Con Carla Benedetti a Soriano nel Cimino a raccontar di Petrolio, della morte di Pier Paolo Pasolini e dei possibili mandanti. La vicina torre di Chia era un rifugio di Pasolini, che qui ha anche girato alcune scene de Il Vangelo secondo Matteo.
Con Carla Benedetti a Soriano nel Cimino a raccontar di Petrolio, della morte di Pier Paolo Pasolini e dei possibili mandanti. La vicina torre di Chia era un rifugio di Pasolini, che qui ha anche girato alcune scene de Il Vangelo secondo Matteo.
Presentato a Roma, alla Casa del Cinema in Largo Mastroianni Frocio e basta, libro di Carla Benedetti e Giovanni Giovannetti sull’incompiuto Petrolio, sulla morte e sui possibili scenari dell’assassinio di Pier Paolo Pasolini al Lido di Ostia la notte tra l’1 e il 2 novembre 1975. Con gli autori sono intervenuti Walter Veltroni, Gianni Borgna e il giornalista del “Messaggero” Claudio Marincola. Di seguito la cronaca della serata di Elena Paparelli su “Paese Sera”.
Il mistero di Pasolini
e la miopia della cultura italiana
di Elena Paparelli
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Presentato ieri il volume firmato da Carla Benedetti e Giovanni Giovannetti che torna su «uno dei buchi neri della notte repubblicana», concentrandosi sulle reazioni degli intellettuali all’assassinio e sulle “fonti” di Petrolio, il romanzo incompiuto pubblicato postumo. Veltroni: «La ricerca della verità sul mistero della morte di Pasolini non l’ha chiusa la magistratura e non la deve chiudere la cultura e tutto il Paese».
Con un titolo provocatoriamente crudo, Frocio e basta (edizioni Effigie), scritto in tandem da Carla Benedetti e Giovanni Giovannetti, torna sul mistero dell’omicidio di Pasolini (1975), ancora «uno dei buchi neri della notte repubblicana». E lo riaffronta da due angolature: la prima parte si concentra sulle reazioni della cultura italiana all’assassinio; la seconda tratta delle “fonti” di Petrolio, il romanzo incompiuto pubblicato postumo da Einaudi solo nel 1992.
«Una vicenda estetizzata». La morte violenta di Pasolini colpì profondamente l’immaginario collettivo. Da subito la versione dell’omicidio diffusa dai media fu quella che fosse stato «ucciso dal diciassettenne Pino Pelosi in una rissa di natura sessuale». «Furono le parole di Pino Pelosi, dei giornali, della televisione – ha ricordato ieri sera Carla Benedetti in occasione della presentazione del libro alla Casa del Cinema – che convalidarono immediatamente una versione che oggi risulta non stare in piedi. È inquietante che in un paese democratico una versione piena di lacune e contraddizioni sia potuta durare per tanti anni». Perché? (more…)
Tra sfondo sessuale e documenti scomparsi su Cefis
di Paolo Di Stefano
Sul “Corriere della Sera” di mercoledì 6 febbraio, Paolo Di Stefano dedica questo ampio articolo a Frocio e basta (Effigie, 2012), scritto da Carla Benedetti e Giovanni Giovannetti.
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I tanti che, appena si sollevano dubbi sull’omicidio di Pier Paolo Pasolini, sorridono invocando il complottismo, possono stare tranquilli: avranno sempre ragione. Nessuno riuscirà mai a dimostrare nulla sulla morte dello scrittore. Intanto, per gli altri, i cosiddetti «complottisti», gli interrogativi restano. Che Pasolini sia stato ammazzato per ragioni sessuali rimane la verità ufficiale: il diciassettenne Pino Pelosi lo uccise all’idroscalo di Ostia nella notte tra l’1 e il 2 novembre 1975 in una rissa. Punto. Questa certezza aveva molti vantaggi: per i letterati confermava l’idea di una morte coerente con la figura anomala dell’intellettuale che aspirava a entrare nel mito; per il movimento gay diventava l’emblema della violenza subita dagli omosessuali. Prende piede da qui la messa a fuoco fatta da Carla Benedetti e Giovanni Giovannetti nel libro Frocio e basta, edito da Effigie.
