qualificanti (pulizie, porta-vitto, e altro); per questa situazione, la delegazione è dell’avviso che i detenuti siano vittime di trattamenti disumani e degradanti. Non solo le celle, ma anche le caserme ove alloggia la polizia penitenziaria sono poco dignitose: stanze-celle con sbarre alle finestre, senza bagno e doccia, ove alloggiano 2 agenti e altri due si appoggiano usandole come spogliatoi. Il cosiddetto «centro clinico» è carente e sarebbe meglio definirlo «una grande infermeria», visto che le visite specialistiche, gli interventi chirurgici anche semplici e i ricoveri vengono effettuati all’esterno con le conseguenti problematiche di traduzioni e piantonamenti che pesano sull’organico già carente degli agenti; si registrano, per esempio, 5/6 casi di dialisi al giorno che si effettuano all’esterno perché il centro clinico non è attrezzato; le transessuali si trovano in celle del reparto protetto e lamentano il mancato accesso alle cure ormonali cui si sottoponevano prima di essere arrestate; solo nel reparto «la nave» che ospita circa 60 detenuti tossicodipendenti quasi tutti in cura metadonica è stato possibile riscontrare attività trattamentali volte al recupero sociale dei reclusi: celle aperte, attività varie dalla mattina fino alle 16.30 del pomeriggio; contatto costante con personale qualificato in particolare psicologi. Quanto alle condizioni di vita degli stranieri, in molti lamentano di non avere un’adeguata assistenza legale, molti sono infatti coloro che sono assistiti da un avvocato d’ufficio e che ricevono poche informazioni sulla loro condizione processuale; per i musulmani non esiste nell’istituto una stanza per il loro culto e nelle celle, dato il sovraffollamento, è quasi impossibile pregare; alcuni lamentano il fatto che le domande per accedere ai corsi di italiano sono ferme da due mesi; difficoltà si registrano da parte di coloro che, non avendo familiari in Italia, chiedono di poter telefonare sui telefoni cellulari o perché i congiunti non dispongono di un apparecchio fisso o perché è difficile raggiungerli a casa. Nel VI reparto tutte le celle sono da 6 letti in uno spazio di 12 metri quadri; molte celle hanno la disposizione dei letti tale per cui è impossibile aprire la finestra secondo i dati forniti dall’amministrazione, dovrebbero essere una cinquantina i detenuti che si trovano ristretti solo per il reato di clandestinità e che, in base al pronunciamento della Corte europea di giustizia, dovrebbero essere scarcerati; sono inesistenti palestre o luoghi attrezzati ove poter svolgere attività fisica almeno durante le ore d’aria; gli unici posti accessibili sono i cosiddetti «passeggi», peraltro superaffollati.

Denuncia che si specchia in quella dell’europarlamentare Vittorio Agnoletto, in visita al carcere di San Vittorie il 14 febbraio 2011:

[…] è una struttura indegna di un paese civile: sovraffollamento, locali fatiscenti, due reparti chiusi da molto tempo per ristrutturazione. All’interno del carcere anche un centro clinico psichiatrico (16 posti, sette celle da due e due singole) dove, a trent’anni dall’approvazione della legge Basaglia, gli “ospiti” vengono ancora trattati secondo i canoni pre-legge 180 (vengono costretti talvolta nella camicia di forza, ma fortunatamente non sono sottoposti a elettrochoc). Nel centro clinico psichiatrico non c’è intonaco, i muri e il pavimento presentano dei buchi, non c’è riscaldamento e le finestre sono rotte. Un vero e proprio inferno.

