Dimenticare la valigia (di cartone)
di Teo Lorini
Da qualche anno Il fondo del sacco era nella mia libreria, sempre più impolverato, prossimo ormai ad essere relegato nel dimenticatoio dell’ultima fila. Quando mi capitava di intravederlo, mentre collocavo sul ripiano un altro volume, mi tornava in mente Il barilotto di Ammontillado e il personaggio di Fortunato, costretto ad assistere inerme mentre, uno dopo l’altro, si chiudono gli strati di mattoni che lo sigillano nel suo sepolcro. A differenza di Montresor, però, io non ero contento e anzi mi sentivo tremendamente in colpa perché quel libro è stato un dono, il pensiero di un caro amico per il mio primo Natale da emigrato.
Dopo averlo recuperato, ho poi trovato, infilato tra le pagine a mo’ di segnalibro, una cartolina e adesso mi piace pensare che questa stessa copia, che ora si è conquistata un posto sulla mia scrivania, sia stata già regalata tante altre volte e, chissà, forse tra un po’ sarà il mio turno di passarla al prossimo lettore…
Apparso nel 1970, il romanzo del poeta e maestro elementare Plinio Martini (1923-1979) è una fra le opere più celebri del panorama – in verità non vasto – della letteratura svizzera di lingua italiana. Anche per Martini però e anche per un’area come il Ticino, così attaccata alle proprie tradizioni e alla propria specificità, vale l’inesorabile sentenza evangelica sull’impossibilità di essere profeti in patria. In anni di insegnamento nelle scuole della Svizzera italiana, infatti, mi è successo di rado d’imbattermi in studenti che avessero affrontato Il fondo del sacco, testo quasi scomparso – poche e meritorie le eccezioni – dal novero delle letture canoniche. Peccato, perché tra i pregi di questo romanzo c’è anche quello di fornire una fotografia dolente e sincera di una regione passata in pochi decenni dalla povertà più aspra alla cospicua prosperità di oggi.
La fragilità della memoria storica non è prerogativa solo italiana: mentre entravo nel racconto di Gori, giunto fino alla California rurale per scappare dalla miseria e dalla fame nel paesino natale in Valle Maggia, mi venivano in mente le facce, i nomi, l’energia fervida di tanti allievi ticinesi che snocciolano, con tutta l’ingenuità della loro adolescenza, gli slogan xenofobi dei movimenti che in Ticino – proprio come in Italia – proliferano sulla rendita della paura e dell’insicurezza, «professionisti di questa sola professionalità, di tirare fuori il peggio dalle persone pescando nel torbido dell’inimicizia tra i gruppi umani». E che, in Ticino proprio come in Italia, lo fanno battendo sul tasto della presunta diversità ontologica ed etica fra i popoli dei paesi ricchi e quelli che invece arrivano spinti dal bisogno, a sbattere in faccia a noi – italiani, svizzeri, francesi ecc. – «le loro antiche facce da poveri, la loro disperazione e la loro puzza».
Il fondo del sacco è un romanzo molto influenzato dal neorealismo italiano a cavallo tra gli anni Quaranta e i Cinquanta, da Fenoglio in primo luogo. È un retaggio che, soprattutto nelle prime pagine, si fa sentire e strappa qualche moto di irritazione per le locuzioni più affettate («asciugarsi l’acqua dagli occhi», «scioglier le cigne della gerla» ecc.). Ma questo sentimento scompare presto di fronte all’urgenza e alla forza della materia narrata, ma anche perché Martini riesce quasi sempre a sbrigliare il suo stile dalle pastoie stilistiche, a osare fino in fondo, da narratore di razza. Come nel terzo capitolo dove passa in rassegna le innumerevoli morti che funestano la piccola comunità («i poveretti che se n’andavano in quattro e quattr’otto di grippe polmonite tisi galoppante appendicite in case di miseria col medico che stentava sempre ad arrivare… c’erano le frane e le valanghe… parenti nostri caduti travolti annegati e gente che non s’è trovata più… l’agonia di quel poveretto che dentro sopra Frodone dovette morire trentacinque ore dopo che era stato schiacciato fino all’inguine da un masso che non si poté smuovere…») e poi scioglie al cielo il memorabile Te Deum di Gori: «ti lodiamo signore per l’annata buona che è una grazia, o per l’annata grama che è una grazia non averla ricevuta peggiore; ti lodiamo per le castagne le rape l’acqua bollita [brodo di farina, sale e cipolle arrostite, tanto diluito da parere acqua sporca], e chi gli è caduta la vacca dal dirupo ti loda che non gli sia caduta la vitella in più. Tutti in fondo avevamo una ragione di lodare, i sani gli orfani i malati e quelli che saltavano i pasti, perché erano ancora vivi per tirare avanti con le tribolazioni di quelli che erano passati al numero dei più».