La versione ufficiale subì un forte scossone quando, nel maggio 2005, Pelosi ritrattò la sua confessione, sostenendo di essersi accusato perché sotto minaccia: disse di poter ormai parlare perché gli autori della minaccia erano morti. Precisò che sul luogo del delitto c’erano due auto; che Pasolini si trovava lì per ricevere da un ignoto due bobine di Salò trafugate; che già conosceva lo scrittore. Emerse inoltre che il giovane con cui Pasolini cenò quella sera non era Pelosi ma un biondo con i capelli lunghi. Sono ritrattazioni che trovano conferma in altre testimonianze. Eppure nell’interpretazione dell’opera e della vita (compresa la morte) dello scrittore di Casarsa ha sempre funzionato una sorta di effetto metonimia: la parte (il sesso) per il tutto. «Pretendere di ricavare dalla sessualità dell’autore una verità sull’opera è una procedura fallace e criticabile – scrive la Benedetti -, ma volerne ricavare addirittura la verità del suo omicidio offende la logica, e ancor più il senso civile della verità, che non si fermano a ciò che è verosimile ma chiedono fatti e prove».
«Pasolini conosceva la verità sulla morte di Mattei»
di Marco Vigo
La stessa inquietante verità sull’uccisione dell’ex presidente dell’Eni – precipitato con il suo aereo nelle campagne di Bascapé – che molti anni dopo emergerà dalle indagini del giudice pavese Vincenzo Calia: un sabotaggio, i cui mandanti sedevano ai vertici dell’Ente petrolifero. Ne hanno parlato Carla Benedetti e Giovanni Giovannetti alla presentazione di Frocio e basta presso la libreria Feltrinelli di Pavia.
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«La brutale morte di Pasolini il 2 novembre 1975 non fu un delitto a sfondo omosessuale ad opera di un “ragazzo di vita” – Pino Pelosi – bensì un vero e proprio massacro premeditato, forse per tacitarlo, a cui presero parte almeno sette persone: dalle colonne del “Corriere della Sera” e in Petrolio (il suo romanzo incompiuto, uscito postumo nel 1992) Pasolini affronta il “nuovo potere”, quello stragista, golpista e piduista in rapporti con i servizi segreti deviati, la massoneria piduista agli albori e la criminalità organizzata». Sembra così sintetizzabile la tesi di Frocio e basta (edizioni Effigie), il nuovo libro di Carla Benedetti e Giovanni Giovannetti presentato mercoledì scorso davanti a un folto pubblico alla libreria Feltrinelli di Pavia.
Sì, perché Petrolio, l’incompiuto romanzo che Pasolini stava scrivendo da ormai tre anni, «non è una storia a sfondo omosessuale frutto di ossessioni – ha spiegato Benedetti – ma un libro sul potere, in cui Eugenio Cefis, presidente dell’Eni dopo Mattei e poi di Montedison, è il personaggio centrale».
Per i due autori, «ad accorgersene per primo non è stato uno studioso di letteratura ma il magistrato pavese Vincenzo Calia nel corso delle sue indagini sull’omicidio di Enrico Mattei», (more…)
Il 27 ottobre cade il cinquantesimo anniversario dell’uccisione di Enrico Mattei, precipitato con il suo aereo nelle campagne di Bascapè, in provincia di Pavia, mentre faceva ritorno a Milano da Catania, luogo dove – come ha potuto accertare l’inchiesta del giudice pavese Vincenzo Calia – l’aereo aveva subito un sabotaggio. Della morte del presidente dell’Eni e relativi mandanti, negli anni successivi si sono occupati fra gli altri il giornalista Mauro De Mauro e Pier Paolo Pasolini, trovando a loro volta la morte. In Frocio e Basta (edizioni Effigie, in libreria dal 24 ottobre, qui ripreso in estratto) Carla Benedetti e Giovanni Giovannetti provano a collegare fra loro i fili interrotti di questa scia di sangue, il crepuscolo che prelude alla notte repubblicana.
