Archive for the ‘immigrazione’ Category

Vomito

25 Maggio 2014

Angelo Ciocca marine de noartri

L’eroico balùba in un video rende noto lo “spontaneo” invito di alcuni migranti a non migrare… pagando i birbantelli 50 euro ciascuno. Lancia l’“Operazione mare nostro”, mostrando un tabellone… che gli crolla in testa. Prova allora a navigare contromano, rotta Africa… ma l'”Operazione mare nostro” miseramente fallisce causa vomito. Vomito forza sette…

Peto camuno

23 marzo 2014

di Carmen Silva*

Reduci dalla fiaccolata balùba di sabato 15 febbraio a Pavia contro immigrati, rifugiati e terroni, sabato 22 marzo alcuni amici e conoscenti di Chirichelli, Belsito e Pino Neri hanno rinnovato rutti e peti davanti a un residence alle porte di San Genesio, lì dove la Prefettura ha procurato provvisoria dimora fino a lunedì per sette profughi somali ed eritrei scampati a guerre e oppressioni, giunti a Pavia da Lampedusa dopo indicibili odissee umane, terrestri e marine.
Proprio come a Cascina Gandina presso Pieve Porto Morone nel 2007 (assedio ai Rom lì deportati da Pavia), tra i perditempo 
lumbàrd in notturno bivacco c’erano il segretario del carroccio Salvini, il senatore Centinaio, il sindaco di Mortara Facchinotti, il vicesindaco pavese Mognaschi, quelli di San Martino e Vigevano Bossi e Ceffa, il consigliere regionale Ciocca, il segretario provinciale Mura.
Anziché picchettare l’ingresso della Regione dopo l’arresto del capo di Infrastrutture lombarde Antonio Rognoni (a riprova della 
«diffusa illegalità» negli appalti lombardi che sta mettendo a rischio Expo 2015) gli incantevoli celoduristi depistano sui profughi, calano a San Genesio, controllano «che i sette non si ritrovino nei nostri negozi e tra la popolazione di San Genesio» (prosit).
E già che loro sono onesti e i meridionali e gli immigrati sono ladri e tutti i soldi vanno al sud e non a loro, allora dicano al “loro” presidente in Asm Pavia Giampaolo Chirichelli di restituire i pubblici quattrini su cui ha lungamente e indebitamente lucrato (e qualche pelosa cosina saremmo quasi a dirla anche sul più che laureato Ciocca; ma sia prima la Procura a… riferire); e lo dicano anche al Boni, al “Trota”, al Bossi, al Brignardì, al Belsito, al Bonet e a qualche altro loro coinquilino forse conosciuto al Cafè de Paris quota mafie in via Veneto di Roma ladrona. Di seguito, questo puntuale rendiconto dell’amica Carmen Silva. (G. G.)

Il fatto che il Sindaco di San Genesio sia stato informato dall’autorità competente dell’arrivo dei profughi destinati temporalmente al Ritz di San Genesio, in adempimento della direttiva emanata del Ministero dell’Interno, ha prodotto la mobilitazione di Protezione Civile, Polizia Locale, Asl; ha visto radunarsi il segretario vogherese, il sindaco di Mortara, il vice sindaco di San Martino, il vice sindaco di Vigevano, il vice sindaco di Pavia, un segretario cittadino, un segretario provinciale, un senatore, tutti della Lega, dotati di splendidi cartelli di benvenuto tradotti anche in lingue varie, il recupero di un trattore, preparare gli striscioni, piazzare un camion, il tutto in poche ore; efficienza prevista dal protocollo? (more…)

Risposta a don Cervio

2 marzo 2014

Sulla “Provincia Pavese” questa mia replica alle odiose farneticazioni del parroco di Albonese in risposta a un intervento sui migranti di Mimmo Damiani, lettere di seguito riportate.

Patrioti gli stranieri  di Giovanni Giovannetti

Caro don Cervio che non conosce la storia di uno come Mimmo Damiani (altrimenti non si azzarderebbe a dire così tante fesserie), patriota non è Lei ma gli stranieri. Gli immigrati vantano un tasso di attività del 73 per cento (12 punti superiore a quello degli altri italiani) e con il loro lavoro contribuiscono in misura del 9 per cento alla ricchezza nazionale: oltre 4 miliardi di euro di gettito fiscale, a fronte di una spesa sostenuta «per loro» di 1 miliardo, in larga parte sprecata per contrastarne l’immigrazione. Una visione miope, violenta e poco patriottica: fra l’altro, sulle spalle dei giovani nuovi arrivati grava anche la salute malferma dell’Inps, che senza di loro non saprebbe come pagare la pensione ai nostri anziani, affidati a oltre un milione di badanti (il doppio dei dipendenti del sistema sanitario nazionale) delle quali l’80 per cento lavora in nero.
Secondo recenti ricerche, i lavoratori stranieri assicurati (nell’insieme sono 2.727.254, il 12,9 per cento, un ottavo dei 21.108.368 lavoratori iscritti all’Inps) hanno versato nelle casse dell’ente previdenziale 7,5 miliardi di euro. Insomma, come si legge nel Dossier Statistico Immigrazione 2012 – 22° Rapporto Caritas e Migrantes, gli stranieri danno molto più di quanto ricevono, poiché i pensionati stranieri (110.000 persone nel 2010) incidono appena per il 2,2 per cento. Vista l’età media nettamente più bassa di quella degli italiani (31,1 anni contro 43,5), è un andamento destinato a durare per molti anni.
Il 63,2 per cento dei lavoratori immigrati assicurati opera alle dipendenze di aziende, oppure sono lavoratori domestici (17,6), operai agricoli (8,5), lavoratori autonomi (10,8). Dunque, ogni 10 lavoratori immigrati, 9 sono impiegati nel lavoro dipendente e uno solo svolge attività autonoma. (more…)

Immigrazione low-cost?