Il tema della morte attraversa tutto il libro, che si apre nel ricordo di Maddalena, promessa sposa di Gori portata via da una banale polmonite prima di poterlo raggiungere in California, e prosegue passando in rassegna i lutti di intere famiglie ostaggio di una precarietà e un’indigenza atavica. Ecco ed esempio come Martini racconta la sorte di Vittorina, sorella maggiore di Gori, morta a sette anni: «Nostra madre di Vittorina si fidava, anzi le aveva detto di badare al piccolo e al latte che era sul fuoco. Successe che a Vittorina, intanto che staccava il paiolo dalla catena cominciarono a bruciare le vesti; non se ne sarà accorta subito, quando si vide in fiamme uscí fuori di corsa gridando incontro a sua madre, e all’aria aperta divampò come una torcia; cadde poverina, e si alzò ancora per finire tra le braccia di sua madre che le correva incontro ma che ormai arrivava troppo tardi».
Sembra una descrizione presa di peso dalle cronache che raccontano le morti di bambini zingari bruciati nei loro carrozzoni: è impressionante pensare che invece questi fatti fossero all’ordine del giorno in una regione che, mentre scrivo queste righe, è in allarme per i miliardi di euro che giacciono nelle banche di Lugano e che il ministro Tremonti vuole riassorbire con il più spudorato dei condoni. Anche Gori, ormai adulto e anzi sulla via della vecchiaia constaterà come le cose siano rapidamente cambiate mentre lui era lontano, a faticare nei ranch californiani, e intanto l’onda lunga della "favorevole congiuntura economica" si diffondeva dalla Svizzera tedesca a far prospere le piccole città e infine anche le valli del Ticino: «Ne profittarono tutti, i bottegai, il prestinaio; gli osti cominciarono ad alzare la cresta e i prezzi; e i capretti, che una volta erano venduti a due franchi l’uno, e ancora a trovare il compratore, nel giro di pochi anni ebbero il prezzo cinque volte tanto, anche perché adesso c’era del lavoro pagato, i caprai, preferivano vendere il branco e cambiare mestiere», lasciandolo verosimilmente a quegli stranieri accusati spesso di rubare il lavoro, tollerati a fatica, bollati come facinorosi, violenti, rissosi, prima gli italiani, poi portoghesi e spagnoli, turchi, slavi, africani nella progressiva successione delle ondate di migrazione che sempre hanno spinto l’essere umano a muoversi per sopravvivere e cercare rifugio, calore, cibo, prosperità: «Emigriamo da sempre, siamo nati per quello, per farci svaligiare nelle strade d’Italia, per arrivare malvestiti a Parigi, per finire in Olanda a marcire di tisi e in Germania a morire di crepacuore. Anche Napoleone se l’è presa con noi, e con la scusa di averci liberati dai balivi ha portato la nostra più bella gioventù ad affogare nella Beresina… E dopo, l’Australia e la California, mesi di mare ammucchiati nelle stive, puzzolenti, pidocchiosi, consunt
i dalla fame e dalle malattie, e poi imprigionati nelle miniere o nei ranch, o in giro vagabondi per sterminate praterie, senza una donna e un campanile, perduti, orfani di tutto».
