Archive for the ‘condividere il rischio’ Category
io so
24 gennaio 2009Lelia
20 dicembre 2008Normal
0
14
false
false
false
MicrosoftInternetExplorer4
st1:*{behavior:url(#ieooui) }
/* Style Definitions */
table.MsoNormalTable
{mso-style-name:”Tabella normale”;
mso-tstyle-rowband-size:0;
mso-tstyle-colband-size:0;
mso-style-noshow:yes;
mso-style-parent:””;
mso-padding-alt:0cm 5.4pt 0cm 5.4pt;
mso-para-margin:0cm;
mso-para-margin-bottom:.0001pt;
mso-pagination:widow-orphan;
font-size:10.0pt;
font-family:”Times New Roman”;
mso-ansi-language:#0400;
mso-fareast-language:#0400;
mso-bidi-language:#0400;}
Lelia non c’e più. Era una giovane e intelligente ragazza, idealista e buona. L’ho conosciuta nel 1973 tra le case di Montebaldo, l’estrema periferia sociale, mondo a parte della marginalità annisettanta. A Montebaldo 67 famiglie vivevano in stanze di ringhiera umide e fatiscenti (due per nucleo famigliare), senza gas e precariamente riscaldate con stufe a legna o a carbone o a kerosene. Cinque luridi cessi alla turca in comune davano su una ammorbante fogna a cielo aperto.
Lelia stava scrivendo la sua tesi di laurea L’altra società. Introduzione a una analisi di un quartiere marginale. Il quartiere è San Pietro, dove c’era la Snia Viscosa, la seconda fabbrica di Pavia dopo la Necchi. Io avevo eletto Milano Corea di Franco Alasia e Danilo Montaldi (Feltrinelli, 1960) a base teorica del mio lavoro “sul campo” tra quelle famiglie popolose e squattrinate, tra quel proletariato e sottoproletariato litigioso e analfabeta, a dirimere i frequenti conflitti che contrapponevano i “locali” ai numerosi “terroni” immigrati, i Rom di allora.
Sfoglio la tesi di Lelia. Nei primi anni Settanta San Pietro era un quartiere “rosso” abitato per il 70,28 per cento da operai: alle elezioni amministrative del 7 giugno 1970 il Pci aveva ottenuto 2.170 voti (in città: 16.619), tre volte più della Democrazia cristiana al governo (771; in città: 16.986). Un risultato che sarà confermato alle politiche del 7 maggio 1972 (2.304) e alle amministrative del 26 novembre 1972 (2.249). A quel tempo Pavia contava 88.839 abitanti (oggi sono 70.207), 6.867 dei quali risiedevano a San Pietro (censimento 1971). In quegli anni le fabbriche pavesi davano lavoro a 16.045 operai (48,04 per cento), 11.623 impiegati e dirigenti (34,8); 5.004 lavoravano in proprio (14,98) e c’erano 727 imprenditori e liberi professionisti (2,18). Oggi gli operai sono poche centinaia. A Montebaldo abitavano 211 persone (4,93 a famiglia), 35 anziani vivevano soli. 76 adulti erano del nord, 41 del sud (quasi la metà dell’immigrazione nel quartiere). 50 di loro erano pensionati e invalidi, 21 casalinghe, 3 disoccupati, 2 lavoratori in proprio e 34 operai, 28 dei quali in cassa integrazione. Solo in 4 erano in possesso della licenza di scuola media inferiore e in 34 della licenza elementare, 79 gli analfabeti. Il 45,4 per cento era affetto da malattie reumatiche, il 7,6 per cento aveva avuto la tubercolosi e il 33,3 per cento sopportava malattie alle vie respiratorie.
Leggo le storie che Lelia ha raccolto. A pagina 91 parla un vecchio del quartiere: «Di San Pietro siamo rimasti in pochi. In pochi anni ne sono arrivati di tutte le razze: meridionali e adesso anche stranieri, greci, arabi, profughi dalla Libia […] Tra i meridionali qualcuno si adatta alla voglia di lavorare, ma sono diversi da noi. Anche in negozio vengono qui e dicono: “faccia veder” e lo dicono quasi con prepotenza; poi se una cosa costa mille lire, loro offrono subito cinquecento. Un giorno un meridionale mi ha chiesto perché parlavo sempre dialetto pavese con loro e io gli ho risposto che dovevano imparare a parlare come noi, perché ormai di qui non vanno più via. Io non sono razzista, però non si riesce proprio a essere amici. Con qualcuno sì, ma è difficile e poi bisogna stare attenti perché alcuni non pagano. A me hanno sempre pagato, ma si sa, non sono come noi». Nel 1970 erano i meridionali, più recentemente gli stessi pregiudizi e luoghi comuni hanno preso di mira i Rom.
Il parroco di allora, don Elia, ricorda l’allontanamento dei Sinti dal quartiere, quando «tutti insieme si è trattato di cacciar via quegli zingari. Lo sai che qui c’era una tendopoli? E lo sporco che c’era… Non è tanto per l’odore, a quello si fa l’abitudine, è che andavano in giro continuamente a chiedere l’elemosina e poi si davano da fare… [intende dire che rubavano]». Puzzavano anche i Rom che quarant’anni dopo sono andati a vivere abusivamente nell’ex Snia senz’acqua corrente, ma dalla vicina parrocchia il prete l’ha negata persino ai pochi bambini che la mattina andavano a scuola.
Una donna: «Mio marito mi ha rotto la testa tre volte. Perché era un po’ bevuto e io ci ho gridato dietro. È certo che sono stufa: che, è “vita” questa qui?» Una violenza schifosa dietro pareti domestiche altrettanto schifose che non concedono intimità: «C’è la muffa dappertutto e poi noi dormiamo tutti e sei nella stanza di là e qua si mangia, si lavora, i bambini fanno i compiti, quella piccola gioca e poi non si capisce più niente».