21 ottobre 2013

di Luis Alberto Orellana *

Al di là di come la raccontano, buona percentuale dell’immigrazione straniera dai Paesi extraeuropei non raggiunge l’Italia con “carrette del mare” ma in aereo e trimestrale visto turistico. Non a tutti è possibile, non in tutti i Paesi il visto è accessibile, come di seguito ben riflette il senatore Luis Alberto Orellana.

Stiamo assistendo a un dibattito pubblico sul tema della immigrazione degli stranieri in Italia. Tanti arrivano in maniera legale (visti di studio, cittadini della Unione Europea, visti di lavoro stagionale, etc.) ma tanti in modo illegale. Una parte di questi (non tutti) arrivano in una maniera che mette a rischio la loro stessa vita. Ne sono probabilmente consapevoli ma la disperazione è talmente forte che si affidano a scafisti senza scrupoli pur di sbarcare nella “fortezza Europa”.
Stiamo parlando di persone che, per la guerra in corso nel loro Paese, decidono di rischiare la vita facendo migliaia di chilometri attraversando il Sahara, arrivando sulle coste libiche e poi tentando l’attraversamento del Mediterraneo con le carrette del mare. Un viaggio della disperazione che può durare mesi se non anni e durante sono soggetti a vessazioni e rischi di vario genere. Un gran numero muoiono prima di arrivare in Libia purtroppo.
Abbiamo però ora chi ha trovato la soluzione per evitare tutto ciò!
Basta chiedere un visto turistico per l’Italia, prendere un volo low-cost et voilà ecco l’Italia, l’Europa e la salvezza, semplice, no?
Monia Benini infatti ci ricorda le condizioni economiche per ottenere un visto turistico. In pratica una cifra una tantum e una cifra per ogni giorno di soggiorno che per 90 giorni in Italia lei valuta inferiore a quanto le risulta chiedono gli scafisti per attraversare il Mediterraneo dalle coste libiche all’Italia. (more…)

Rispetto

14 ottobre 2013

di Fabrizio Bocchino *

Ai subgaranti New age che tuttora teleguidano il M5S, l’ultimo acido sembra andato di traverso: i morti di Lampedusa? «l’ipocrisia del momento sul tema immigrazione»; i parlamentari favolevoli alla cancellazione di “Bossi-Fini” e reato di clandestinità? «dei dottor Stranamore, in Parlamento senza controllo»; “Il Fatto Quotidiano”? «ha sostituito l’”Unità” come organo del PD (menoelle, ndr)». Fortunatamente tra i Cinquestelle c’è anche altro, a Roma e nel Paese. (G. G.)

Due post. Due errori. Un unico filo conduttore. Ieri giocavamo a fare i piccoli onorevoli, oggi siamo i dottor Stranamore senza controllo. L’uno è figlio dell’altro. E lo avevamo pure detto già alla prima occasione che quella era una strada senza uscita. Non siamo stati ascoltati, ed i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Un movimento sbigottito, confuso, diviso, proprio in un momento della sua vita in cui dovrebbe essere lucido, compatto, con una chiara visione del mondo. Fra i due post, in mezzo, ci siamo noi.
Noi portavoce che tra mille difficoltà e con grande serietà, tutta la settimana, lontano da casa e dagli affetti, cerchiamo di realizzare un programma o, più spesso, cerchiamo di emendare programmi fatti da altri avvicinandolo a quello nostro. Non da soli, si badi. Ma ascoltando quanti più attivisti, associazioni e portatori di interessi possibili raggiungibili con le nostre forze. È quanto è avvenuto nel caso di quell’emendamento, che ci ha fatto fare un passo in avanti nella direzione di un Paese civile, un emendamento di cui vado fiero come appartenente al gruppo M5S.
Ed in mezzo ci siamo anche noi attivisti che con altrettante difficoltà e serietà, tutti i giorni per strada cerchiamo di rispondere a domande su problemi che non abbiamo generato noi. Aspettando una piattaforma che sembra non arrivare mai. Per consultarci sul reato di clandestinità, certo. Ma anche sul tornare al voto col porcellum. Perché anche questo è un grande tema, e non si può consultare la rete un giorno sì ed uno no.
Si può rimediare? Certo che si può. A tutto c’è rimedio. C’è in programma una riunione con Grillo questa settimana. Ci si confronterà. E ripartiremo più forti di prima. Ma ci dovrà essere un cambiamento di direzione. Ci dovrà essere più rispetto reciproco e più chiarezza sul ruolo di ognuno. E, soprattutto, non ci dovrà essere un terzo errore.

* Senatore, M5S

L’articolo che segue – molto chiaro – è uscito su “Repubblica” sabato 12 ottobre.