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Nel 1972 arriva in libreria Questo è Cefis. L’altra faccia dell’onorato presidente, di Giorgio Steimetz. È una quasi biografia – non autorizzata – del presidente di Eni e Montedison Eugenio Cefis. Il libro, probabilmente pubblicato con l’intento di avvertimento o di minaccia, racconta la spregiudicata avventura di uno dei timonieri del pubblico-privato, la mescolanza di poteri tra lo Stato e le mafie sommerse economico-finanziarie.
L’autore si cela dietro a uno pseudonimo, ma non è questa la principale stranezza del libro, che vive solo pochi mesi, poi scompare dalla circolazione. Secondo Riccardo Antoniani, «a ridosso della pubblicazione, gli uomini della Montedison si mossero efficacemente per toglierne dal mercato il maggior numero di copie possibile e scongiurare al Presidente l’eventualità di un’inchiesta giudiziaria». Sarebbero sparite anche le copie d’obbligo dalle due sedi della Biblioteca Nazionale.
A pubblicare il libro nel 1972 fu l’Agenzia Milano Informazioni di Corrado Ragozzino, di cui Steimetz è forse l’alter ego. L’agenzia era finanziata da Graziano Verzotto, democristiano della corrente dorotea di Mariano Rumor, uomo di Enrico Mattei ed ex presidente dell’Ente minerario siciliano. Come vedremo, Verzotto fu anche l’informatore di Mauro De Mauro, il giornalista de “l’Ora” di Palermo ucciso nel 1970. Così come era accaduto a Enrico Mattei otto anni prima. Così come accadrà a Pier Paolo Pasolini cinque anni dopo. (more…)
L’uccisione di Pasolini e le molte verità negate
di Giovanni Giovannetti
«Chi tocca il Principe avrà del piombo; chi non lo tocca avrà dell’oro», scrive Giorgio Steimetz in Questo è Cefis: piombo tipografico o di un qualche calibro? Un ragazzo di 17 anni, Pino Pelosi detto “Pelosino”, si è autoaccusato dell’omicidio di Pasolini. Il 7 maggio 2005, in una intervista televisiva a Franca Leosini, conduttrice di Ombre sul giallo, Pelosi ha ammesso che quel giorno non era solo, che altri avevano partecipato al pestaggio: «Erano in tre, sbucarono dal buio. Mi dissero tu fatti i cazzi tuoi e iniziò il massacro. Io gridavo, lui gridava… Avranno avuto 45, 46 anni, gli gridavano “sporco comunista”, “arruso”, “fetuso”».
Stando a questa che è la seconda versione di Pelosi, Pasolini viene massacrato da «tre siciliani o calabresi».