Sono cose che capitano, sì, ma in pellicole come Gothika di Kossovitz o Qualcuno volò sul nido del cuculo di Forman, o in qualche remoto pertugio di mondo dove la vita delle persone conta poco o punto. E invece siamo in Italia, Paese in cui un tale trattamento inumano e discrezionale sembra ormai inquietante consuetudine, specie in quelli che Salvatore Verde definisce “i non luoghi istituzionali”. E «tra i luoghi più oscuri e degradati vi sono proprio queste sezioni o repartini psichiatrici che, ancor più dell’indecenza dei manicomi giudiziari, rappresentano talvolta una vera e propria eclissi di civiltà per il carcere di questo Paese» (p. 47); “non luoghi” in cui nella sostanza si determina una condizione «di potere di vita e di morte su chi è internato», extralegalità esercitata «da pubblici amministratori, da funzionari, burocrati, medici, operatori della sicurezza, che decidono quali vite debbano essere considerate tali e quali no» (p. 59).
La condizione non migliora negli altri 204 istituti di detenzione italiani (a cui potremmo aggiungere 500 ragazzini reclusi in 44 istituti minorili e, perché no, circa 20.000 immigrati stipati in 78 Centri di permanenza temporanea le cui condizioni sono, se possibile, ancora più disumane e aberranti), in deroga ad alcuni diritti costituzionalmente garantiti: al citato carattere rieducativo della pena vanno quantomeno aggiunti il diritto alla salute (art. 32) e il diritto a non subire violenze fisiche o morali delle persone sottoposte a restrizioni di libertà (art. 13).
Come scrive Ernesto Bettinelli nel suo La Costituzione. Un classico giuridico, «le norme appena citate non fanno che riprodurre quelle condizioni minime di umanità e di dignità per qualsiasi persona che sono all’origine del patto di convivenza». Il costituzionalista cremonese enumera poi alcune “afflizioni supplementari”: «la custodia in luoghi malsani, sovraffollati e degradati che mettono a rischio la salute, l’integrità e la vita stessa di chi è imprigionato; […] un’assistenza sanitaria precaria o un inadeguato approvvigionamento di beni essenziali alla cura della persona; la privazione immotivata e irragionevole dei contatti con i propri congiunti; la carenza di informazioni sul “mondo esterno”» (p. 92).
Nelle carceri italiane la violazione sistematica dei diritti costituzionali dei detenuti è consolidata abitudine. Non per caso il 16 luglio 2009 la Corte europea per i diritti dell’uomo, da Strasburgo ha condannato l’Italia a risarcire un detenuto bosniaco recluso a Rebibbia (Roma) per i danni morali da lui subiti a causa del sovraffollamento (erano in 5 in una cella di 16 mq: 2,7 mq reali a testa per 18 ore al giorno). Secondo la Corte europea, 7 mq è lo spazio minimo da riconoscere ad ogni detenuto, spazio vitale, sotto il quale la pena declina in tortura (art. 3 della Convenzione europea dei Diritti dell’uomo: «nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti»). Ma in Italia, con celle sovraffollate che a stento raggiungono i 10 mq, come si è visto gli spazi angusti nelle carceri sono ormai la norma.
Come dire che lo Stato dell’“allarmismo sociale” e della repressione, questo Stato, pratica l’illegalità invece dell’aiuto, e si mantiene in flagranza di reato entro la deriva populista e securitaria della selezione, della marginalizzazione, della catalogazione, dell’esclusione sociale per tossicodipendenti e immigrati (il 60 per cento dei detenuti).
Ormai l’esclusione è per il carcerato in quanto tale, così come nell’Ottocento, agli albori del capitalismo, già era toccato ai mendicanti, ai bisognosi, ai folli e ai criminali. Parafrasando Foucault, è la stessa deriva biopolitica – malauguratamente condivisa dai governi di centrosinistra e di centrodestra – che, inseguendo gli umori forcaioli della piazza, ha profondamente intaccato l’etica pubblica, fino a trasferire nel senso comune il pregiudizio, il razzismo e la xenofobia, senza più ostacoli o freni inibitori.
Un esempio? Uno preso a caso: i recenti commenti in rete (in particolare tra i lettori del sito de “il Fatto quotidiano”) sull’appello per la concessione degli arresti domiciliari a Carlo Chiriaco, gravemente ammalato, sottoposto a carcerazione preventiva per concorso esterno in associazione mafiosa (e sottoscritto fra gli altri da don Andrea Gallo, padre Alex Zanotelli, Luigi Manconi, nonché da alcuni componenti la redazione del “Primo amore”). «Ci vorrebbe la tortura con ‘sti figli di puttana. Altro che cure. Bastardi». «Cazzi suoi …scusate il francesismo!». «Un pò di dieta non gli farà male… prima che giunga all’anoressia ce ne vuole…». «Si deprime a stare in carcere? Bene, vuol dire che il carcere a qualcosa serve…». «Fanno i pietosi con i delinquenti… tempi da lupi». «Non escluderei nemmeno del tutto che una parte dei mali di Chiriaco siano frutto di un’abile simulazione». «Ma come si fa a sentire umanità per questi viscidi rettili velenosi!». «Prima muore e prima risparmiamo sul vitto e alloggio gratis che ha nel carcere! Quando uccideva o depredava qualcuno, se la rideva… ora, se permettete, ce la ridiamo noi!». «Ecco, adesso gli dovrebbe venire un bel tumorone da un paio di chili e altri quattro anni di chemio e poi crepare a sto pezzo di merda». «Che facciano una sottoscrizione gli amici della Locride! Facciano la raccolta di farmaci scaduti, per aiutarlo nelle spese!». «Sai la gente che paga fior di quattrini nelle cliniche per dimagrire,senza nemmeno riuscirci: lui si è intascato un sacco di soldi e per di più è è diventato un figurino… due piccioni con una fava: che vuole di più?». «Per usare una metafora cristiana, anche se sono ateo, dato che Don Gallo e Padre Zanotelli sono sacerdoti dovrebbero sapere che il diavolo, quando decide di usare tutta la sua astuzia, si traveste da vittima, da indifeso, per sfruttare la pietà per i propri loschi scopi». «E già! Che furbo, lasciatelo in galera!». «Penso che sia evidente come questa “strana malattia” sia un altro espediente per farla franca come dimostrato di recente da un caso analogo. Peccato per Don Gallo e Zanotelli che corrono in soccorso di simili persone».