Grillo, Casaleggio e la malapolitica  di Curzio Maltese

Per una volta a Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio possiamo dire soltanto grazie. Con il loro post, ormai giustamente famoso, sul reato di clandestinità i fondatori del movimento 5 stelle hanno infatti disvelato i meccanismi della disastrosa Seconda Repubblica e della mala politica italiana molto meglio che in centinaia di comizi. Trattandosi di persone geniali, sono bastate loro due righe. (more…)

Clandestinità

11 ottobre 2013

di Giovanni Giovannetti

«Se alle elezioni politiche avessimo proposto l’abolizione del reato di clandestinità il M5S avrebbe ottenuto percentuali da prefisso telefonico». Lo ha detto Beppe Grillo, con buona pace della ragione, dell’interesse nazionale e di ogni residuo di idealità, in linea col più becero-populista-opportunista leghismo sedimentato nel maroniano “pacchetto sicurezza” che, il 24 aprile 2009, introdusse l’odioso reato di immigrazione clandestina (clandestino diventava anche chi non poteva più disporre del permesso di soggiorno).
Maroni. Lo ricordate? Nel 2008, quando era ministro degli Interni, introdusse le impronte digitali ai bambini Rom. Per la parte relativa ai migranti, il suo pacco o “pacchetto sicurezza” venne anche condannato dalla Corte europea dei diritti umani. Anni in cui un comico genovese, in empatia o in concorrenza con Lega e ministro, dal suo blog già arringava i fedeli a credere obbedire e combattere i Rom, cazzeggiando di «sacri confini della Patria che la politica ha sconsacrato», di «immigrazioni selvagge» paragonate a un «vulcano, una bomba a tempo che va disinnescata», di «un Paese che scarica sui suoi cittadini i problemi causati da decine di migliaia di Rom della Romania che arrivano in Italia». (more…)

Il ritorno del Grullo

10 Maggio 2013

di Giovanni Giovannetti

Abbiamo da poco lasciato Beppe Grillo intento ad arringare i fedeli a credere obbedire e combattere i Rom, scrivendo di «sacri confini della Patria che la politica ha sconsacrato», di «immigrazioni selvagge» paragonate a un «vulcano, una bomba a tempo che va disinnescata» e altre balle paranoiche da lui condivise con la destra più forcaiola, ed eccolo nuovamente librare il suo svettante nanismo contro il diritto di cittadinanza agli stranieri, in particolare contro il diritto dei minori nati da noi a sentirsi “anche” italiani. E minaccia referendum, subito applaudito da La Russa.
Caro Beppe Grillo, mavadavialcù. In Italia vige lo Ius sanguinis, ovvero la cittadinanza si può acquisire solo per matrimonio o con 10 anni di residenza (5 per i rifugiati, 4 per i cittadini Ue) oppure, per i nati in Italia, qualora la cittadinanza venga richiesta tra il diciottesimo e il diciannovesimo anno, a patto che alla nascita siano stati immediatamente registrati all’anagrafe (con buona pace per i figli degli “irregolari”) e abbiano abitato in Italia senza interruzioni: «un sistema anacronistico» avverte Maurizio Ferrera sul “Corriere della Sera” del 10 febbraio 2013 «ingiustamente punitivo oltre che irragionevole sul piano economico, politico e sociale».
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Ci siamo anche noi

2 marzo 2013

Pavia, 1° marzo 2013

Se la Lega riempie le carceri

14 marzo 2012

di Manila Filella

L’inclusione nel sistema dei diritti di chi oggi è marginalizzato e/o straniero è forse la grande scommessa del nostro tempo. Una questione ineludibile, già che non pare arginabile la pressione esercitata da chi fugge da una guerra, dalla miseria o dalla carestia alla ricerca o nel miraggio di un riscatto esistenziale oltre che economico. Tuttavia – a destra così come a sinistra – si tende a guardare ai quattro milioni di nuovi immigrati come braccia, muscoli a cui ancorare in parte la “salvezza” economica di un Paese alla deriva (in Italia i lavoratori stranieri  hanno un tasso di attività del 75 per cento – 12 punti più elevato degli italiani – e concorrono per il 9 per cento alla creazione del Pil, equivalenti a 3,7 miliardi di euro in gettito fiscale). Facciamocene una ragione: i nuovi venuti non sono mera forza lavoro ma, detto in estrema sintesi, una decisiva occasione di interazione e scambio, di reciproco arricchimento tra esseri umani. (G.G.)

