di Giovanni Giovannetti
Come perdere 2 milioni di voti in cinque anni e continuare a fare finta di essere sani. Prendiamo il Partito democratico: alle recenti elezioni regionali ha perso il 52 per cento dei consensi in Calabria; il 36 in Campania; il 35 in Basilicata; il 30 in Piemonte; il 19 in Veneto; il 18 in Lombardia; il 14 nel Lazio. Voti in meno che, sommati ad altri persi a sinistra fanno 3 milioni e rotti, voti passati alla Lega o caduti nell’astensionismo (il 90 per cento dei neo astensionisti sarebbero elettori di sinistra).
Prendiamo Pavia: pur perdendo, alle elezioni comunali 2009, affiancato dal fido Andrea Albergati, il Pd aveva raccolto 12.305 voti; un anno dopo i voti scendono a 8.042: 4.263 in meno se includiamo Albergati; 21 in più se non si conteggiano quelli andati alla lista civica gemella. Nonostante la disfatta (e ogni volta è peggio), il Partito democratico si mantiene camaleontico oltre che rinunciatario nel rimarcare la differenza tra il suo progetto politico (quale?) e quello della destra. Invece di ripulire le sedi dai faccendieri e gli armadi dai molti scheletri, sembrano cercare altrove i mandanti dei numerosi errori di una classe dirigente locale e nazionale chiusa in se stessa, tanto autoreferenziale quanto incapace di visioni e di verità: è la stessa classe dirigente responsabile, quando era al Governo, della «precarizzazione della società» che oggi a parole dice di avversare; la stessa che predica la «riconversione ecologica dell’economia» e intanto ha lasciato che in soli 15 anni si urbanizzassero 3.663.000 ettari di suolo (è il business della variazione della destinazione d’uso), il 17 per cento del territorio nazionale, una superficie pari a Lazio e Abruzzo insieme; la stessa che ha favorito speculazioni impressionanti, soprattutto in Liguria, Calabria e Campania, regioni governate dal centrosinistra; la stessa che ha provato a disfarsi del ‘vincente’ Vendola (vincente proprio a partire dall’identità); la stessa che ha imposto agli elettori campani di sinistra tale Vincenzo De Luca (due rinvii a giudizio per associazione a delinquere, concussione, truffa e falso); la stessa che ha chiamato noi elettori lombardi a misurarci con tale Filippo Penati. Quando era presidente della Provincia di Milano, nel 2005 Penati comprò da Marcellino Gavio il 15 per cento delle azioni dell’autostrada Milano-Serravalle. Così la racconta Marco Travaglio: «preceduto da una serie di telefonate di Pierluigi Bersani, Penati gli ha garantito una ricca buonuscita, strapagandogli le azioni. Una plusvalenza di 175 milioni di euro, di poco successiva all’ingresso di Gavio nelle scalate di Gianpiero Fiorani [il capocordata dei “furbetti”, in manette nel 2005] all’Antonveneta e di Consorte – & furbetti al seguito – alla Bnl» (“Giudizio universale” n. 10). Delle azioni Milano-Serravalle, Gavio ne parla in alcune intercettazioni telefoniche: «sto facendo un pensierino sottovoce a vendere tutto per 4 euro». Dopo l’intervento di Bersani, Penati compra con il pubblico denaro le azioni di Gavio a 8,83 euro per azione. È forse questa l’improrogabile alternativa politica e morale al centrodestra?