La serie delle citazioni potrebbe continuare. Si fa largo l’equivalente della discriminante etnica “Rom uguale a ladro”, qui aggiornata in “Chiriaco uguale a furbo”. Sono gli stessi pregiudizi forcaioli altrove coltivati dalla Lega o da Forza Nuova, forca brandita fra gli altri da chi la Costituzione preferisce forse difenderla con letture alla moda sulle piazze, invece che applicarla. Come lamentò Pietro Calamandrei, uno dei padri costituenti, purtroppo «una Costituzione non basta da sé sola a difendere la libertà e a dare impulso al progresso sociale, se non è animata dalla coscienza politica e dalla volontà del popolo» (in Cenni introduttivi sulla Costituente e sui suoi lavori, 1950). Gli fa eco Norberto Bobbio nella prefazione all’imperdibile Il carcere come scuola di rivoluzione di Irene Invernizzi, là dove parla «della violenza legittima, o, come si suol dire, delle istituzioni», precisando che la violenza «per essere legittima deve essere prima di tutto necessaria e come tale deve essere impiegata soltanto come extrema ratio», decretando così un discrimine tra ciò che è giusto e ciò che non lo è: nessuno «può credere che la risposta giusta alla malvagità individuale e occasionale sia la malvagità collettiva e istituzionalizzata, perché questa sarebbe la continuazione, anzi la sublimazione dello stato di violenza, l’instaurazione del regno del terrore» (p. IX).
E la mente torna alla “Bossi-Fini”, alla “Fini-Giovanardi” , alla “ex-Cirielli”. Sono leggi malfatte e dal dubbio profilo costituzionale, perché criminalizzano la povertà, la precarietà, la marginalità; leggi populiste e fuorilegge, volte a eludere problemi sociali – come le tossicodipendenze – da affrontare fuori dalle aule dei tribunali, o dinamiche mondiali come la globalizzazione degli umani: nel sistema penitenziario i tossicodipendenti sono 16.600, il 25 per cento (ma nel 2010 per le carceri ne sono passati ben 24mila!) e gli stranieri – 25.000 – sono il 37 per cento (fonte: Censis). A conti fatti, l’80 per cento dei detenuti mantiene un basso indice di pericolosità. Che dire poi dei reclusi in attesa di giudizio: sono il 40 per cento. Anche la carcerazione preventiva, da eccezione, si sta ormai trasformando in inquietante regola.
Che fare? Welfare penitenziario come in Svizzera o in Svezia? “Depenalizzazione ragionata” di alcuni reati minori? No, Grazie. Di fronte all’emergenza il Governo Berlusconi ha buttato un miliardo e mezzo di euro in nuova inutile edilizia carceraria (Decreto legge del 13 gennaio 2010, quattrini andati fra gli altri a due imprese coinvolte nello scandalo della ricostruzione dopo il terremoto in Abruzzo) tanto da aumentarne la capienza di 20.000 posti entro cinque anni. Una prospettiva miope, stante che la popolazione detenuta cresce di 800 unità al mese: come sottolinea Salvatore Verde, di questo passo «nel momento in cui sarà concluso il piano carceri avremmo più di 100.000 detenuti, e 60.000 posti letto» (p. 21). Beffardamente il nuovo piano di edilizia penitenziaria risulta «finanziato in parte con la “Cassa delle ammende”, un fondo che avrebbe lo scopo di sostenere programmi di reinserimento per i detenuti e interventi in sostegno delle loro famiglie» (p. 23).
Affollamento, negazione dei diritti, violenze… Le carceri italiane sembrano così sfuggire ad ogni ordinamento penitenziale e costituzionale, al punto che nel solo primo semestre 2011 hanno già perso la vita oltre 100 detenuti (e altri 66 erano morti nel 2010, a sommarsi a 1.134 tentati suicidi e 5.603 atti di autolesionismo). Sì, perché di carcere si può anche morire, come denuncia Samanta Di Persio in La pena di morte italiana: ragazzi come Carmine Parmigiano, 32 anni, morto a Rebibbia (Roma) il 30 giugno 2011 per «strangolamento auto provocato» (dal referto medico); come Giuseppe La Piana, 35 anni, morto nel carcere di Palermo il 3 luglio 2011 «per cause da accertare»; come il marocchino ventiquattrenne Abbedine Kemal, detenuto a Opera (Milano), morto il 15 giugno – recita la perizia – con il cranio fracassato da un colpo di mazza avvolta in un panno. Tutti ricordiamo il caso del romano Stefano Cucchi, 31 anni, morto nell’ottobre 2009 a Regina Coeli dopo essere stato malmenato; e Luca Campanale, 28 anni, impiccatosi con un lenzuolo ad una grata il 12 agosto 2009 nel penitenziario milanese di San Vittore. Ricordiamo anche persone come il varesino Giuseppe Uva, 43 anni, morto in ospedale nel giugno 2008 dopo aver trascorso la notte in una caserma per una semplice contravvenzione; immigrati come Sami Ben Garci, 41 anni, che si è lasciato morire il 5 settembre 2009 nel carcere di Pavia, dopo 52 giorni di sciopero della fame contro una condanna a 8 anni per violenza sessuale, che riteneva ingiusta. Sono solo alcuni dei 1.847 detenuti morti nelle carceri italiane dal 2000 a oggi (658 i suicidi, la cui frequenza è 21 volte superiore a quella della popolazione libera: una vera e propria strage). Per tacere del carcere come luogo d’incubazione della malattia, sia psichica che fisica (fonte: Centro studi “Ristretti orizzonti”, Padova).
Per molte persone costrette in un tale girone dantesco, la tortura fisica e psicologica declina ormai nella “condanna a morte” – preventiva o meno – o nel suicidio come «scelta di “libertà estrema”» (da una lettera collettiva dal carcere di Monza). Lo stesso tema ricorre in quest’altra accorata missiva del 15 maggio 2011, dal carcere di Torino:

Oggi, esattamente dalle 4.33, un uomo di 47 chili, 48 anni non ancora compiuti, dopo aver insistentemente chiamato, urlato, implorato per tre ore l’intervento di un medico, ha optato per “una scelta di libertà” e si è impiccato. Aveva i capelli grigi per un passato tormentoso e stava scontando una pena di 18 anni; ne aveva già pagati sei. Il processo era stato un processo indiziario basato su 100 grammi di stupefacenti. La galera lo aveva divorato, tanto che nel 2008, un collegio di periti gli aveva concesso gli arresti domiciliari. Era “evaso” per due ore, per soccorrere la figlia che aveva avuto un incidente. Al ritorno a casa aveva trovato i carabinieri. Chiarito l’episodio lo avevano riportato indietro. Tre mesi dopo gli vengono revocati gli arresti domiciliari. Si chiamava Vincenzo e portava un occhiale con la montatura povera di una plastica lattea, sotto cui ti fissavano due occhi grigi, tristi, buonissimi. Come me non usciva all’aria e quindi spesso camminavamo in questo corridoio di passi perduti. Mi parlava spesso di Gesù ed era sinceramente credente.
Un’equipe di sanitari, assolutamente incapaci; il 118 che impiega un’ora e dieci minuti per arrivare: mimando finte manovre di rianimazione si sono occupati del cadavere, poggiato sul pavimento.
Per chi fosse interessato, da domani saranno dunque disponibili due stampelle, una vedova, tre ragazzi e due bambini. Non sapremo mai se Vincenzo si sia suicidato per il terrore di un “collegio” cui avrebbe dovuto sottoporsi martedì, per le sue condizioni psicofisiche o perché le “ristrettezze” di una cella inducano a gesti di umana follia liberatoria.
Ho assistito a tutte le fasi, registrando l’incapacità del personale sanitario, medico compreso, che continuavano a non saper cosa fare. Per circa due ore sono rimasto ipnotizzato dalla scena. Qui si diventa “fratelli” non solo il sabato pomeriggio durante la messa, ma in ogni istante della giornata.
Ho quindi sbattuto per mezz’ora lo spioncino del blindato, rotto il bastone contro il muro, per un istante da solo, subito dopo tutti insieme urlando assassini. Poi sono entrato in cella ed ho pianto, pianto e ancora pianto, guardando una striscia di lenzuolo che uso come cinta per l’accappatoio, e alla fine con le “bimbe” in mano mi sono rassegnato e vergognato.
I veri assassini non sono quei poveretti, sanitari extracomunitari mal pagati, ma gli psichiatri, posti al vertice del comando sanitario e cordone ombelicale della procura. […] Se guardi le cartelle cliniche dei detenuti AS trovi per tutti gli stessi sostantivi, sempre! Vigile, orientato, collaborativo. Tempi dei colloqui da 1 a 2 minuti. Così ti riempiono di psicofarmaci che ti devastano la salute e ti riducono la vita di almeno 10 anni.
Sulla mia dall’inizio c’è scritto “manipolatore”. Dopo l’ultimo incontro in cui gli ho sparato in faccia quello che pensavo di loro ha pure aggiunto “arrogante e minaccioso”. Eppure non è difficile. Un servizio di psicoterapeuti che aiuti i detenuti ad affrontare consapevolmente la pena. Ma costa di più e non annienta “i criminali”.
C’è una tristezza nella nobiltà per quanto ci può essere una felicità nell’infamia. Una felicità maligna, come spesso accade tra coloro che si rappresentano potenti e che agiscono, godendo nel fare del male. Ho passato notti attraversando incubi per modellare le mie future vendette contro chi ha “partecipato” alla mia disgrazia. Ma rende felici ripagare la malvagità con la stessa moneta? No, e ancora no! Incupisce l’animo, affligge la vita, restringe la mente. Chi si forza alla cattiveria per ripagare i malvagi con la cattiveria divide con loro l’infelicità procurata, rischiando di assumersi l’intero carico.
Prego tutte le notti, i miei defunti di rimanere quel che sono sempre stato. Pago, forse, debiti contratti per aver vissuto meglio di quanto meritassi.
Con tristezza infinita. Sento ogni istante che passa la vostra mancanza ed il vostro amore.