Il tema del sovraffollamento degli istituti penitenziari è un problema strutturale di estrema gravità nel nostro Paese e va risolto, utilizzando, per i reati minori, strumenti alternativi alla pena detentiva. Le nostre carceri sovrabbondano di stranieri, provenienti da nazioni al di fuori dell’Unione Europea, i quali, nella maggior parte dei casi, sono stati condannati solo per aver commesso il reato di clandestinità, in conseguenza della mancata ottemperanza nei termini ad un’ordine amministrativo.
Tutta la normativa sull’immigrazione, voluta fortemente dalla Lega Nord, presenta profili di illegittimità costituzionale ed incompatibilità con la normativa europea ed internazionale, oltre a porsi in contrasto con i diritti fondamentali della persona umana e l’intolleranza e la continua criminalizzazione tout court dello straniero, ed oltre ad essere discriminatoria, distoglie tempo, uomini e risorse economiche che dovrebbero essere impiegate per contrastare i fenomeni di criminalità organizzata, quelli sì, reati di maggior rilievo, non collegati ad un’etnia, e ad oggi il vero vulnus della Lombardia.
L’attuale impianto legislativo sull’immigrazione è complesso e la macchina burocratica determina continui ritardi nei rinnovi del permesso di soggiorno agli stranieri lavoratori regolari o addirittura dinieghi,spesso ai limiti della discrezionalità, sicché si diventa clandestini, perdendo il posto di lavoro e la dignità, ma non è concesso ad alcuno sostenere che in Italia tutti gli stranieri irregolari delinquono, stuprano, spacciano, perché questa è una pericolosa equivalenza, frutto di slogan propagandistici e demagogici.
Intasare le carceri di clandestini non vuol dire risolvere il problema, né sottoporli tutti a processi penali solo per essere entrati nel territorio italiano in modo non conforme ad una legge dal retrogusto xenofobo, né tantomeno è corretto rimpatriarli in blocco in condizioni degradanti, come è appena successo nella vicenda dei respingimenti libici, situazione nella quale abbiamo subito l’ennesima condanna dalla Corte Europea dei diritti umani di Strasburgo.
È necessario ripensare la normativa sull’immigrazione, semplificando e razionalizzando le procedure di rimpatrio, per stabilire quali stranieri possano rimanere in Italia regolarmente, ricordando che il nostro pil è anche merito e frutto dei loro lavori, spesso snobbati da noi italiani, e che nonostante le leggi regionali osteggino l’inserimento delle etnie diverse da quella italiana, i profumi, gli odori, le abitudini ed i cibi stranieri sono entrati a far parte anche della nostra tradizione, a partire dagli esercizi commerciali che propongono il kebab. A questo proposito, di recente mi è capitato, in un’iniziativa del Pd, di presentare, a Pavia, un libro molto interessante sul tema, curato da Antonello Mangano, autore anche del testo Gli africani salveranno l’Italia.
Nel titolo è già riassunta l’essenza e l’errata direzionalità delle nostre paure «Sì alla lupara, no al cous cous». Mentre la Lega vietava il kebab, la ‘Ndrangheta si mangiava la Padania. Mi auguro non vogliate unirvi al desco.

Accoglienza diffusa

27 marzo 2011
Rifugiati, una proposta semplice semplice

Un'odiosa felicità

25 luglio 2009
di José Saramago

Scagli la prima pietra chi non ha mai avuto storie di emigrazione a macchiare il proprio albero genealogico… così come nella favola del lupo cattivo che accusava l’innocente agnellino di intorbidirgli l’acqua del torrente da cui bevevano entrambi, se tu non sei emigrato, è emigrato tuo padre, e se tuo padre non ha avuto bisogno di cambiare posto è stato perchè tuo nonno, prima di lui, non ebbe altra scelta che andare, lasciandosi la vita alle spalle, alla ricerca del pane che la sua terra gli negava. Molti portoghesi sono morti affogati nel fiume Bidassoa quando, a notte fonda, tentavano di raggiungere a nuoto l’altro margine, dove si diceva che il paradiso della Francia cominciasse. Centinaia di migliaia di portoghesi hanno dovuto subire, nell’Europa chiamata colta e civilizzata oltre i Pirenei, condizioni di lavoro infami e salari indegni. Quelli che sono riusciti a sopportare le violenze continue e le nuove privazioni, i sopravvissuti, disorientati nel mezzo di società che li disprezzavano e umiliavano, persi in lingue che non potevano capire, sono riusciti a poco a poco a costruire, con rinuncie e sacrifici quasi eroici, moneta su moneta, centesimo su centesimo, il futuro dei loro discendenti. Alcuni di questi uomini, alcune di queste donne, non hanno perso né vogliono perdere la memoria del periodo in cui hanno dovuto patire tutte le vessazioni del lavoro mal pagato e tutte le amarezze dell’isolamento sociale. Siano lodati per essere stati capaci di preservare il rispetto che dovevano al loro passato.
Molti altri, la maggior parte, hanno tagliato i ponti che li legavano a quelle ore oscure, si vergognano di essere stati ignoranti, poveri, alle volte miserabili, si comportano, adesso, come se una vita decente, per loro, sia iniziata davvero solo il felicissimo giorno in cui si sono potuti comprare la loro prima automobile. Questi sono quelli che saranno sempre pronti a trattare con identica crudeltà e identico disprezzo gli emigranti che attraversano quest’altro Bidassoa, più largo e più profondo, che è il Mediterraneo, in cui gli affogati abbondano e servono da pasto per i pesci, se la marea e il vento non preferiscono trascinarli sulla spiaggia, fino a quando non arriva la guardia civile per togliere i cadaveri. I sopravvisuti ai nuovi naufragi, quelli che hanno messo piede sulla terra e non sono stati espulsi, avranno ad attenderli l’eterno calvario del pregiudizio, dell’intolleranza, del razzismo, dell’odio per la pelle, del sospetto, dell’umiliazione morale. Quello che prima era stato giudicato e che ha perso la memoria di esserlo stato, giudicherà. Quello che è stato disprezzato e finge di averlo dimenticato, raffinerà il suo stesso disprezzare. Quello che ieri è stato umiliato, umilierà oggi con più rancore. Eccoli, tutti insieme, a lanciare pietre a chi arriva dall’altro margine del Bidassoa, come se loro non fossero mai emigrati, o i genitori, o i nonni, come se non avessero mai sofferto la fame, la disperazione, l’angoscia e la paura.
In verità, in verità vi dico che ci sono certi modi di essere felici che sono semplicemente odiosi.