Le riflessioni più profonde e dolorose sono allora affidate al Giudice Venanzio. È questo personaggio borghese e istruito che si lascia andare a definire il Ticino con una onestà e una profondità dolorosa e senza filtri: «Chiuso a nord alle Alpi e a sud dal confine, il Ticino è come una forma di formaggio che non prende aria e fa i vermi; i vermi sono gli avvocati, i consiglieri, i galoppini dei consiglieri, i galoppini dei galoppini, e dietro i capimafia; che vuol farsi strada deve rinunciare in partenza alla propria dignità; i pochi onesti, quelli che capiscono, lasciano cascar le braccia e si tirano in disparte, mentre il popolo -ma siamo un popolo?- continua a votare per i medesimi partiti, come se in quel caso la fedeltà fosse una virtù; i nostri professionisti studiano nella Svizzera tedesca e se non si fermano là dentro portano fuori la moglie e ragionano in lingua mancina, da non sapere nemmeno più scrivere italiano…»
Se il Giudice Venanzio è la voce razionale del libro, il suo cuore pulsante sta tutto nell’intensità sentimentale con cui Gori rievoca la storia di una comunità prostrata e inerme, capace di gesti caparbi, come quello di Giuseppe Zan Zanini, l’artigiano semianalfabeta che strappa alle rocce più impervie il percorso di una «STRADA PER PASARE LE BESTIE BOVINE / FINO SULALPE LANO 1833», ma condannata dalla povertà, dall’ignoranza, dal bisogno all’oscillazione perenne nella zona d’ombra tra sopravvivenza e sopraffazione: il razionamento del cibo, le violenze fra le mura domestiche, l’alcolismo endemico, la scoperta del sesso che un amico di Gori descrive in una delle pagine più toccanti, appassionate e abrasive del libro:
«Io volevo bene a mia sorella; lei è sempre stata così buona con me: da piccolo mi aspettava, mi dava la mano quando andavamo a scuola, che pazienza aveva, e in chiesa mi aveva insegnato a stare con divozione e adesso la trovavo lì a far quel che faceva. Rimasi incollato alla porta; c’era il sole e faceva caldo; quando li sentii alzarsi ebbi appena la forza di sedermi sul prato cinque metri distante. Uscirono e non mi voltai nemmeno. Michele scantonò, ma mia sorella sentii che mi veniva vicino e mi guardava fisso; io la sbirciai appena, era ancora spettinata. «Hai guardato dentro nel fienile» disse con voce dolce, e io non risposi; lei per un po’ mi girò intorno e seguitava a guardarmi, mi pare ancora di veder le cavallette volar via dai suoi passi. Infine decise che avrebbe preparato il caffè. Scese in cascina e io la seguii; cominciò a canterellare in fondo alla gola; rifece il fuoco e mise l’acqua nel paiolo; l’appese; si moveva adagio, sopra pensiero; e poi prese un asciugamano: «Vado a lavarmi alla fontana» disse con la medesima voce di prima e uscí; dalla cucina c’è un finestrino che inquadra la fontana. E così potei guardarla com’era fatta alla luce del sole; era la prima volta che vedevo una donna nuda; Dio com’era bella; e intanto che la guardavo mi venne in mente che lo sapeva anche lei del finestrino. […] L’ho guardata tutta; c’era da diventar matto a vederle tremare i senti intanto che si asciugava; poi si rivesti, la veste cadde giù a nasconderla; ritornò in cucina, canterellava ancora, e io la guardai negli occhi, la guardai finché smise e voltò via. Allora cominciò a girare per la cucina, toccava ora una cosa ora un’altra e io le guardavo le mani sfiorare quegli oggetti…
– Rocco – lo pregai questa volta – perché mi racconti queste cose? –
– A qualcuno devo dirle, no? – gridò e si alzò come se volesse picchiarmi, ma poi tornò a sedersi voltandomi le spalle. E così cominciò a descrivere quel che successe dopo; come sua sorella fosse uscita a scaldarsi al sole; si era buttata sul prato e aveva tirato su la sottana dalla quale erano uscite le gambe, Rocco, incollato alla finestra; e poi come fosse salita nella stanza senza nemmeno chiudere la porta. Rocco aveva aspettato un certo tempo ed era entrato. «Soprattutto non credere che sono stata io a chiamarti» si era contentata di dire; e poi: «Adesso non andrai più a raccontarlo a nostra madre».
Sono cose che a raccontarle al galoppo come faccio ora è già troppo. Ma Rocco per me non l’ha avuto quel riguardo; la sua voce usciva dalla nebbia come una stregoneria e mi teneva; pareva non dovesse finire più; passo per passo mi raccontò una passione che li aveva avvinghiati, fratello e sorella, in un prato dannato dove non c’era che lo stridere delle cavallette sotto il sole, dove potevano essere sicuri che non sarebbe mai arrivata un’anima cristiana a sorprenderli, soli col loro desiderio sotto la volta del cielo».