Il detenuto suicida, il napoletano Vincenzo Lemmo, era in attesa del processo d’appello dopo una condanna per narcotraffico e favoreggiamento. Sarebbe rimasto in prigione fino al 2025.
Che fare dunque? Secondo Verde, si dovrebbe puntare ad «un sistema di controllo flessibile, dove le esigenze della sorveglianza si giocano sulla costruzione di un nuovo spazio detentivo ricco di opportunità di impegno, di formazione, di attività lavorative, di tempo libero». Sono le stesse aperture annunciate nel 2000 dal nuovo Regolamento di esecuzione dell’allora direttore generale delle carceri Alessandro Malgara. Come annota lo stesso Malgara, «il carcere riformato doveva realizzare una vita attiva negli istituti […] attraverso lo svolgimento delle attività che dovevano riempire la giornata: lavoro, scuola e formazione professionale, iniziative ricreative e culturali, mantenimento e miglioramento dei rapporti familiari. Questo carcere non è mai stato voluto e il processo che si sta completando è quello opposto: realizzare un carcere di sola contenzione, in cui il luogo di vita è la cella» (in Sorvegliare e punire, http://www.paroledigiustizia.it).
Quanto alla riduzione del numero degli incarcerati, l’indulto o la riduzione del 15 per cento della pena per i reati minori, nonché il ripensamento della custodia cautelare già consentirebbero notevoli passi avanti, contenendo altresì la ricaduta sociale (secondo il Ministero della Giustizia, solo il 29 per cento dei beneficiati dall’indulto ha nuovamente commesso reati, contro il 70 per cento di chi esce a fine pena).
Per i reati minori, sarebbe il caso di guardare almeno a forme alternative di detenzione, specie per chi è punito per il semplice consumo di droga o per i numerosi stranieri “clandestini”, ma solo dopo la “Bossi-Fini”.
E immaginando qualcosa di pratico da domani? In attesa che si affermi la figura del Garante dei detenuti, con facoltà di visitare gli istituti penitenziari senza autorizzazione (articoli 18 e 67 dell’ordinamento penitenziario), ciascuno di noi “adotti” un recluso male in arnese, mantenendo con lui rapporti almeno epistolari, segnalando all’Autorità giudiziaria, alla Corte per i diritti dell’uomo e all’opinione pubblica le violazioni ai diritti fondamentali (qualcosa di simile fecero molti intellettuali francesi prima della caduta del muro, in tutela dei dissidenti sovietici incarcerati).
In particolare, sembra ormai urgente focalizzare la nostra attenzione sui “non luoghi”, quei «territori a basso livello di definizione legale» dove si esercita, come scrive Salvatore Verde, «il potere di privazione e di limitazione della libertà personale» (p. 63). Sì, già che il controllo democratico «è eticamente giusto, politicamente necessario, umanamente urgente».