quadernodisaramago.wordpress.com

La nostra fragile memoria

20 luglio 2009
Dimenticare la valigia (di cartone)
di Teo Lorini

Da qualche anno Il fondo del sacco era nella mia libreria, sempre più impolverato, prossimo ormai ad essere relegato nel dimenticatoio dell’ultima fila. Quando mi capitava di intravederlo, mentre collocavo sul ripiano un altro volume, mi tornava in mente Il barilotto di Ammontillado e il personaggio di Fortunato, costretto ad assistere inerme mentre, uno dopo l’altro, si chiudono gli strati di mattoni che lo sigillano nel suo sepolcro. A differenza di Montresor, però, io non ero contento e anzi mi sentivo tremendamente in colpa perché quel libro è stato un dono, il pensiero di un caro amico per il mio primo Natale da emigrato.
Dopo averlo recuperato, ho poi trovato, infilato tra le pagine a mo’ di segnalibro, una cartolina e adesso mi piace pensare che questa stessa copia, che ora si è conquistata un posto sulla mia scrivania, sia stata già regalata tante altre volte e, chissà, forse tra un po’ sarà il mio turno di passarla al prossimo lettore…
Apparso nel 1970, il romanzo del poeta e maestro elementare Plinio Martini (1923-1979) è una fra le opere più celebri del panorama – in verità non vasto – della letteratura svizzera di lingua italiana. Anche per Martini però e anche per un’area come il Ticino, così attaccata alle proprie tradizioni e alla propria specificità, vale l’inesorabile sentenza evangelica sull’impossibilità di essere profeti in patria. In anni di insegnamento nelle scuole della Svizzera italiana, infatti, mi è successo di rado d’imbattermi in studenti che avessero affrontato Il fondo del sacco, testo quasi scomparso – poche e meritorie le eccezioni – dal novero delle letture canoniche. Peccato, perché tra i pregi di questo romanzo c’è anche quello di fornire una fotografia dolente e sincera di una regione passata in pochi decenni dalla povertà più aspra alla cospicua prosperità di oggi.
La fragilità della memoria storica non è prerogativa solo italiana: mentre entravo nel racconto di Gori, giunto fino alla California rurale per scappare dalla miseria e dalla fame nel paesino natale in Valle Maggia, mi venivano in mente le facce, i nomi, l’energia fervida di tanti allievi ticinesi che snocciolano, con tutta l’ingenuità della loro adolescenza, gli slogan xenofobi dei movimenti che in Ticino – proprio come in Italia – proliferano sulla rendita della paura e dell’insicurezza, «professionisti di questa sola professionalità, di tirare fuori il peggio dalle persone pescando nel torbido dell’inimicizia tra i gruppi umani». E che, in Ticino proprio come in Italia, lo fanno battendo sul tasto della presunta diversità ontologica ed etica fra i popoli dei paesi ricchi e quelli che invece arrivano spinti dal bisogno, a sbattere in faccia a noi – italiani, svizzeri, francesi ecc. – «le loro antiche facce da poveri, la loro disperazione e la loro puzza».
Il fondo del sacco è un romanzo molto influenzato dal neorealismo italiano a cavallo tra gli anni Quaranta e i Cinquanta, da Fenoglio in primo luogo. È un retaggio che, soprattutto nelle prime pagine, si fa sentire e strappa qualche moto di irritazione per le locuzioni più affettate («asciugarsi l’acqua dagli occhi», «scioglier le cigne della gerla» ecc.). Ma questo sentimento scompare presto di fronte all’urgenza e alla forza della materia narrata, ma anche perché Martini riesce quasi sempre a sbrigliare il suo stile dalle pastoie stilistiche, a osare fino in fondo, da narratore di razza. Come nel terzo capitolo dove passa in rassegna le innumerevoli morti che funestano la piccola comunità («i poveretti che se n’andavano in quattro e quattr’otto di grippe polmonite tisi galoppante appendicite in case di miseria col medico che stentava sempre ad arrivare… c’erano le frane e le valanghe… parenti nostri caduti travolti annegati e gente che non s’è trovata più… l’agonia di quel poveretto che dentro sopra Frodone dovette morire trentacinque ore dopo che era stato schiacciato fino all’inguine da un masso che non si poté smuovere…») e poi scioglie al cielo il memorabile Te Deum di Gori: «ti lodiamo signore per l’annata buona che è una grazia, o per l’annata grama che è una grazia non averla ricevuta peggiore; ti lodiamo per le castagne le rape l’acqua bollita [brodo di farina, sale e cipolle arrostite, tanto diluito da parere acqua sporca], e chi gli è caduta la vacca dal dirupo ti loda che non gli sia caduta la vitella in più. Tutti in fondo avevamo una ragione di lodare, i sani gli orfani i malati e quelli che saltavano i pasti, perché erano ancora vivi per tirare avanti con le tribolazioni di quelli che erano passati al numero dei più».
Il tema della morte attraversa tutto il libro, che si apre nel ricordo di Maddalena, promessa sposa di Gori portata via da una banale polmonite prima di poterlo raggiungere in California, e prosegue passando in rassegna i lutti di intere famiglie ostaggio di una precarietà e un’indigenza atavica. Ecco ed esempio come Martini racconta la sorte di Vittorina, sorella maggiore di Gori, morta a sette anni: «Nostra madre di Vittorina si fidava, anzi le aveva detto di badare al piccolo e al latte che era sul fuoco. Successe che a Vittorina, intanto che staccava il paiolo dalla catena cominciarono a bruciare le vesti; non se ne sarà accorta subito, quando si vide in fiamme uscí fuori di corsa gridando incontro a sua madre, e all’aria aperta divampò come una torcia; cadde poverina, e si alzò ancora per finire tra le braccia di sua madre che le correva incontro ma che ormai arrivava troppo tardi».