Un immigrato pugliese: «Io ho sofferto molto perché la mia vita quassù non è come da noi e soffro ancora dopo tredici anni che sono qui. I miei figli hanno le amicizie, si trovano bene e forse non tornerebbero più giù, ma io tornerei ancora e se resto qui è perché ormai i miei figli sono tutti sistemati qui […] Ora io sono sistemato e ho anche una invalidità del 55 per cento perché, dopo aver lavorato nella Snia, sono stato ricoverato all’ospedale e mi hanno trovato intossicato e così mi hanno tolto dal reparto solfuri e mi hanno messo con le donne, che è sempre nocivo, ma un po’ meno. E adesso sono pensionato […] In tutti i paesi del Sud c’è un cartello con scritto “Cercasi operai per una grande fabbrica a Pavia”. Arrivano tantissimi emigranti, ma appena possono vanno via: non si resiste. La Snia paga bene ma toglie la salute […] Con le persone del Nord e con le persone di San Pietro mi sono trovato male. In tredici anni che sto qui non mi sono fatto un amico tra quelli del Nord: un po’ di razzismo c’è sempre. I “terroni” li vogliono mettere da parte, anche se alla Snia gli operai di prima categoria sono tutti meridionali e quindi vuol dire che i meridionali lavorano, perché il padrone non regala 25-30 mila lire al mese se non c’è la resa nel lavoro. Ma malgrado questo c’è sempre un po’ di razzismo di noi […] Il meridionale fa una brutta impressione perché arriva qua e non ha niente, ma quando si è sistemato diventa anche lui normale. Non si deve giudicare così: ci sono i buoni e i cattivi. Nel 1961/62 arrivavano al Nord a centinaia, con pochi soldi in tasca; se non si trovava subito un lavoro si poteva anche marcire dalla fame».
L’Italia che Lelia non ha fatto in tempo a raccontare
È un Paese transitato dagli anni di Tangentopoli e dell’affermazione di una classe politica sempre più traffichina e autoreferenziale, che ha eretto a suo modello gli imbonitori delle televendite. Ingenuamente, si pensava che il linguaggio menzognero fosse prerogativa dell’uomo di Arcore o retaggio della “retorica del consenso” nelle dittature del Novecento. Scopriamo che le cose non stanno così: il terrorismo delle parole vuote, la «mutazione della classe dominante», come l’ha chiamata Pasolini, trova sempre più spazio anche a sinistra. La sistematica irrisione delle norme civili, a partire da quelle elementari, è oggi moneta corrente in molte amministrazioni locali: scarti minimi, come il mancato rispetto delle regole, o sotterranei, come la compra del consenso dei media, sfilacciano il tessuto democratico fino a dargli progressivamente scacco. Coltivano l’interesse particolare, sono proni di fronte ai danarosi con mire speculative, ignorano le svolte epocali annunciate dall’arrivo dei nuovi migranti e inseguono gli umori della piazza, la stessa piazza che in una allucinante e pervasiva circolarità loro stessi sobillano. Hanno tragicamente alterato l’etica pubblica al punto da elevare a cultura prevalente il nuovo fascismo e il suo portato di razzismo e xenofobia, che senza ostacoli o freni inibitori si riversa dalla politica populista al senso comune: il terreno di coltura per un nuovo sovversivo «regime reazionario di massa» non diverso da quello descritto da Palmiro Togliatti in A proposito del fascismo (1928) e in Lezioni sul fascismo (1935). L’impoverimento del ceto medio europeo – in corso – può avere come esito il fascismo sotto altre forme.
Oggi al Nord emigrano solo le mafie globalizzate di un Paese che subisce un vistoso declino demografico (con 1,34 figli a coppia l’Italia è tra i primi al mondo per la bassa natalità, ma siamo tra i più longevi: l’età media, in costante aumento, è di 78,6 anni per gli uomini e 84,1 per le donne), reso meno evidente dall’arrivo di quasi 4.000.000 di nuovi immigrati – il 6,7 per cento della popolazione, il 9 per cento del Pil, 3,7 miliardi di euro in tasse, a fronte di una spesa sostenuta per loro di 1 miliardo.
In Italia gli immigrati sono 1 ogni 15 studenti e quasi 1 ogni 10 lavoratori occupati; un decimo dei matrimoni hanno un partner straniero, così come un decimo delle nascite vede entrambi i genitori stranieri. Quasi 800.000 minori, più di 600.000 studenti, più di 300.000 diventati cittadini italiani dal 1996, più di 150.000 imprenditori ed il doppio se si tiene conto anche dei soci e delle altre cariche societarie (fonte: Caritas Italiana-Fondazione Migrantes). Gli immigrati hanno un tasso di attività del 73 per cento: è di 12 punti più elevato degli italiani e sono creatori di ricchezza. Gli immigrati concorrono per il 9 per cento alla creazione del Pil (stima Unioncamere).
Il numero degli “stranieri” nati in Italia ammonta a 398.295 persone, il 13,5 per cento dell’intera popolazione straniera residente. In Italia larga parte dei fondi per l’immigrazione è spesa sul fronte del contrasto. La Finanziaria 2007 per la prima volta ha deliberato 150 milioni di euro per l’inclusione, 50 milioni di euro l’anno, spalmati sul triennio 2006-2009. Sono pochi: nella stessa Finanziaria, il Governo Prodi ha dirottato oltre un miliardo di euro sulle missioni militari all’estero.
Condividere il rischio. Siamo tutti Saviano?
28 ottobre 2008di Helena Janeczek
Dopo le ultime notizie su un possibile attentato a Roberto Saviano in stile “Strage di Capaci” – far saltare con l’esplosivo le macchine blindate sull’autostrada Napoli–Roma – e dopo l’intervista di “Repubblica” in cui dice di voler lasciare per un po’ l’Italia per riprendersi la sua vita, si è scatenata una gara di solidarietà di dimensioni impressionanti. Iniziative sui social network, letture collettive in piazza di Gomorra a Roma e Milano, cittadinanze onorarie, striscioni degli ultrà esposti allo stadio, un appello firmato da sei Premi Nobel che nella prima giornata raccoglie le adesioni di centomila persone. E molto altro, molto di più.
È qualcosa di imprevisto e di straordinario soprattutto laddove è divampato dal basso, dalle persone che hanno letto il libro o l’hanno comprato o che hanno soltanto visto Saviano in tv e ne hanno fatto quel che è ora: un simbolo di lotta alla mafia, un simbolo di coraggio. E probabilmente di qualcos’altro, perché i simboli veri non sono come i cartelli stradali che stanno per una cosa sola, ma si caricano e irradiano significato. Ed è fin troppo facile obiettare che per aderire a un appello via rete o anche trovarsi in una piazza lontana dalla provincia di Caserta non ci vuole molto coraggio, né si mette in moto un cambiamento, né si fa qualcosa di concreto per togliere una persona dal pericolo in cui si trova. Sono soltanto gesti simbolici che rispondono proprio su quel piano a chi, appunto, è diventato un simbolo.
Esistono alcuni che pensano che Saviano sia diventato quello che è adesso grazie al marketing editoriale o all’influenza dei media o a entrambi. Ma nulla si sarebbe messo in moto senza il libro né tanto meno avrebbe raggiunto queste dimensioni senza pubblico perché è quest’ultimo, in un movimento di feed back circolare, che continua ad alimentare le ristampe e tener aperti gli spazi su televisioni e giornali.