Lo stesso racconto viene poi riproposto con varianti e nuovi particolari a Claudio Manicola del “Messaggero” (23 luglio 2008), agli autori di Profondo nero Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza (Chiarelettere, 2009) e nell’autobiografico Io so… come hanno ucciso Pasolini (Vertigo, 2011): non più tre «siciliani o calabresi» (nel 2005 «diedi una falsa pista dichiarando che gli aggressori parlavano dialetto siciliano o calabrese»), ma «in tutto cinque persone»; non più una sola auto ma due («una fiat 1500 scura e una GT identica a quella di Pier Paolo»). E sopra una moto Gilera c’erano anche i fascistissimi fratelli catanesi Franco e Pino Borsellino – ormai deceduti – indicati quali autori materiali del furto delle “pizze” originali del film Salò o le 120 giornate di Sodoma rubate in agosto a Cinecittà per conto di Sergio Placidi, un “pappone” che mirava a un riscatto: “pizze” forse usate come esca, e mai più ritrovate. I due (all’epoca minorenni) l’anno successivo confidano a Renzo Sansone (appuntato dei carabinieri infiltrato nella bisca di via Donati a Roma) la loro partecipazione al delitto «insieme a un certo Johnny il biondino» ovvero il bergamasco “Johnny lo zingaro”, nome d’arte di Giuseppe Mastini, pluriomicida ergastolano vicino alla destra fascista nonché amico di Pelosi, ora in libertà vigilata. Mastini, “scagionato” da Pelosi, in carcere avrebbe vantato l’uccisione di Pasolini. Nel racconto di “Pelosino” si fa largo soprattutto «un certo Mauro G., un tizio ben vestito, pettinato con la riga e l’aria misteriosa – Franco me lo dipinse in quel modo – che gravitava nell’ambiente fascista e particolarmente nella sede del Movimento Sociale di via Subiaco».
Bugie? Mezze verità e per giunta a rate? Verità monche. La notte tra il 1° e il 2 novembre 1975, sotto un cielo senza luna Pasolini e Pelosi sono all’idroscalo di Ostia, in attesa – sostiene Pelosi – della restituzione di Salò: (more…)
Nota su Pasolini, omosessualità e morte
di Antonio Moresco
Un omosessuale, una lesbica sono uomini e donne a tutto campo o dimezzati? E ancora:
Uno scrittore omosessuale, una scrittrice lesbica sono scrittori e scrittrici a tutto campo o dimezzati?
Sono domande aberranti e implicitamente omofobe, lo so, ma che è necessario porre visto ciò che si continua a leggere in questi anni e in questi mesi su Pasolini.
Dato che il clima è questo, guai ad accennare agli interessi, alle passioni e alle disperazioni antropologiche, politiche, e sociali che attraversano l’intera vita e l’intera opera di Pasolini e in particolare il suo ultimo libro incompiuto. Ti risponderanno che a Pasolini di tutto il resto non gliene fregava niente, che a lui interessava solo quello, che in Petrolio conta solo l’episodio del pratone della Casilina e che se qualcuno sostiene il contrario vuole in realtà fare un santino, censurando l’omosessualità dell’autore. Senza rendersi conto di essere proprio loro – negando a un omosessuale altre passioni e pensieri che non siano l’omosessualità stessa – che in realtà lo censurano. E tutto il resto che fine ha fatto? Non esiste. E tutte le pagine narrative e saggistiche, e tutte le poesie dove esprime le sue passioni e le sue disperazioni e le sue convinzioni a tutto campo? Non esistono, o sono al massimo mere coperture di quell’unica fissazione sessuale. Solo questa descrizione superficiale e patologica dello scrittore omosessuale che circola in questi anni in articoli e libri e che, a questo livello, non esisteva nel passato. Nessuno, ad esempio, si sarebbe sognato di sostenere che Leonardo Da Vinci o Michelangelo sono solo degli omosessuali e nient’altro, che Proust e il suo capolavoro non contengono e non significano nient’altro che non sia riconducibile all’omosessualità dell’autore (mentre è altrettanto evidente che questa stessa omosessualità ha costituito qualcosa di inscindibile e un valore aggiunto). Con Pasolini no. In lui non c’è nient’altro. Frocio e basta.