Sembra una descrizione presa di peso dalle cronache che raccontano le morti di bambini zingari bruciati nei loro carrozzoni: è impressionante pensare che invece questi fatti fossero all’ordine del giorno in una regione che, mentre scrivo queste righe, è in allarme per i miliardi di euro che giacciono nelle banche di Lugano e che il ministro Tremonti vuole riassorbire con il più spudorato dei condoni. Anche Gori, ormai adulto e anzi sulla via della vecchiaia constaterà come le cose siano rapidamente cambiate mentre lui era lontano, a faticare nei ranch californiani, e intanto l’onda lunga della "favorevole congiuntura economica" si diffondeva dalla Svizzera tedesca a far prospere le piccole città e infine anche le valli del Ticino: «Ne profittarono tutti, i bottegai, il prestinaio; gli osti cominciarono ad alzare la cresta e i prezzi; e i capretti, che una volta erano venduti a due franchi l’uno, e ancora a trovare il compratore, nel giro di pochi anni ebbero il prezzo cinque volte tanto, anche perché adesso c’era del lavoro pagato, i caprai, preferivano vendere il branco e cambiare mestiere», lasciandolo verosimilmente a quegli stranieri accusati spesso di rubare il lavoro, tollerati a fatica, bollati come facinorosi, violenti, rissosi, prima gli italiani, poi portoghesi e spagnoli, turchi, slavi, africani nella progressiva successione delle ondate di migrazione che sempre hanno spinto l’essere umano a muoversi per sopravvivere e cercare rifugio, calore, cibo, prosperità: «Emigriamo da sempre, siamo nati per quello, per farci svaligiare nelle strade d’Italia, per arrivare malvestiti a Parigi, per finire in Olanda a marcire di tisi e in Germania a morire di crepacuore. Anche Napoleone se l’è presa con noi, e con la scusa di averci liberati dai balivi ha portato la nostra più bella gioventù ad affogare nella Beresina… E dopo, l’Australia e la California, mesi di mare ammucchiati nelle stive, puzzolenti, pidocchiosi, consunt
i dalla fame e dalle malattie, e poi imprigionati nelle miniere o nei ranch, o in giro vagabondi per sterminate praterie, senza una donna e un campanile, perduti, orfani di tutto».
Le riflessioni più profonde e dolorose sono allora affidate al Giudice Venanzio. È questo personaggio borghese e istruito che si lascia andare a definire il Ticino con una onestà e una profondità dolorosa e senza filtri: «Chiuso a nord alle Alpi e a sud dal confine, il Ticino è come una forma di formaggio che non prende aria e fa i vermi; i vermi sono gli avvocati, i consiglieri, i galoppini dei consiglieri, i galoppini dei galoppini, e dietro i capimafia; che vuol farsi strada deve rinunciare in partenza alla propria dignità; i pochi onesti, quelli che capiscono, lasciano cascar le braccia e si tirano in disparte, mentre il popolo -ma siamo un popolo?- continua a votare per i medesimi partiti, come se in quel caso la fedeltà fosse una virtù; i nostri professionisti studiano nella Svizzera tedesca e se non si fermano là dentro portano fuori la moglie e ragionano in lingua mancina, da non sapere nemmeno più scrivere italiano…»
Se il Giudice Venanzio è la voce razionale del libro, il suo cuore pulsante sta tutto nell’intensità sentimentale con cui Gori rievoca la storia di una comunità prostrata e inerme, capace di gesti caparbi, come quello di Giuseppe Zan Zanini, l’artigiano semianalfabeta che strappa alle rocce più impervie il percorso di una «STRADA PER PASARE LE BESTIE BOVINE / FINO SULALPE LANO 1833», ma condannata dalla povertà, dall’ignoranza, dal bisogno all’oscillazione perenne nella zona d’ombra tra sopravvivenza e sopraffazione: il razionamento del cibo, le violenze fra le mura domestiche, l’alcolismo endemico, la scoperta del sesso che un amico di Gori descrive in una delle pagine più toccanti, appassionate e abrasive del libro:
«Io volevo bene a mia sorella; lei è sempre stata così buona con me: da piccolo mi aspettava, mi dava la mano quando andavamo a scuola, che pazienza aveva, e in chiesa mi aveva insegnato a stare con divozione e adesso la trovavo lì a far quel che faceva. Rimasi incollato alla porta; c’era il sole e faceva caldo; quando li sentii alzarsi ebbi appena la forza di sedermi sul prato cinque metri distante. Uscirono e non mi voltai nemmeno. Michele scantonò, ma mia sorella sentii che mi veniva vicino e mi guardava fisso; io la sbirciai appena, era ancora spettinata. «Hai guardato dentro nel fienile» disse con voce dolce, e io non risposi; lei per un po’ mi girò intorno e seguitava a guardarmi, mi pare ancora di veder le cavallette volar via dai suoi passi. Infine decise che avrebbe preparato il caffè. Scese in cascina e io la seguii; cominciò a canterellare in fondo alla gola; rifece il fuoco e mise l’acqua nel paiolo; l’appese; si moveva adagio, sopra pensiero; e poi prese un asciugamano: «Vado a lavarmi alla fontana» disse con la medesima voce di prima e uscí; dalla cucina c’è un finestrino che inquadra la fontana. E così potei guardarla com’era fatta alla luce del sole; era la prima volta che vedevo una donna nuda; Dio com’era bella; e intanto che la guardavo mi venne in mente che lo sapeva anche lei del finestrino. […] L’ho guardata tutta; c’era da diventar matto a vederle tremare i senti intanto che si asciugava; poi si rivesti, la veste cadde giù a nasconderla; ritornò in cucina, canterellava ancora, e io la guardai negli occhi, la guardai finché smise e voltò via. Allora cominciò a girare per la cucina, toccava ora una cosa ora un’altra e io le guardavo le mani sfiorare quegli oggetti…
– Rocco – lo pregai questa volta – perché mi racconti queste cose? –
– A qualcuno devo dirle, no? – gridò e si alzò come se volesse picchiarmi, ma poi tornò a sedersi voltandomi le spalle. E così cominciò a descrivere quel che successe dopo; come sua sorella fosse uscita a scaldarsi al sole; si era buttata sul prato e aveva tirato su la sottana dalla quale erano uscite le gambe, Rocco, incollato alla finestra; e poi come fosse salita nella stanza senza nemmeno chiudere la porta. Rocco aveva aspettato un certo tempo ed era entrato. «Soprattutto non credere che sono stata io a chiamarti» si era contentata di dire; e poi: «Adesso non andrai più a raccontarlo a nostra madre».
Sono cose che a raccontarle al galoppo come faccio ora è già troppo. Ma Rocco per me non l’ha avuto quel riguardo; la sua voce usciva dalla nebbia come una stregoneria e mi teneva; pareva non dovesse finire più; passo per passo mi raccontò una passione che li aveva avvinghiati, fratello e sorella, in un prato dannato dove non c’era che lo stridere delle cavallette sotto il sole, dove potevano essere sicuri che non sarebbe mai arrivata un’anima cristiana a sorprenderli, soli col loro desiderio sotto la volta del cielo».