Quindi ha ragione Saviano quando dice che non è stato il suo libro a innescare una reazione da parte della camorra, ma il successo del suo libro, la trasformazione del suo libro e di lui stesso in qualcosa che riveste un valore simbolico per moltissime persone.
Pasolini scriveva che il successo è l’altra faccia della persecuzione e queste parole acquistano nel caso di Saviano una verità sinistra.
Credo che la realtà del pericolo che corre derivi ormai in una misura non meglio quantificabile dal valore che ha assunto, dalla notorietà raggiunta persino oltre ai confini dell’Italia.
È un fatto inaudito. La visibilità doveva avere un effetto protettivo, fargli – come si dice – da “scorta mediatica”, comunicare ai nemici di Saviano che se lo toccano, la reazione scatenata peggiorerà pesantemente le condizioni per condurre i propri affari in segreto e in silenzio. Secondo quella logica tradizionale nell’ambito delle mafie, ammazzare Saviano non conviene: piuttosto si aspetta un tot di anni, quando non avrà più la scorta e l’attenzione pubblica, quando quest’ultima lo avrà almeno in parte dimenticato. Allora lo si distrugge, preferibilmente con diffamazione, querele, mosse trasversali, e se proprio non bastasse, con le armi. Ed è ovviamente uno scenario sempre presente e non escluso dalla situazione attuale. Cosa che fa capire che cercare di destreggiarsi fra la troppa esposizione e il possibile oblio, debba essere per Saviano come navigare fra Scilla e Cariddi.
La logica della visibilità come protezione ormai non vale più senza riserve. I capi Casalesi in carcere si sono visti riconfermare gli ergastoli, le loro mogli – anche quella del latitante Antonio Iovine – sono state arrestate, Casal di Principe è presidiato dalla Folgore come un territorio occupato. Erano, fino al successo di Gomorra, un clan sconosciuto o di cui l’opinione pubblica non si interessava già a partire da Napoli. Ora qualsiasi loro azione, persino quelle non strettamente sanguinarie, rimbalza su giornali e telegiornali. Hanno poco da perdere, e l’idea che una volta tolto di mezzo Saviano, tutto tornerà come prima – magari non subito, ma basta aspettare- sembra possedere, a questo punto, una logica più stringente e una maggiore attrattiva. A questi uomini che si vedono come un potere assoluto, poter mostrare con un solo omicidio che detengono più potere di Stato, Premi Nobel, masse nazionali e internazionali, essere in grado di scatenare un putiferio anche politico, deve fare non poca gola.
Per questo, l’istinto e il buon senso suggeriscono di non scartare lo spauracchio della riedizione della Strage di Capaci soltanto perché il pentito ha poi smentito l’informazione sul presunto attentato raccolta da un poliziotto. Nella migliore delle ipotesi mi pare rappresenti quello che il clan avrebbe voglia di fare.
Chiunque abbia visto le interviste fatte da Repubblica tv o quelle di Matrix o delle Iene, si è reso conto che pure per il territorio dominato dai Casalesi, Saviano è un simbolo. Soltanto che è un simbolo negativo. A Casale – ma molto spesso anche a Napoli – Saviano è colui che è ti fa arrivare una sanzione se giri senza patente o senza casco, colui che è diventato famoso e venerato rovinando l’immagine della propria terra e affibbiando ai suoi abitanti l’immagine di mafiosi o di collusi, colui che si è arricchito senza aver fornito lavoro anche se nero o sporco, e non ha sganciato tangenti o soldi per i terreni trasformati in tombe di rifiuti tossici.
Magari quel che abbiamo visto o letto non è tutta la verità, magari c’è qualcuno che in segreto la pensa diversamente, ma non importa. Importa che quelle dichiarazioni rappresentino la versione a cui da quelle parti occorre o conviene conformarsi. Persino il parroco di Casale ha lanciato un anatema contro Saviano perché infanga il nome dei bravi e onesti paesani.
Basta aggiungere che accanto a un consenso negativo popolare intorno a Saviano, ci sono proprio nei luoghi che per primi dovevano essere scossi dalla sua denuncia, molti che si sentono sempre di più gettati nell’ombra dal fascio di luce che sembra ricadere tutto sul simbolo. Questi si trovano nello spettro di chi conduce la battaglia antimafia: dai magistrati ai testimoni di giustizia, dagli agenti delle forze dell’ordine ai militanti delle associazioni e così via. Giornalisti lamentano che Saviano avrebbe preso dai loro articoli e dalle loro inchieste, cosa che non avrebbe dato alcun fastidio se il libro l’avessero letto in 5.000 (la prima edizione di Gomorra aveva esattamente questa tiratura) e nemmeno in 50.000. Sarebbe infatti stato impossibile e grave se l’autore non avesse fatto tesoro delle informazioni raccolte anche aldilà della propria esperienza personale, ed è perfettamente normale che chi riporta semplicemente una notizia, non abbia bisogno di citare nessuna fonte: questo, a maggior ragione, per un libro che si colloca a cavallo fra saggistica e romanzo, fra esposizione di fatti e dati e narrazione.
Ciò che non scorgono queste persone – o che la loro frustrazione fa passare in secondo piano – è che si tratta del più classico meccanismo del divide ut impera, tra l’altro messo in moto senza nessun burattinaio, e che a isolare Saviano ci si crea un danno da soli facendo il gioco dell’avversario. Inoltre non sembrano vedere la cosa più banale e primaria, ossia che, pur nell’ombra di Saviano, l’attenzione a quel che fanno non sia mai stato tanto alta: mai così tante opportunità di pubblicare libri, fare film ecc sulla camorra (e persino sulla ‘ndrangheta fino ad allora quasi totalmente ignorata dall’attenzione pubblica), mai così tanto spazio nei mezzi d’informazione su arresti e inchieste, mai tanto impegno da parte dello stato nel territorio Casalese.
Ma già qui si intravede una sorta di equivoco. La Folgore che è a Casal di Principe – uso l’esempio come immagine esemplare, aldilà della valutazione sulla sua efficacia – non gira contemporaneamente a Platì e nemmeno a Secondigliano, e ammesso anche che si riuscisse a dare un colpo durissimo al clan dei Casalesi, non si avrebbe di certo ottenuto una vittoria su tutte le altre mafie che magari anzi godono dello sforzo concentrato da una parte come il proverbiale terzo fra i litiganti.
L’equivoco nasce dai piani di rappresentazione. Su quello basilare sembra trattarsi di una lotta fra Saviano e i Casalesi o, al massimo, fra Saviano e lo Stato e i Casalesi. Sembra che i Casalesi oggi “tirano” esattamente come un tempo facevano notizia solo i Corleonesi. In quest’equivoco che si autoalimenta ci casca pure l’editoria che pubblica libri sui Casalesi a cui sembra interessata solo una nicchia.