È strano, è molto strano tutto questo, e per di più da parte di chi si pone come difensore di questo autore contro coloro che si azzardano a sostenere che Pasolini era uno scrittore, un poeta e un uomo a tutto campo e non privo di universalità e dimezzato perché omosessuale. Tanto più che le stesse argomentazioni non vengono messe in campo per gli scrittori eterosessuali, persino nel caso in cui le loro vite siano state attraversate dalla stessa bruciante ansia e dallo stesso incontenibile desiderio genitale e sessuale. Tutti, ad esempio, conoscono il priapismo di uno scrittore come D’Annunzio, oppure come Miller, ma nessuno si sognerebbe di sostenere che D’Annunzio o Miller sono solo questo, che non hanno avuto anche altri pensieri, proiezioni, disperazioni, invenzioni, che D’Annunzio non ha scritto anche d’altro, che non ha partecipato ad azioni politiche e militari, giusto o sbagliate che fossero, che Miller non ha avuto una sua idea generale del mondo, giusta o sbagliata che fosse, che nei suoi libri ci sono e contano sole le scopate, che non ha scritto e non si è interessato anche di Rimbaud e di mille altre cose.
Nel caso degli scrittori eterosessuali si accetta tranquillamente questa compresenza, si accetta il fatto che la loro debordante sessualità possa essere stata anche un passaggio, una cruna, che sia stata anche un loro modo di addentrarsi corporalmente nel mondo e nelle sue proiezioni e nelle sue apparizioni, anche culturali e mentali, un valore aggiunto di passione e di conoscenza. Per lo scrittore omosessuale – e in particolare per l’ingombrante e scomodo Pasolini – no. In lui c’è solo questo.
Un’ultima piccola considerazione sulla morte di Pasolini.
Anche qui lo stesso meccanismo di riduzione e di rimozione, che in questo caso funziona così:
Siccome c’era in lui questa disperazione e anche questa innegabile ansia di autodistruzione, siccome c’era in lui anche una forte “pulsione di morte”, allora il suo non è stato un assassinio ma una sorta di suicidio estetico differito, e guai a chi si permette di chiedere la riapertura del processo ricordando che ci sono prove ormai ineludibili che non è stato ammazzato in una rissa tra due froci in cui ha avuto la peggio ma che è stato letteralmente massacrato da più persone per ragioni che, forse, non erano riconducibili alla sola omosessualità. Niente da fare. Anche qui gli stessi argomenti: si vuole fare di Pasolini un santino, mentre era un frocio e basta. «Se l’è cercata!», come ha detto a suo tempo Andreotti, con maggiore chiarezza e senza fronzoli estetici e psicanalitici.
di Carla Benedetti e Giovanni Giovannetti
Era nato il 5 marzo 1922, dunque oggi avremmo festeggiato il suo novantesimo compleanno. Cosa avrebbe detto Pasolini del tracimante ‘sacco’ del territorio? O di quanto è cronaca in Val di Susa? E del berlusconismo? Dell’ideologia edonistica come strumento subliminale del controllo sociale e dei nuovi modelli di consumo? Il «piacere di consumare, l’essere felici in quanto consumatori» era un suo motivo di fondo nei periodici interventi giornalistici di critica corsara e luterana alla progressiva restaurazione in corso, ben prima di Tangentopoli e la coda lunga dello stragismo fascista mafioso e di Stato, ben prima dunque che fosse emerso prepotentemente l’indistinto e perverso intreccio tra politica criminalità e affari. Pasolini ci manca. Manca all’Italia. Lo voglio ricordare riproponendo Come corsari sulla filibusta, saggio-inchiesta scritto insieme a Carla Benedetti sui possibili scenari e mandanti della sua morte violenta. (G. G.)
Nel 1972 arriva in libreria Questo è Cefis. L’altra faccia dell’onorato presidente di Giorgio Steimetz, una quasi biografia – non autorizzata – del presidente di Eni e Montedison, pubblicata dall’Agenzia Milano Informazioni di Corrado Ragozzino, di cui Steimetz è forse l’alter ego. L’agenzia è finanziata da Graziano Verzotto, democristiano della corrente dorotea di Mariano Rumor, uomo di Enrico Mattei ed ex presidente dell’Ente minerario siciliano. Fu anche l’informatore di Mauro De Mauro, il giornalista de “l’Ora” di Palermo rapito e ucciso dalla mafia nel 1970. Così come era accaduto a Mattei sette anni prima. Così come accadrà a Pier Paolo Pasolini cinque anni dopo. (more…)
Il dogma sulla morte di Pasolini
di Carla Benedetti
Alcuni esperti di Pasolini e alcuni giornalisti continuano ancora oggi, nonostante i tanti dubbi emersi negli ultimi anni, a dare per assolutamente certa la matrice sessuale dell’omicidio di Pasolini. Sono Nico Naldini (cugino e biografo di Pasolini), Marco Belpoliti (autore del volumetto Pasolini in salsa piccante, uscito da poco da Guanda), Pierluigi Battista (in un articolo sul “Corriere della sera” dell’8 novembre) e qualche altro.