Persa la classe operaia (al nord gli operai votano massicciamente per la Lega Nord), ora si preparano a cedere a Bossi, a Fini e a Berlusconi anche i voti dei dipendenti pubblici e di altre categorie sociali, senza neppure provare a offrire a loro e agli altri una alternativa al populismo narcotizzante di una Lega imborghesita, razzista e di governo, più romana che padana: un partito maturo e “nazionale” nell’accezione niente affatto lumbarda, e forse per questo capace, come nessun altro, di drammatizzare le paure dei ceti medi bastonati dalla crisi e di tradurre la paura in voti: a sinistra disossando il Pd, drenando voti anche in regioni “rosse” come Emilia, Marche e Toscana; a destra cannibalizzando il Pdl, come è successo in Piemonte, in Lombardia e in Veneto. Nel 2005 Forza Italia e Alleanza nazionale sommavano consensi cinque volte superiori alla Lega; oggi questo rapporto è sceso a due. Insomma, con Veronica Lario, Umberto Bossi sembra l’unico capace di arrecare danno al Cavaliere.
Il progressivo arretramento della sinistra dal sociale ha lasciato praterie alle culture politiche dei Bossi e dei Maroni, che sempre più si candidano a rappresentare il popolo della partita Iva e delle nuove professioni – oggi dissanguato dalla crisi e dalle banche – e cioè si candidano a rappresentare questi nuovi soggetti alla deriva, che non ce la fanno ad arrivare alla fine del mese dopo che, negli ultimi vent’anni, 120 miliardi di euro – l’8 per cento del Pil – sono passati dai salari ai profitti, 5.200 euro in media l’anno a lavoratore (che sale a 7.000 euro se consideriamo solo i 17 milioni di lavoratori dipendenti).
E pensare che solo vent’anni fa, dopo i primi successi elettorali, nella migliore ipotesi Bossi immaginava un futuro alla Juan Carlos Peron, confinato nel ridotto della Padania federale, alla guida di una Lega secessionista né di destra né di sinistra, ovvero “peronista”, con una “destra” e una “sinistra” interne. Poi arrivò Berlusconi e il movimento si vide sottoposto a un altalenante ridimensionamento e a notevoli problemi economici dovuti alla Credieuronord, venduta nel 2004 a Gianpiero Fiorani (sì, proprio lui, il banchere della Bipielle arrestato nel 2005) quando la "banca padana" era a un passo dal collasso. Secondo voci, a ripianare i debiti avrebbe concorso un assegno di 70 miliardi in lire staccato da Berlusconi. Vero? Falso? Certo è che da allora i rapporti tra Bossi e quello che la "Padania" apostrofava «il mafioso di Arcore» tornano felici e portano i due al successo elettorale delle Politiche 2001.
Era l’altro ieri. Ora il governo nazionale padano non ha più sede a Mantova, ma a Roma “ladrona”. «Oggi la Lega è forte al nord perché governa a Roma. E viceversa», rileva Ilvo Diamanti. Da qui (e dal buongoverno riformista locale, dove la Lega amministra) ha origine la sua crescita, tangibile ben oltre il risultato elettorale: secondo un sondaggio Demos, nel 1994 il 4,2 per cento degli italiani ammetteva simpatie leghiste; oggi la percentuale sale a oltre il 31 per cento: l’aumento sembra scontato al nord-ovest (dal 12,2 per cento nel 1994 al 44,9 nel 2009) e al nord-est (dal 7,4 al 54,6 per cento), ma non altrettanto scontato al centro (dall’1,2 al 30,3 per cento) e al sud (da zero al 16,6 per cento). Tutti coglioni? Di certo non quanto i dirigenti di partito che – populisticamente o meno – non hanno saputo restituire identità a ceti senza più identità e una risposta allo spaesamento in luogo della Lega.
Anche a Pavia. Una provincia che si colloca al sesto posto tra quelle dove più è cresciuto il partito di Bossi (+16,7 per cento). In pochi mesi la Lega Nord è salita da 4.269 voti alle Comunali 2009 (erano stati 2.754 nel 2005) a 7.805 in queste Regionali: 3.536 voti in più, nonostante il 13 per cento di votanti in meno.