Perché, in realtà, al celebre scrittore londinese, alla casalinga di Voghera o allo studente di Treviso che cosa gliene importa alla fine di un dato clan campano? Non moltissimo, se non avesse intenzione di uccidere Saviano e se nella sua vicenda non fosse simboleggiato molto altro.
La libertà di parola, la fiducia nella verità e nella possibilità di dirla, il coraggio delle proprie azioni e convinzioni. E forse anche il meccanismo per cui la denuncia di certi clan reali, con nomi e cognomi, riesce a toccare per esteso le corde di chi in Italia si confronta con dinamiche “mafiose” in generale, cioè praticamente tutti. Credo che in questo paese vecchio, attanagliato da mille paure supposte o reali – dagli stranieri al pedofilo della porta accanto, dal latte contaminato alla recessione –, privo di fiducia nel proprio futuro e nella possibilità di uscire dal marciume, l’esempio di Saviano incontri soprattutto il desiderio di essere diversi da come si è realmente: non impauriti, asserviti, rassegnati. Eppure l’investimento simbolico su di lui sembra giocare un ruolo ambivalente. Ci si appaga nell’identificazione e nella preoccupazione per Saviano e si continua grosso modo a vivere come prima. D’altronde, cosa si potrebbe fare?
Purtroppo dire «siamo tutti Saviano» non basta, anzi l’effetto è in parte anche contrario a quello desiderato. Perché alla fine solo Saviano è Saviano, solo Saviano è quello sotto scorta, minacciato di morte, ricusato dal parroco di un paese che non ha pronunciato nulla di simile nei confronti dei boss. E voglio ribadirlo: Saviano non è ovviamente l’unico potenziale bersaglio delle mafie e non è l’unico a vivere sotto scorta, ma è un bersaglio privilegiato proprio in quanto simbolo. Più ci si schiera dietro al suo nome, più lui diventa simbolo e come simbolo diventa unico, diventa solo. E il fatto che così pochi lo appoggiano proprio laddove dovrebbe invece essere appoggiato primariamente, non fa che accrescere la pericolosità di questo meccanismo.
Chiunque abbia letto l’opera di René Girard centrata sulla funzione del capro espiatorio o conosca il mito e il rito del Re del Bosco analizzati dal Ramo d’oro di Frazer ha dimestichezza con la logica per cui figure investite collettivamente di un valore positivo e persino salvifico, siano per questa stessa ragione, destinate al sacrificio.
Ma come si fa a strappare una persona reale, non un simbolo, dal pericolo che sta con troppa evidenza correndo anche in questo senso?
Su Nazione Indiana abbiamo da sempre pensato che il modo migliore di stare vicini a Roberto era continuare a dare spazio alle tematiche che ha portato alla ribalta, anche e soprattutto se a scriverne erano altri, e cogliamo l’occasione per ribadire che Nazione Indiana è uno spazio aperto per chiunque voglia proporre un contributo. I Wu Ming con spirito simile hanno lanciato lo slogan di “desavianizzare” Saviano. Carla Benedetti e Giovanni Giovannetti sul sito de “Il primo amore” propongono di “Condividere il rischio” facendo e ospitando inchieste su temi non solo legati alla criminalità organizzata.
Tutto questo è giusto, però non illudiamoci: ormai non basta. Tutta l’attenzione e la maggiore facilità di accesso ai circuiti della comunicazione – dai blog, alle case editrici, ai telegiornali – che la fama di Saviano e del suo libro hanno innescato anche a beneficio di altri scrittori, giornalisti, documentaristi ecc., non hanno cambiato nulla su un certo piano. Si sono moltiplicate le voci di denuncia, ma Saviano è diventato sempre più simbolo.
D’altronde, non si può dire alla gente: tutto questo è certamente anche bellissimo, ma per favore state attenti. Da un lato perché nessuno si sveglia la mattina dicendosi «adesso di sto ragazzo che ho visto ieri sera a Matrix faccio il mio simbolo di un Italia migliore o di chi “ha le palle”». Del resto, le stesse persone – che siano scrittori famosi o gente comune non importa – hanno reagito con affettuoso buon senso alla sua dichiarazione di volersene andare, dando la priorità al suo desiderio di riavere una vita decente. Non è che perché uno è simbolo che non ci si rende conto che è prima di tutto una persona in carne ed ossa.
Ma soprattutto, pur con tutta la necessità di vederne gli aspetti rischiosi e ambivalenti, è giusto riconoscere che i bisogni simbolici sono bisogni profondi e reali, e il fatto che emergano con la loro portata utopica primaria, contiene in sé qualcosa di positivo: aldilà di ogni ricaduta concreta, di ogni possibilità che il semplice sentirli ed esprimerli possa bastare come appagamento e quindi diventi funzionale al mantenimento delle cose come stanno, e ovviamente aldilà di ogni manipolazione e strumentalizzazione della quale possono essere oggetto.
Eppure, pur con tutta la consapevolezza dei limiti e dei rischi, non basta fermarsi a questo. Bisogna cercare di capire quel che hanno fatto Gomorra e il “fenomeno Saviano” un po’ più concretamente.
Gomorra non è soltanto in assoluto il primo libro sulle mafie – inclusi quelli dedicati a Cosa Nostra, inclusa il volume intervista a Giovanni Falcone – ad aver ottenuto una simile diffusione in Italia e nel mondo. Gomorra ha soprattutto cambiato il modo di rappresentare e di vedere le mafie. Non più fenomeno locale, ma presenza ubiqua e interconnessa del mondo globalizzato. Non più intreccio fra potere criminale e potere politico, ma supremazia del potere economico al quale tutto il resto è subordinato. Quel che talvolta viene mosso come critica a Saviano, ossia aver riservato un ruolo marginale all’aspetto della collusione politica, è in realtà la condizione di partenza perché si fosse potuto verificare questo mutamento collettivo di consapevolezza.
Gomorra ha fatto questo:spostare lo sguardo dal sangue e persino dalla politica al business che è ovunque e rappresenta il cuore del potere criminale. Ed è, aldilà delle mafie, un grande e necessario aggiornamento ai tempi nostri, dove recentemente gli stati e la politica non hanno potuto fare altro che cercare di tamponare i disastri creati dall’economia, stavolta finanziaria.