* di prossima pubblicazione sul n. 9 della rivista “Il primo amore”

Il carcere tra legge e umanità

23 ottobre 2011

Fabio Catalano Puma, Eva Chiriaco, Giovanni Giovannetti, Mario Pedrazzini,
Federico Rano e Carmelo Tindiglia discutono di carcere, carcerati e sistema carcerario
(con un’intervista a Iolanda Vitale, direttrice della Casa Circondariale di Pavia)

TargatoPV di Claudio Micalizio (TelePavia, 30 settembre 2011)

Non luoghi

20 ottobre 2011
di Giovanni Giovannetti

Carlo Chiriaco non è più internato nel braccio psichiatrico di San Vittore; finalmente l'hanno spostato nell'infermeria del carcere. Un ravvedimento benemerito, forse suggerito da chi lo ha preso in cura, già che altri, dal carcere punitivo di Monza, nonostante le numerose patologie organiche, lo avevano scaricato in quel surrogato dei vecchi manicomi criminali tra psicotici e malati di mente. Sono cose che capitano, sì, ma in pellicole come Gothika di Kossovitz o Qualcuno volò sul nido del cuculo di Forman, o in qualche remoto pertugio di mondo dove la vita umana conta poco o punto. E invece siamo in Italia, Paese in cui un tale trattamento inumano e discrezionale sembra ormai inquietante consuetudine in quelli che Salvatore Verde, nel suo libro Il carcere manicomio, definisce “i non luoghi istituzionali”; e «tra i luoghi più oscuri e degradati vi sono proprio queste sezioni o repartini psichiatrici che, ancor più dell'indecenza dei manicomi giudiziari, rappresentano talvolta una vera e propria eclissi di civiltà per il carcere di questo Paese».
E dire che dopo le lotte per il rispetto dei diritti costituzionali dei carcerati negli anni Settanta, si era fatto fronte al disastro depenalizzando alcuni reati e ponendo mano a leggi innovative come la Gozzini del 1986 (permessi premio, affidamento al servizio sociale, detenzione domiciliare per i condannati a pene sotto i tre anni e per i carcerati con meno di due anni da scontare; semilibertà per le pene detentive non superiori ai sei mesi o per gli ergastolani che abbiano già scontato almeno venti anni di carcere e 3 mesi l'anno di sconto della pena a chi avesse mantenuto un comportamento corretto in carcere, ecc.)
Negli anni che seguono sconteremo scelte politiche di segno opposto (come il taglio dei fondi per il lavoro, la formazione, la manutenzione dei fabbricati, l'assistenza e il sostegno psicologico ai detenuti) e normative «securitarie» come la “Bossi-Fini” (2002), che ha trasformato in delinquenti i numerosi stranieri “clandestini”, fino a ieri perseguibili con una semplice ammenda. O come la “Fini-Giovanardi” che, dal 2005, sostanzialmente ha posto sullo stesso piano spacciatori e consumatori, criminalizzando i “tossici”, deportandoli in carcere. O come la “ex-Cirielli” (2005), che ha sospeso le attenuanti generiche ai recidivi, allungando la detenzione e dunque la permanenza nel circuito carcerario (modifiche sconfessate dallo stesso primo firmatario, il senatore Salvatore Cirielli).
Sono leggi malfatte e dal dubbio profilo costituzionale, leggi fuorilegge volte a eludere problemi sociali – come le tossicodipendenze – da affrontare fuori dalle aule dei tribunali, o dinamiche mondiali come la globalizzazione degli umani: nel sistema penitenziario i tossicodipendenti sono 16.600, il 25 per cento (ma nel 2010 per le carceri ne sono passati ben 24mila!) e gli stranieri – 25.000 – sono il 37 per cento (fonte: Censis). A conti fatti, l'80 per cento dei detenuti mantengono un basso indice di pericolosità. Che dire poi dei reclusi in attesa di giudizio: sono il 40 per cento. Anche la carcerazione preventiva, da eccezione, si sta ormai rivelando inquietante regola.
Affollamento, negazione dei diritti, violenze… Le carceri italiane sembrano così sfuggire ad ogni ordinamento penitenziale e costituzionale, al punto che nel solo primo semestre 2011 hanno già perso la vita oltre 100 detenuti.

Ri-costituente

9 ottobre 2011
dei delitti e delle pene altrui
di Giovanni Giovannetti

«Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità». Così recita il terzo comma dell’art. 27 della Costituzione. Ma a quanto pare il dettato costituzionale è inapplicabile a Carlo Chiriaco – accusato di concorso esterno in associazione mafiosa e gravemente ammalato – forse perché sottoposto sì a pena, ma preventiva. Inapplicabile anche il secondo comma dell’art. 27, là dove i “padri” costituenti avvertono che «l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva»; inapplicabile soprattutto l’art 13 quando, nel penultimo comma stabilisce che «è punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà».
Come scrive Ernesto Bettinelli, «le norme appena citate non fanno che riprodurre quelle condizioni minime di umanità e di dignità per qualsiasi persona che sono all’origine del patto di convivenza» (nel suo bel saggio La Costituzione. Un classico giuridico, Rcs libri 2006, p.92). Il costituzionalista pavese enumera poi alcune “afflizioni supplementari”: «la custodia in luoghi malsani, sovraffollati e degradati che mettono a rischio la salute, l’integrità e la vita stessa di chi è imprigionato; un’assistenza sanitaria precaria o un inadeguato approvvigionamento di beni essenziali alla cura della persona; la privazione immotivata e irragionevole dei contatti con i propri congiunti; la carenza di informazioni sul “mondo esterno”». (more…)