Davanti al mare di Portopalo

2 luglio 2009
(e se superi la prova ardua del mare, poi ti tocca l’attesa del muro)
di Marco Ciriello

Alba con cane. Potrebbe essere il titolo di un racconto di Richard Ford, invece è il mio inizio, nel senso di come è cominciata la giornata a Portopalo. Quando sono arrivato sulla spiaggia era notte fonda e non c’era nessuno. Ho attraversato il paese fino al mare, camminato un po’, e dopo sono tornato in macchina a dormire. Ho girato l’auto puntando l’Africa, poi son crollato. Capo Passero è la culla del mio sonno frammentato. Sulla sinistra c’è la Grecia, di fronte la Libia, sulla destra la Tunisia, a poche bracciate l’isola di Malta. Cado, riordinando la mappa geografica della mia immaginazione. Quando ho riaperto gli occhi era l’alba e appena lasciato l’auto c’era il cane. Sembrava stare lì apposta e da tempo, custode del mio sonno e pronto a scortarmi, mi ha seguito lungo la spiaggia, e poi fino al faro. È passato come me silenzioso e discreto fra i giostrai che ancora dormivano, avvolti e miti come dervishi stanchi. Ha visto i pescatori armeggiare con le reti e l’apertura dei bar, guadagnandosi la colazione come un amico di vecchia data che abita qui e mi è venuto a prendere per accompagnarmi in questa passeggiata mattutina. È un bastardino di pelo rossiccio e occhi di brace, ma non abbaia, si lascia accarezzare e non è ruffiano, fossimo in Russia e non sulla punta orientale della Sicilia direi che è un diretto discendente di Kastan’ka il cane di un racconto di Cechov. Un ottimo improvviso compagno, in un giorno che ha i toni del grigio anche se in cielo c’è un rosa a strati mescolato alle nubi e al blu che si va schiarendo man mano che il giorno avanza. C’è un leggero vento, non fastidioso, è la musica del mattino e gioca a favore della malinconia.
Non mi va di fare il bagno in queste acque. Quando Pasolini arrivò quaggiù erano immacolate, l’Africa ancora terra madre, fascino e mistero. Se ti allunghi la senti respirare affannosa, l’Africa, oltre il mare e se guardi a cuore allora puoi anche vedere i morti di Portopalo, i loro corpi in fondo al mar, i pesci che piluccano, l’acqua che consuma e non lenisce il dolore e il relitto della nave, era la notte di natale e questa non è una storia d’estate. Per oggi il suo nome è ricordare.
Per quanto il mare si muova, accavalli le onde, scrosci e si infranga sulla costa, e i pescatori continuino a guardare dall’altra parte: i morti son lì e se ti sforzi li senti, li vedi, li tocchi. Se ti sforzi il mare bruno si fa chiaro, invisibile e te li lascia vedere e se non sai guardare a cuore allora leggi Giovanni Maria Bellu (che ha scritto il libro I fantasmi di Portopalo) e li scorgi fra le sue parole, un giornalista sardo e tosto, coraggioso e caparbio che li ha fatti vedere a tutti per un lunghissimo momento, poi si son voltati di nuovo da un’altra parte, ma non possono più dire: non sapevo, non riuscivo a guardare a cuore, non li avevo visti.
Questa storia è un buco nella pancia del Mediterraneo, trecento migranti morti, venivano dall’India, dal Pakistan, dallo Sri Lanka e avevano nomi e vita e sogni, e fiato e determinazione ma il mare se li è presi, lo stato li ha lasciati laggiù, i pescatori di questo paese non hanno detto nulla per non rovinarsi la piazza, il naufragio è diventato fantasma, e io il bagno non riesco a farlo qui, e nessuno dovrebbe farlo, almeno fin quando laggiù ci sono quei corpi, e vorrei urlarlo alle persone che hanno preso casa sulla spiaggia e ora si accingono a scendere e passare, bagnarsi, senza ricordare.
E questa indifferenza, questa leggerezza, questa disinvoltura nell’ignorare una tragedia simile ha del grottesco, va oltre le storie di Leonardo Sciascia, tanto che non riesco a parlare con nessuno, mi infastidiscono i pescherecci e i loro laboriosi e omertosi mammiferi che a testa china si affaccendano senza crollare sotto il peso di questa omissione. No, non riesco a fermarmi qui.
Mi congedo dal cane, e riparto.
Percorro a ritroso la strada che affaccia sul mare scuro, che non avevo visto quando sono arrivato. La costa è pietrosa, ancora parzialmente selvaggia. C’è una bellezza primitiva intaccata a fondo dallo sviluppo dei nuclei urbani e forse queste escrescenze partono dalle spiagge fino ad arrivare alle coscienze.