Come mai queste persone sono così convinte che Pasolini sia stato ucciso in una rissa omosessuale? Su cosa poggia la loro certezza? Non su prove né su indizi. Solamente su di un sillogismo. Eccolo: Pasolini era omosessuale, rimorchiava ragazzi nelle notti romane e praticava una pericolosa sessualità sado-maso. Quindi non può che essere stato ucciso in quel modo.
La fallacia è lampante. Dalla stessa premessa può discendere benissimo anche la conclusione opposta: Pasolini era omosessuale, rimorchiava ragazzi ecc… Quindi era gioco facile nascondere un altro tipo di delitto dietro a quella falsa pista.
Quel falso sillogismo è stato per tanti anni la versione ufficiale sulla morte di Pasolini. C’era un reo confesso, il diciassettenne Pino Pelosi, e questo bastò. Però neanche il Tribunale di primo grado fu in grado di eliminare i dubbi, tanto che condannò il Pelosi “assieme a ignoti”, lasciando aperti molti interrogativi. Oggi che gli interrogativi sono cresciuti, il sillogismo viene invece riaffermato senza argomenti e senza dubbi – cioè come dogma. (more…)
di Carla Benedetti e Giovanni Giovannetti
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Le verità negate
«Chi tocca il Principe avrà del piombo; chi non lo tocca avrà dell’oro», scrive Steimetz: piombo tipografico o di un qualche calibro? Un ragazzo di 17 anni, Pino Pelosi, si è autoaccusato dell’omicidio di Pasolini. Il 26 aprile 1976 il tribunale di Roma lo ha condannato alla pena di nove anni, sette mesi e dieci giorni di carcerazione, oltre a una multa di 30.000 lire per atti osceni. Il 7 maggio 2005 Pelosi ha ammesso che quel giorno non era solo, che altri avevano partecipato al pestaggio: «Erano in tre, sbucarono dal buio. Mi dissero tu fatti i cazzi tuoi e iniziò il massacro. Io gridavo, lui gridava… Avranno avuto 45, 46 anni, gli gridavano “sporco comunista”, “arruso”, “fetuso”». Insomma, fu un agguato e forse Pelosi era solo un’esca.
Pasolini, stando alla seconda versione di Pelosi, viene massacrato da «tre siciliani»; nel frattempo altri provvedono a sottrarre da Petrolio il capitolo Lampi sull’Eni, «che dall’omicidio ipotizzato di Mattei guida al regime di Eugenio Cefis, ai “fondi neri”, alle stragi dal 1969 al 1980 e, ora sappiamo, fino a tangentopoli, all’Enimont, alla madre di tutte le tangenti».[91]
Chi sono i veri assassini? Quali i mandanti? Domande in sospeso su cui insiste Gianni D’Elia nel suo prezioso libro-inchiesta Il Petrolio delle stragi, ripreso nel 2009 da Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza in Profondo nero.[92] Assieme al dossier di Carlo Lucarelli e Gianni Borgna uscito su “Micromega” n. 6/2005, alle tante firme italiane e internazionali raccolte dalla rivista “Il primo amore” per la riapertura del processo e al presunto ritrovamento di una parte del capitolo mancante Lampi sull’Eni [93], forse porterà ad una nuova più approfondita indagine sulla morte del grande regista e poeta friulano.[94] Quasi quarant’anni dopo. Quarant’anni di verità negate agli italiani, in un Paese esposto alle pulsioni mafiose del Potere. È la pasoliniana «mutazione antropologica della classe dominante», che ritroviamo nel linguaggio narcotizzante della televisione, (la grande scommessa P2 persa da Cefis, vinta da Berlusconi), nelle parole vuote – menzognere e terroristiche – della pseudo-politica e nell’immutata logica del Potere, che ha portato al mondo in cui viviamo adesso.