Nella città capoluogo raddoppia anche Di Pietro (1.102 voti alle Comunali, 2.320 alle Regionali; ma erano stati 2.955 alle Europee 2009). Un lieve calo per l’Udc (1.242 voti nel 2009; 1.191 questa volta) così come per la Federazione della Sinistra (da 734 a 700), mentre non avanza il nuovo che avanza: senza Irene Campari, la lista di Beppe Grillo arretra da 1.166 a 1.016 voti, perdendone 150, nonostante il comizio pavese del vate genovese a pochi giorni dalle elezioni, nonostante l’assenza di liste civiche concorrenti (alle Comunali erano ben tre, e due pescavano dallo stesso bacino elettorale di Campari e dei grillini) e nonostante il momento favorevole, testimoniato dallo straordinario successo di Francesco Rubiconto alle comunali vogheresi (9,9 per cento!) o in regioni vicine come Emilia (6,7 per cento), Piemonte (4 per cento) e Veneto (3,2 per cento). Troppo fedeli alla linea, i grillini pavesi, arringati dal loro capopopolo ad «alzare il culo dalla televisione e..» in strada e nel sociale? No, «mettetevi davanti a un computer». Nei giorni scorsi ho letto d’un fiato il Grillopensiero esposto nel suo recente libro A riveder le stelle. Come seppellire i partiti e tirar fuori l’Italia dal pantano (Rizzoli), un agile volumetto i cui contenuti sono certamente da condividere: Grillo insiste su società multietnica e diritti umani, ma a partire da pag. 191: un vero peccato per un libro di 190 pagine…
Si ridisegna la geografia del centrodestra e perde la sinistra: perde il Piemonte, il Lazio, la Campania del candidato De Luca e la Calabria; in Lombardia Formigoni quasi doppia Penati: tra l’originale e la copia gli elettori lombardi hanno dunque premiato l’originale, che rende grazie al carroccio di Bossi, nonostante Berlusconi. Eppure…
A Pavia e provincia resiste un’area sociale di minoranza – tanto attiva quanto variegata – che coniuga ambientalismo e diritti umani, biodiversità e società multietnica: l’area in cui opera chi si batte contro il nucleare; chi avversa l’annunciata autostrada Broni-Mortara; chi denuncia le infiltrazioni mafiose (facendo nomi e cognomi); chi si oppone alla cementificazione del Parco della Vernavola; chi denuncia le speculazioni immobiliari. C’è poi chi lavora solidale tra i poveri e interagisce con i migranti, visti come risorsa (e non come problema).
A sinistra, la locale rifondazione politica può – anzi, deve – darsi queste fondamenta etiche, ricomponendo il frammentato arcipelago delle troppe “sinistre”, tornando a parlare il concretissimo e civilissimo linguaggio della coerenza sui temi che avvicinano liste civiche come Insieme per Pavia o Civiltà vigevanese (un trionfale 14,5 per cento alle recenti Comunali) ai comitati contro la Broni-Mortara, per l’acqua pubblica, contro la cementificazione della Valle della Vernavola, contro la riconversione a logistica dell’economia provinciale, contro il razzismo. Un dialogo da rendere ancora più virtuoso da qui alle prossime elezioni provinciali.
Il passaggio successivo riporta al Pd, virtuale azionista di riferimento per una futuribile alternativa di governo locale e nazionale. Un Partito democratico chiamato ad aprirsi ad un progetto politico condivisibile, oltre a ripulire il cortile di casa.
A sinistra andrà trovata una quadra. Localmente, potranno offrire una concreta base di confronto temi – lo ripeto – quali i tre referendum sull’acqua vista come bene comune, il nucleare, il welfare, l’antirazzismo, il consumo di territorio vergine, la tutela delle biodiversità, e molte altre cose (altri contenuti storicamente comuni li possiamo dare per scontati, a partire dal lavoro).
Il segretario provinciale Pd Alan Ferrari vuole aprire un “cantiere”: work in progress da qui alle elezioni provinciali nel 2011. Ben venga. Ma quel “cantiere”, per favore, non apritelo nel Parco della Vernavola!