A Pachino dove Pasolini aveva dormito, passo velocemente, faccio in tempo e vedere una lunga fila di extracomunitari, in attesa del caporale di turno, lungo un muro di calce. La visione sta a metà fra un plotone d’esecuzione e la fermata di un bus a Cuba, è una situazione che già conosco, che ho già visto, ma mi impressiona uguale, se superi la prova ardua del mare, della traversata poi ti tocca l’attesa del muro.
Noto è luce e lutto, splendore e decadenza. Ero stato qua in occasione della riapertura della cattedrale, e tornandoci il pensiero è sempre quello, magari estremo cinico, e minoritario: se muoiono i poeti possono anche cadere le cattedrali. Lo scriverei sui muri.
Il paese è indubbiamente affascinante, ha un cuore di pietra con mille occhi che spuntano ovunque, qui la gente è curiosa, famelica, sento gli sguardi sul mio cammino a zonzo. Sono occhi che non hanno fatto l’abitudine allo straniero, nonostante il flusso di turisti che passa di qua. Avidi t’inseguono. L’alba a Portopalo, mi ha fiaccato, non ho voglia di cercarmi un angolo dove disegnare, non mi va di scattare foto. Ho solo voglia di mettere distanza fra me e questo dispiacere. Nella risalita passo da Avola, anche questo paese teatro di morte, due braccianti persero la vita nel 1968 quasi cinquanta i feriti, la polizia sparò sui contadini che protestavano contro le gabbie salariali. Qui capisco Aldo Busi e la sua irrequietezza, quando non riesce a restare nei posti che visita. Ovvio, abbiamo motivi diversi, ma comprendo il rifiuto di rimanere, la voglia di scappare che mi era sembrata così strana fra le pagine. Tanto che non mi fermo a dormire, voglio guidare. Il sole scende, rossiccio come il cane, mio compagno d’alba. Ultimi scampoli prima della sera. Sullo sfondo monti sassosi, aridi e muti, lungo la strada ulivi verdeggianti che non bastano a far dimenticare questo cupo giorno. Tolto il cane, escluso il cane.

Da Tutti i nomi dell’estate. Remake di un viaggio Pasoliniano
(di prossima pubblicazione presso Effigie [·]

il colore dell'offesa

1 luglio 2009
Eppure lo sapevamo anche noi…


[Erri De Luca. Cimitero di Lampedusa. “Chetempochefa” 20 maggio 2009]

…l’odore delle stive l’amaro del partire
Lo sapevamo anche noi e una lingua da disimparare
e un’altra da imparare in fretta prima della bicicletta
Lo sapevamo anche noi
e la nebbia di fiato alla vetrine e il tiepido del pane e l’onta del rifiuto
E sapevamo la pazienza di chi non si può fermare
e la santa carità del santo regalare
Lo sapevamo anche noi il colore dell’offesa e un abitare magro
e magro che non diventa casa
e la nebbia di fiato alla vetrine e il tiepido del pane e l’onta del rifiuto
Lo sapevamo anche noi questo guardare muto.
(Gianmaria Testa, Ritals)