Morire di carcere

4 ottobre 2011

Si chiamava Giuseppe La Piana e non aveva ancora 36 anni (li avrebbe compiuti il prossimo 10 agosto) il 100esimo detenuto che ha perso la vita nelle carceri italiane da inizio anno. “Stava mangiando – ha detto la vedova, signora Claudia – quando, così ci è stato riferito, ha accusato un malore ed è morto”. Il fatto risale a domenica scorsa ed è avvenuto nel carcere dei “Pagliarelli” di Palermo. Lo stesso giorno, nell’Opg (Ospedale Psichiatrico Giudiziario) di Aversa, in provincia di Caserta, un internato di 45 anni originario dell’Umbria (V.P. sono le sue iniziali) si accascia a terra e muore. Il personale in servizio non ha nemmeno il tempo di chiamare il 118. Il referto medico parla di “sospetto edema polmonare”, ma il magistrato dispone comunque l’autopsia. “Un malore improvviso – spiega la direttrice penitenziaria dell’Opg, Carlotta Giaquinto – non pare che ci fossero stati sintomi di una malattia pregressa”. La struttura che dirige “ospita” circa 250 internati e dall’inizio dell’anno sono morti in 7: tre si sono suicidati; uno, privo di denti, si è soffocato nel tentativo di inghiottire del pane; un altro è morto per problemi cardiaci; l’ultimo per una «sospetta setticemia». Carmine Parmigiano, 32enne originario di Salerno, era detenuto a Rebibbia (Roma) per scontare una pena relativa a reati di furto e scippo. Mentre si trova nel cortile per “l’ora d’aria” si scazzotta con altri due detenuti e per questo viene punito con 15 giorni da trascorrere in una cella d’isolamento, dove il 30 giugno viene ritrovato senza vita. Il referto cadaverico è chiarissimo: «strangolamento auto provocato». Anche Abbedine Kemal, marocchino 24enne detenuto nella Casa di Reclusione di Opera, sembrava essere stato vittima di un malore lo scorso 15 giugno. “Il fatto che registriamo è che il detenuto stava lavorando ed è caduto a terra, perdendo i sensi davanti a tutti”: così dichiara il direttore del carcere di Opera, Giacinto Siciliano ("Il Giorno", 24 giugno 2011). L’uomo, trasportato in ospedale in condizioni critiche, muore il 23 giugno. Il 3 luglio l’autopsia, eseguita dal medico legale Domenico Castaldo, dà un esito imprevisto: Abbedine è stato colpito con una mazza, o un corpo contundente rigido, avvolta in un panno per non lasciare tracce. Un colpo che gli ha devastato la scatola cranica e ne ha determinato la morte. Si tratta dunque di omicidio. Queste le ultime vittime di una lista che giorno dopo giorno inesorabilmente si allunga: nei primi 183 giorni del 2011 (esattamente metà dell’anno solare) nelle carceri italiane hanno perso la vita 100 detenuti: 32 si sono suicidati; dei rimanenti 68 (età media 35 anni) circa la metà è deceduta per “malori improvvisi” legati a disfunzioni cardiache, respiratorie, etc., mentre su 23 casi sono in corso inchieste giudiziarie miranti ad accertare le cause dei decessi. Se l’andamento dovesse proseguire anche nella seconda metà dell’anno a fine 2011 si registrerebbe il numero più alto di decessi della storia penitenziaria italiana, superando alche il “record” del 2010, quando si registrarono 186 “morti di carcere”. Nel 2006 e nel 2007, quando per effetto dell’indulto la popolazione detenuta era tornata nei limiti di capienza previsti per il sistema penitenziario, i detenuti morti furono rispettivamente 134 e 123 (minimo del decennio). Dal 2000 ad oggi il totale dei detenuti morti è di 1.847 (658 i suicidi), mentre tra il personale penitenziario si sono registrati i suicidi di 88 poliziotti, di un direttore (Armida Miserere, nel 2002 a Sulmona) e del Provveditore Regionale della Calabria (Paolo Quattrone, nel 2010).

(Osservatorio sulle morti in carcere, dati elaborati dal Centro Studi di “Ristretti Orizzonti”, Padova)

Soggiorno obbligato

19 febbraio 2011

Pino Neri è agli arresti domiciliari. Un cupo rintocco per i malaffaristi
di Giovanni Giovannetti