Lo sguardo di Gomorra è la sua più grande novità. Ogni polemica su quel che Saviano possa aver preso da altri o su quel che «si sapeva già», manca il bersaglio perché non si rende conto che è stato Saviano, solo Saviano, a scorgere in quella materia una portata universale e trovare lo strumento per fare breccia con la sua visione delle cose e con la forza di coinvolgimento del suo racconto. Nessuno prima d’allora era arrivato a mostrare soprattutto questo, a far pervenire soprattutto questo come messaggio, a dirti: «non chiederti principalmente se Totò Riina si è baciato o meno con Andreotti, ma domandati piuttosto chi costruisce casa tua, come vengono raccolti i pomodori con cui fai la salsa, dove e come vengono smaltiti i rifiuti che butti nel bidone dell’immondizia».
Non erano cose di cui si interessava il lettore comune o il pubblico dei media, non erano nemmeno cose che sembravano riguardare da vicino i cosiddetti intellettuali, inclusi quelli impegnati. Pasolini probabilmente ha pagato con la vita il suo lavoro su Petrolio e il suo Io so che riguardavano comunque grandi intrecci fra politica e interessi multinazionali, non il subappalto del piccolo cantiere, non la proprietà di una pizzeria, non il racket subito dal negoziante. In breve: non il nostro quotidiano.
Su tutto questo c’è stata una sensibilizzazione che forse è l’inizio di qualcosa che cambia. I giornali non danno solo quell’attenzione a camorra e Casalesi di cui prima godevano solo i mafiosi siciliani (e comunque, per qualsiasi motivo, è preferibile essere informati su due organizzazioni criminali piuttosto che su una sola), ma concedono uno spazio prima impensabile a questioni come le mani dell’ndrangheta sui lavori per l’Expo di Milano (vedi gli articoli su “Corriere” e “Stampa”).
Noi non siamo Saviano e possiamo fare ben poco per tutelarlo. Ma, senza nessun eroismo, possiamo continuare ad allargare il solco che ha tracciato, continuare a ritenere che ogni indagine sul reale ci riguardi, possiamo trasformare tutto questo in una duratura e normale consapevolezza capace di non essere soltanto qualcosa di effimero: leggere – o scrivere – poesie e inchieste, articoli di cronaca e romanzi. Cambiare definitivamente postura rispetto a questo. Capire che le nostre democrazie sono congegni imperfetti e fragili, i cui valori e il cui funzionamento possono essere messe in scacco non solo dall’ascesa al potere di un dittatore; che non bisogna arrivare al regime totalitario, per finire per perderne di fatto dei grossi pezzi. Questo paese ne è un esempio particolarmente mal messo, ma la questione di fondo non riguarda solo l’Italia e il suo meridione. E al tempo stesso non dobbiamo nasconderci lo sgomento e il senso di impotenza che ci coglie quando scopriamo che Caserta sembra più lontana da Roma, più altrove, che Parigi o Milano.
Sapere che si possa fare poco. Ma farlo. Di modo che se Saviano se ne va per un po’ da un’altra parte, qualcosa di quel che ha aiutato a seminare continui a crescere e a radicarsi anche laddove non c’è mai stato uno specifico interesse per le mafie.
E infine, anche se il coraggio è quella cosa che non ci si può dare da soli, sarebbe bello se fossimo capaci a tirarne fuori un po’ di più: ovunque, in qualsiasi campo. Non per Roberto Saviano, soprattutto per noi stessi.
Pontevecchio Connection
26 ottobre 2008
da Pavia, Irene Campari
quarta e ultima parte
In uno studio di Federico Varese, pubblicato in inglese con il titolo How Mafias migrate: the case of the ‘ndrangheta in northern Italy, l’autore osserva che la presenza dell’organizzazione nel settore edile sia anche dovuta alla «debolezza delle imprese locali nel far fronte alla crescita della domanda nei momenti d’oro. Queste si affidano a imprese che non si fanno scrupolo di sfruttare il lavoro nero e precario dove la manodopera è soprattutto costituita da immigrati disposti a qualsiasi condizione di lavoro pur di averne uno. Da parte loro le imprese regolari sono ben felici di trovarsi nelle condizione di non dover pagare contributi e diritti». Inoltre, «la ’ndrangheta sarebbe entrata in questo business tramite la porta del soggiorno obbligato» (p. 427). In poche parole, dal soggiorno obbligato al controllo del mercato delle costruzioni il passo è stato breve.
Strade
L’unico Comune italiano del nord commissariato per infiltrazioni mafiose è quello di Bardonecchia. Al soggiorno obbligato in questa località negli anni Settanta c’erano Rocco Lo Presti e Ciccio Mazzaferro, entrambi di Gioiosa Ionica e appartenenti al clan Mazzaferro. Se volevi avere un lavoro a Bardonecchia dovevi cercare la protezione di Lo Presti che era arrivato a controllare anche le elezioni.
Il clan Iamonte opera a Monza dove è accertato operi anche la famiglia Mazzaferro, ben presente a Pavia con un suo “locale”. Entrambi, insieme, operano a Locri. Gli avvocati che Ciccio “Pakistan” ha richiesto in sua difesa sono uno di Locri e l’altro di Gioia Tauro. Ne hanno chiesto l’immediata scarcerazione per motivi di salute. Lo vogliono agli arresti domiciliari. Era agli arresti domiciliari a Pavia anche il braccio armato di Bidognetti, boss del clan dei Casalesi, Giuseppe Setola, fuggito da Pavia il 23 aprile scorso dove era in cura per una sindrome agli occhi alla clinica Maugeri, la stessa clinica nella quale era ricoverato Francesco Pelle. I Mazzaferro sono una potente ’ndrina di Marina di Gioiosa Jonica con ramificazioni al nord e all’estero (Germania, Belgio e Regno Unito). Sono alleati con le ’ndrine degli Ursini e dei Macrì e hanno contatti con i Barbaro i Calabrò i Bruzzaniti, i Morabito e i Raso-Albanese. Quesi ultimi sono presenti in forze in Liguria, ramo affari immobiliari, come del resto i Mazzaferro, diffusisi anche in Piemonte, Veneto e Lombardia. In Lombardiavi sono ben 15 “locali” oltre a quello pavese: 3 a Milano; uno a Appiano Gentile, Cermenate, Como, Fino Mornasco, Lentate sul Seveso, Lumezzane, Mariano Comense, Monza, Rho, Senna Comasco, Seregno, Varese. La specialità dei Mazzaferro è il traffico di droga (coca e hashisc). La stessa dei Pelle e probabilmente all’origine dell’arricchimento di Ciccio “Pakistan”.
I Mazzaferro hanno partecipato agli appalti per la costruzione del porto di Gioia Tauro, ai tratti della superstrada Jonio-Tirreno 106, e all’autostrada del Frejus (Fratelli di sangue di Nicola Gratteri, p. 136).
La gestione del Frejus è in concessione a Sitaf (Società Italiana Traforo Autostradale del Frejus) unitamente alla parte italiana del traforo, società delle holding di Marcellino Gavio. La sua finanziaria, Argo, scalò la Sitaf dopo il primo fallimento nella scalata alla Milano-Serravalle, e dopo che vendette a Penati (Presidente Provincia di Milano) il 15 per cento delle sue azioni. Poi la scalata gli riuscì, come quella alla Sabrom società promotrice della autostrada Broni-Mortara. Nel 2005, Gavio fu indagato per la scalata alla Sitaf. Gli inquirenti sospettavano che fosse avvenuta con accordo sottobanco con l’Anas.
Il 51per cento della Sitaf era di tre soci pubblici: l’Anas 31,7 per cento, Comune 10,6per cento e Provincia di Torino 8,7per cento. Ora è controllata da Astm spa una delle ammiraglie di Gavio. Il suo impero opera a Pavia tramite la società Codelfa, presente in città con una propria rappresentanza. Per la nuova Tav della Val di Susa, collegata al Frejus, di detriti da spostare ce ne saranno a tonnellate, all’amianto.
La dorsale jonica 106 da Taranto a Reggio Calabria, ha un budget di costi stimati in 15,3 miliardi per 491 chilometri, 415 in Calabria. È interamente dell’Anas. Le gallerie dell’attuale strada statale sono state aperte tra il 1993-94 dalla Rocksoil del Ministro Lunardi, che nel 2005 ha inaugurato personalmente il primo tratto pugliese a nord di Taranto. Ne sono state costruite solo alcune tratte. Collegherà il Porto di Gioia Tauro con quello di Taranto. Attraverserà tutta la piana e tutta la Locride. Intanto nel 2008, per permettere di togliere l’ici, Berlusconi ne ha fermato i lavori togliendo i fondi. Ma il 20 settembre scorso ha annunciato che avvierà nuovamente il progetto Ponte sullo Stretto, stoppato dal governo di centrosinistra, la cui gara era stata vinta da Impregilo che alternativamente costruisce strade e annessi con le maggiori coop rosse dell’edilizia (Cmc di Ravenna e Ccc di Bologna e Coopsette). Impregilo è stata messa sotto inchiesta per la gestione dei rifiuti nel napoletano quando era amministrata dalla famiglia Romiti, dalla quale Gavio e C. l’hanno acquisita. Gavio partecipa a Impregilo tramite la finanziaria Igli. Fino al 2006, in Igli c’era anche Techint e Sirti (insieme Te-sir) Efibanca, banca d’affari della Banca popolare di Lodi di Fiorani, insieme a Benetton. Techint ha poi venduto la sua quota in Igli a Ligresti. Igli aveva partecipato alla gara per il Ponte sullo Stretto quando nella società veicolo c’erano ancora Tesir e Efibanca-Bipielle. Efibanca deteneva più del 2 per cento della società armatoriale Moby Spa, oltre a quote in Sisal (15 per cento) e nella Fidia farmaceutici.
Expo2015
Il Giudice Salvini è preoccupato e ha consigliato al Sindaco di Milano Moratti di tenere alta la guardia. Penso debba rivolgere lo stesso invito anche al Sindaco di Pavia. La direzione nazionale antimafia dichiara che Milano è la vera capitale della ’ndrangheta. Pavia si dichiara da anni “sud di Milano”. Nelle Linee Guida del Piano di governo del territorio predisposto dall’assessore Sacchi è una collocazione che viene enfatizzata come naturale, oltre a quella ligure-piemontese (che richiama molto l’area di interesse di Gavio). Il 15 settembre, il “Corriere della Sera” riportava la notizia che erano indagati per tentativo di concussione dalla Procura di Busto Arsizio alcuni consiglieri di Forza Italia in merito ad appalti dell’Expo2015: «[…] Vincenzo Giudice, consigliere comunale a Milano e presidente della società Zincar, e di Massimilano Carioni, consigliere provinciale a Varese oltre che assessore all’Urbanistica a Somma Lombardo (Varese), comune dell’area Malpensa. L’ipotesi investigativa è che i due amministratori fossero in contatto con Giovanni Cinque, imprenditore ritenuto legato alla cosca Arena di Isola di Capo Rizzuto. A Cinque la Squadra Mobile è arrivata durante un’indagine sul traffico di droga, dalla quale é nato il nuovo filone d’inchiesta tenuto finora sotto traccia: l’uomo avrebbe addirittura orientato il voto della comunità calabrese di Somma Lombardo allo scopo di far eleggere Carioni alla Provincia, ad aprile di quest’anno, elezione poi avvenuta con quattromila voti. Sia Giudice sia Carioni negano ci sia stata alcuna attività collusiva. Cinque “non l’ho mai conosciuto – ha commentato Giudice – e non ho mai parlato con nessuno degli appalti per l’Expo 2015: del resto io che posso entrarci?”»
Secondo il giudice Guido Salvini il rischio che anche la ’ndrangheta possa mettere le mani sugli appalti è molto alto. Attenti all’Expo ci devono stare un po’ tutti. Le attività infrastrutturali previste per l’Expo2015 sono ingentissime e se dovesse persistere il sistema degli appalti alle imprese che pagano di meno i lavoratori saranno guai seri. Si tratta infatti di rifare gran parte delle autostrade della regione e aggiungerne di nuove: Cremona-Mantova, Tangenziale Est (Tem), Brebemi, Broni-Mortara, Pedemontana Lombarda (già aggiudicata ad Impregilo che ne era anche il proponente; di recente Impregilo si è anche aggiudicata la Pedemontana veneta. Per le società che hanno partecipato alle gare di aggiudicazione e ai progetti preliminari di tutte quelle infrastrutture si veda l’inchiesta Denti di ferro sulla banda laterale del blog, dove è anche ricostruito il ‘parto’ locale della Broni-Mortara).
Case e palazzi
Una delle ’ndrine che secondo la Commissione antimafia opera a Pavia, i Bellocco, ha investito non più di due anni fa in un intero quartiere di Bruxelles. Cosa volete che le costi fare anche qualche investimento qui? Semmai fosse interessata?
Rimanendo nell’ambito di indagini e spunti che ci offrono certe inchieste della Magistratura d’altri luoghi, tra la Liguria e il pavese si muoverebbero interessi immobiliari notevoli. L’entourage immobiliarista e logistico dell’ex presidente della Banca popolare di Lodi si è mosso a Pavia e sulla costa ligure investendo in villette e box tra Celle ligure, Cogoleto e Ceriale. Le società che hanno operato e che sono sotto inchiesta sono la Pmg riconducibile secondo gli inquirenti ad Ambrogio Marazzina e Giampiero Bruschieri, rispettivamente proprietario di parte dell’ex Necchi e amministratore delegato della LdL della Gruppo Marazzina che possiede 60.000 mq di logistica al Bivio Vela. Le inchieste liguri che hanno coinvolto i Marazzina sono partite da un immobiliarista ligure, Pesce, che, si scrive da più parti, sarebbe in affari con la famiglia Mamone (su questo sta lavorando la Casa della legalità di Genova), indicata dalla Commissione antimafia come appartenente alla Santissima. In affari con Mamone, tramite la società Valpolcevera 3, della famiglia Mamone, ci sarebbe anche Marcellino Gavio. I Mamone, tramite diverse società, si occupano di costruzioni e bonifiche ambientali e di suoli.