«Sarebbero tante le cose che vorrei dire e gli argomenti che vorrei affrontare, soprattutto quelli relativi ai rapporti con i politici locali che molto hanno occupato e occupano le cronache, anche quelle nazionali. Forse un giorno, con maggiore serenità, affronterò nel dettaglio ogni questione». Così scrive Pino Neri in una lettera inviata dal carcere di Opera al quotidiano locale, pubblicata l’8 dicembre 2010. Un messaggio chiaro, un “pizzino” a chi deve intendere. Vent’anni prima Neri ha subìto un trapianto di cuore e fra l’altro è periodicamente sottoposto a emodialisi. Com’è evidente, non è in salute, eppure più volte le sue istanze per l’ottenimento degli arresti domiciliari sono andate respinte. E così fino a pochi giorni fa: mercoledì 16 febbraio il capo della ‘Ndrangheta lombarda ha ottenuto l’agognato “soggiorno obbligato” nella sua villa al numero 8 di via Cavalier Maggi a San Martino Siccomario. Cosa è cambiato? Nulla, o forse tutto. Ufficialmente gli arresti domiciliari sono dovuti a motivi di salute; eppure, male in arnese il Neri lo era anche prima. Cosa può aver indotto il Gip Andrea Ghinetti a cambiare idea? Torniamo alla lettera: «Forse un giorno…» scrive Pino Neri, e prosegue: «Se un giorno troverò la necessaria serenità potrò sicuramente offrire un contributo valido per capire dove effettivamente si annida il centro del malaffare pavese». Forse quel giorno è già arrivato e le «tante cose» che Neri era ormai avviato a «dire e gli argomenti» che si disponeva ad «affrontare» sono stati infine detti e affrontati, «soprattutto quelli relativi ai rapporti con i politici locali che molto hanno occupato e occupano le cronache, anche quelle nazionali». Chiaro? Come è ipotizzabile Neri tace sulla ‘Ndrangheta, ma ogni altro argomento (dai rapporti con la politica ai “poteri forti”, pavesi e non) sembra ormai ghiotta merce di scambio tra lui e la Dda.
La Richiesta antimafia del 13 luglio scorso al Gip contiene riferimenti alla massoneria, all’urbanistica e al sistema sanitario; riferimenti insistiti ma coperti da omissis. Scontato ritenere che rappresentino altrettanti filoni dell’inchiesta, e alcuni potrebbero essere ormai alla conclusione e dunque, con il contributo di Neri, motivo per scoperchiare la pentola contenente i suoi compagni di merende accampati sotto la cupola di progetto bramantesco del Duomo pavese.
Roberto Rallo, avvocato di Pino Neri, smentisce la trattativa. E si capisce: Neri non è un “pentito”; sulla ‘Ndrangheta «si è avvalso della facoltà di non rispondere», così come su tutto il resto. Massoni e politici «che molto hanno occupato e occupano le cronache, anche quelle nazionali» dunque non hanno motivo di temere: l’avvocato tributarista ai vertici dell’organizzazione criminale è tornato a casa «per motivi di salute», recuperando in altro modo «la necessaria serenità».

Sami Ben Gargi

15 settembre 2009
41 anni, morto in carcere dopo uno sciopero della fame durato 52 giorni
di Giovanni Giovannetti

«Ciao amore, speriamo che tu stai bene, tanti auguri per il Ramadan. Speriamo ti porta fortuna e tanti auguri alla tua famiglia per il Ramadan e tanti auguri alla tua famiglia e tanti auguri a tutto il mondo musulmano per il Ramadan. Io sto muorendo. Sono dimagrito troppo, credimi, non riesco neanche ad alzarmi dal letto. Spero Dio che fai presto amore mio, però stai attenta a non dirlo a mia madre. Bisogna accettare il destino. Io ho ricevuto la tua lettera. Ti dico che mi dispiace io lo sciopero non lo tolgo, di questa vita non me ne frega niente, sto muorendo!!!».

Sami Ben Gargi 41 anni, muore davvero il 5 settembre 2009, dopo 52 giorni di sciopero della fame contro una condanna a 8 anni per violenza sessuale, da lui ritenuta ingiusta. L’8 agosto la direttrice del carcere pavese Iolanda Viviani scrive all’avvocato di Sami Aldo Egidi che «Le condizioni di salute del suo assistito sono costantemente monitorate dal personale medico qui in servizio». Il 10 settembre anche i compagni di cella nel carcere di Torre del Gallo scrivono ad Egidi, per raccontare la «lenta e umiliante» agonia di Sami: «Sicuramente non pagherà nessuno per questa morte, ma le assicuriamo che si poteva evitare benissimo, sarebbe bastato un pizzico di umanità in più. Era diventato come un prigioniero in un campo di concentramento, vomitava acidi e sveniva davanti agli occhi di tutti. Veniva aiutato da noi detenuti per fare la doccia altrimenti poteva morire nel suo vomito! Non è stato fatto assolutamente niente, tranne che lasciarlo morire nella sua cella sotto gli occhi del compagno che più di tutti ha visto spegnersi un essere umano!! La preghiamo vivamente di non arrendersi alle falsità che le verranno dette, perché il suo povero cliente è stato lasciato morire sotto gli occhi di tutti noi!
Prima di lui si era impiccato un altro ragazzo seminfermo e invalido al 75%, dopo averlo riempito di sedativi e spedito a San Vittore [Luca Campanale, 28 anni, impiccatosi il 12 agosto nel carcere milanese]». Secondo il medico del carcere pavese Pasquale Alecci «Privare un uomo della libertà di scelta avrebbe significato metterlo in carcere due volte…». Stupefacente. Secondo i suoi compagni «Sarebbe una bella e giusta cosa se l’indagine che verrà fatta si arricchisse anche delle testimonianze dei detenuti della prima sezione».