Ps. Robert Putnam in un saggio del 1993 dal titolo Making democracy work: Civic traditions in Italy (Princeton Univ. Press) sostiene che dove in Italia è rimasta una tradizione forte di risorse civili e sociali, la ’ndrangheta e le mafie hanno vita dura ad attecchire.
[Fine]
Pontevecchio Connection
23 ottobre 2008Per Saviano: condividere il rischio
19 ottobre 2008
Non basta dichiarare a Roberto Saviano solidarietà a parole, non basta lodarlo, non basta leggere in piazza pagine di Gomorra. Non basta nemmeno dire che egli è tutti noi. Ogni parola, anche sincera e intensa che noi possiamo pronunciare o scrivere in sua difesa o in sua lode è certo una cosa buona, ma non è proporzionale al rischio che egli sta correndo e continua a correre per aver osato sognare un paese diverso da questo, per aver avuto il coraggio e la libertà di appellarsi alla responsabilità civile e umana dei suoi concittadini.
L’unica cosa proporzionata al suo fare è fare come lui. Perciò sottoscrivo la proposta di Giovanni Giovannetti. «Dieci cento mille scrittori, giornalisti e intellettuali che raccontino le pratiche e le culture mafiose nei luoghi in cui vivono, ognuno con gli strumenti a sua disposizione…. Sporcarsi le mani, condividere il rischio, praticare l’assunzione di responsabilità. Nel nostro piccolo, qualcuno di noi lo sta già facendo. Non potranno ucciderci tutti».
Sul blog del Primo amore abbiamo creato una categoria apposita. Si chiama «Condividere il rischio». Questo sito è disposto a pubblicare le inchieste e gli articoli di chi vuole aderire a questa condivisione di rischio.
Vorrei anche che ci impegnassimo a promuovere un’iniziativa pubblica come quella che organizzammo a Milano tre anni fa assieme a Roberto, allora ancora un ignoto e coraggioso cronista-scrittore. Facciamo un secondo “Giornalismo e verità”, questa volta senza di lui, ma con lo stesso spirito, proseguendo e allargando il lavoro e inondando questo devastato paese con la sua stessa libertà e coraggio di prefigurare alternative all’esistente.
Alla proposta di Giovanni vorrei però aggiungere una cosa, provare a estenderla. La condivisione di rischio può andare più in là dell’inchiesta sulle mafie. Credo che anche chi non fa inchieste, anche chi si muove in altri ambiti e con altri strumenti abbia un compito altrettanto cruciale. Perché il punto davvero importante è riuscire a prefigurare alternative all’esistente, avere la libertà e il coraggio di pensarle, con tutti gli strumenti che abbiamo a disposizione.
Saviano non ha fatto solo inchieste e denuncie. È anche riuscito a trasmetterci il senso di un’intollerabilità per ciò che sta accadendo, e persino a farci sentire intollerabile la nostra stessa abitudine a considerarlo inevitabile. E su questo possiamo tutti lavorare condividendo il suo rischio. Non è vero che siamo impotenti di fronte a ciò che ci si presenta con il volto plumbeo e menzognero dell’ineluttabile. Non è vero che contro i poteri di morte che ci opprimono da ogni parte non si possa fare niente. «La paura è l’alibi maggiore» – scrive Saviano – e «non avere più paura non sarebbe difficile. Basterebbe agire, ma non da soli». Dalla possibilità che i suoi concittadini reagiscano, e con loro tutti gli italiani, mettendo in moto responsabilità civili e umane, riattivando energie buone ma a lungo sopite e represse, rigenerando forme di collettività e strutture di pensiero alternative, dipende ora la sua vita. Riuscire a lavorare in questa direzione vorrebbe dire fare qualcosa di proporzionale a ciò che egli ha fatto e continua a fare.
Vorrei tornare su questo argomento in un prossimo intervento, e spiegarmi meglio. Per il momento riporto le parole di Saviano dalla Lettera a Gomorra uscita su «Repubblica» del 22 settembre scorso: «Come abbiamo fatto a divenire così ciechi? Così asserviti e rassegnati, così piegati? […] Non posso credere che riescano a resistere soltanto pochi individui eccezionali. Che la denuncia sia ormai solo il compito dei pochi singoli, preti, maestri, medici, i pochi politici onesti e gruppi che interpretano il ruolo della società civile. E il resto? Gli altri se ne stanno buoni e zitti, tramortiti dalla paura? La paura. L’alibi maggiore. Fa sentire tutti a posto perché è in suo nome che si tutelano la famiglia, gli affetti, la propria vita innocente, il proprio sacrosanto diritto a viverla e costruirla. Ma non avere più paura, non sarebbe difficile. Basterebbe agire, ma non da soli. La paura va a braccetto con l’isolamento. Ogni volta che qualcuno si tira indietro, crea altra paura, che crea ancora altra paura, in un crescendo esponenziale che immobilizza, erode, lentamente manda in rovina. […] Chiedo alla mia terra se riesce ancora ad immaginare di poter scegliere. Le chiedo se è in grado di compiere almeno quel primo gesto di libertà che sta nel riuscire a pensarsi diversa, di pensarsi libera. Non rassegnarsi ad accettare come un destino naturale quel che è invece opera degli uomini. […] Bisogna trovare la forza di cambiare. Ora, o mai più».
Quello che segue è un passo di Simone Weil tratto da Prima radice. «Il rischio è un bisogno essenziale dell’anima. L’assenza di rischio suscita una specie di noia che paralizza in modo diverso da quanto faccia la paura, ma quasi altrettanto. […] La protezione degli uomini contro la paura e il terrore non implica la soppressione del rischio; implica invece la presenza permanente di una certa quantità di rischio in tutti gli aspetti della vita sociale; perché l’assenza di rischio indebolisce il coraggio al punto di lasciar l’anima, in caso di bisogno, senza la benché minima protezione interiore contro la paura. È necessario soltanto che il rischio si presenti in condizioni tali da non trasformarsi in un sentimento di fatalità».
Condividere il rischio
18 ottobre 2008Sant'Ilaria dei raccomandati
15 ottobre 2008«Per liberarsi dei Rom bisogna radere al suolo la Snia», disse il sindaco Capitelli; «L’esperienza dimostra che prima dell’arrivo delle ruspe spariscono tutti» disse l’assessore ai Servizi sociali Francesco Brendolise. Ricordarle ora, queste affermazioni suonano ancora più sinistre. Nulla importa loro dei vincoli, tantomeno dei monumenti patrimonioditutti: gli affari sono affari e qualche rischio è da mettere in conto.
Pontevecchio Connection
12 ottobre 2008L’altra ditta sotto inchiesta, la Scae, si era aggiudicata una gara per la realizzazione della segnaletica stradale, ma non ha mai eseguito i lavori: non era in grado di farlo. la Scae avrebbe esibito false credenziali: sarebbe un reato, sarebbe “turbativa d’asta”.
Pontevecchio connection
9 ottobre 2008Ciccio "Pakistan" era a Pavia da più di tre mesi, coperto da una rete di protezione locale e aveva molti soldi in tasca. Nessuno ha fatto domande sulla vera natura delle sue ferite. Del resto, nella clinica pavese ai degenti "eccellenti" devono essere abituati: Giuseppe Setola, lo spietato killer del clan dei casalesi, uno dalla mira infallibile, dopo la cattura si era fatto credere semicieco; il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere lo aveva mandato proprio a Pavia, così da consentire le "cure" presso il Centro di riabilitazione visiva della Maugeri.
Dal gennaio all’aprile 2008 Setola è stato agli arresti domiciliari in un appartamento di via San Marcello, poco distante dal Centro della Maugeri. Il 23 aprile il pistolero dei casalesi fugge dall’ospedale pavese e proprio allora comincia la carneficina: ne ammazza 16 in 4 mesi.
Chi controlla i ricoveri? Li controlla l’Asl, di cui Antonio Chiriaco è direttore sanitario. Sono noti i rapporti di Chiriaco con il clan calabrese dei Valle.
A Pavia tutti ricordano il rapimento del diciottenne Cesare Casella (18 gennaio 1988) e, prima ancora, quello di Giuliano Ravizza la sera del 24 settembre 1981, entrambi ad opera della cosca dei Nirta-Strangio. Casella rimase recluso in Aspromonte per ben 743 giorni, e già allora si parlò di "talpe" della ‘ndrangheta a Pavia. Venne poi liberato il 30 gennaio 1990, si dice anche grazie alla mediazione di un noto costruttore calabrese da anni residente in città.
Quella era la stagione dei sequestri. Ora siamo al "pizzo", all’usura, al narcotraffico: denaro sporco investito e ripulito in cliniche, alberghi, ristoranti, cinema, night, gioco d’azzardo, sale bingo, edilizia, appalti pubblici, escavazione, grande distribuzione, commercio, banche, borsa…
«La mafia non esiste» dicevano i boss negli anni Settanta; «A Pavia la mafia non esiste» fa loro eco il vicesindaco di Pavia ed ex "sbirro" Ettore Filippi. Filippi non è stato un poliziotto qualsiasi: trent’anni fa ha catturato i bierre Fenzi e Moretti, anche se la cosa non fu indolore, perché il suo "golaprofonda", un certo Longo, venne pizzicato dai carabinieri dopo una rapina e disse che era "coperto" dalla Questura, così Filippi ebbe guai con la giustizia che non ama ricordare. La carriera politica del vicesindaco rivela i suoi solidi ideali: nasce socialdemocratico, trascorre l’infanzia nel Partito socialista, l’adolescenza nel Partito liberale, la maturità in Forza Italia, la vecchiaia nella Margherita, e forse non morirà piddì.
Filippi non legge "La Repubblica", dunque non sa che «i gruppi siciliani dei Calaiò e dei Perspicace non si sono limitati a far arrivare dalla Colombia, via Spagna, fiumi di cocaina. […] Francesco Perspicace, nato a Caltagirone 48 anni fa, ma da un pezzo residente a Sant´Angelo Lodigiano, oltre a risultare tra i titolari di un´impresa di pulizie, ha una quota in "Servizi blu case – Iniziative immobiliari", gruppo con centinaia di collaboratori, sede principale a Villanova del Sillaro (Lodi), con uffici a Milano, Pavia e in Sardegna» (Davide Carlucci, 24 luglio 2008). La sede pavese di "Iniziative immobiliari" è in via Cerise 4. Stanno mettendo in vendita appartamenti e villette a schiera a San Martino Siccomario e Albuzzano.
Filippi non legge nemmeno il "Corriere della Sera": nel dicembre 2006 Alfio Scaccia scrive che il clan mafioso Rinzivillo di Gela, in Lombardia «fa affari a Brescia, Como e Pavia, e soprattutto a Busto Arsizio che, secondo gli inquirenti, era diventata una "Gela del varesotto"». Pavia è citata tra le basi operative dei i traffici illeciti, come il riciclaggio del denaro sporco: «I proventi di estorsioni e droga venivano infatti reinvestiti in attività apparentemente pulite».
A Filippi sono anche sfuggite alcune intercettazioni telefoniche tra membri del clan Rinzivillo, nelle quali Rossano Battaglia e Crocifisso (Gino) Rinzivillo parlano di lavori edili, di appalti e di un lavoro "grosso" dalle parti di Pavia:
Rossano -a inizio Aprile… dovrebbe iniziarne uno a Pavia!
Gino -dove?
Rossano -a Pavia!… vicino Pavia…
Gino – ah, ho capito!… ma è grosso come lavoro?
Rossano – buono è! Chiavi in mano!
Gino – ah, va bene!
Figurarsi se Filippi ha letto la relazione della Commissione antimafia sulla ‘ndrangheta (19 febbraio 2008) nella quale si segnala la presenza a Pavia dei clan Bellocco e Facchineri. Con notevole "nonsense of humor" il sindaco Capitelli ha chiesto all’ufficio urbanistico se questi nomi figurassero tra le ditte in gara negli appalti comunali…(Come se la mafia presentasse così le sue credenziali: «Piacere, Totò Riina, amministratore delegato di Cosa nostra…»).
Il vicesindaco ha invece letto l’illuminante libro di Nicola Gratteri e Antonio Nicaso Fratelli di sangue (Pellegrini, 2006); deve essersi però fermato a pagina 124, perché in quella successiva si segnala la presenza dei Barbaro e dei Platì ad Alagna Lomellina e a Pavia; e proseguendo, a pagina 187 si legge che a Pavia è presente la cosca Mazzaferro oltre ad esponenti del crotonese.
La ‘ndrangheta sta colonizzando la periferia sud di Milano, la nuova capitale immorale.