Gli italiani sono oggi relegati nella cattiva società dei ceti immobili; del finto sviluppo senza progresso; delle diseguaglianze senza ascensore sociale «in un Paese orribilmente sporco» e privo di mobilità.
Il Paese della corruzione, delle tangenti, dei favoritismi e dello spreco del pubblico denaro; un Paese tenuto in scacco – oggi come allora – dall’invasiva e colonizzante contaminazione delle mafie, che approfittando del vuoto si fanno Stato, in Lombardia come in Sicilia, in Emilia come in Calabria. Nella politica, nell’economia, e nella finanza e nella società la contaminazione destruttura e corrode nonostante la retorica del consenso strausata da chi, coltiva l’interesse particolare, ignorando la globalizzazione degli uomini e le svolte epocali annunciate dall’arrivo dei nuovi migranti; e assecondando irresponsabilmente gli umori forcaioli della piazza. Quella piazza che in un’allucinante circolarità loro stessi sobillano, alterando tragicamente l’etica pubblica, al punto da elevare a cultura prevalente il nuovo fascismo e con tutto il suo portato di razzismo e xenofobia che, senza ostacoli o freni inibitori, si riversa dalla politica populista al senso commune. L’Italia sembra così il terreno di coltura per un nuovo sovversivo «regime reazionario di massa». [95] È del resto in corso un forte impoverimento del ceto medio – a livello europeo – che può avere come esito una qualche nuova forma di fascismo.[96]
Ma l’effetto più visibile di questa contaminazione pervasiva, è il crescere della cattiveria: «Il tasso di cattiveria sta crescendo sempre più. Le macchine economiche, mediatiche, sportive e di altro tipo funzionano facendo venire fuori il peggio dalle persone e dal Paese. Ovunque esasperazione, invidia, risentimento, livore, paura. L’Italia di questi anni è la fabbrica della cattiveria». [97]
La cattiveria è una rendita economica, e lo sanno bene i Governi che negli ultimi vent’anni hanno sostenuto l’ascesa del loro Prodotto interno lordo con le spese militari e con l’indebitamento di milioni di famiglie, attratte dal miraggio della new economy – la truffa del secolo – mentre intanto i profitti migravano dall’industria verso il sistema finanziario e si drenava il denaro dei piccoli risparmiatori, indotti a indebitarsi dall’offerta vantaggiosa di finanziamenti da parte del sistema creditizio, come nella truffaldina deriva di mutui Subprime sulle case.
La cattiveria è soprattutto una rendita politica, e lo sa bene la Lega nord che «raccoglie le paure degli uomini spaventati e le moltiplica. Capta la xenofobia e la riproduce». È la Lega dei localismi «che intercetta lo spaesamento prodotto dalla globalizzazione. Intercetta il distacco dallo Stato, dalle istituzioni, dalla Ue. E lo amplifica». [98]
Sulla cattiveria si stanno costruendo rendite elettorali e fortune politiche e antipolitiche e lo sa bene il sistema dei partiti, di destra e di sinistra, sempre più attratti dalle semplificazioni del populismo e della demagogia, scorciatoie che ignorano la realtà.
Che la cattiveria sia una rendita economica, finanziaria, politica e persino sociale lo sanno bene i furbetti e le mafie. Infatti larga parte dell’economia italiana è sommersa o in mano a chi, dismesse coppola e lupara, oggi opera in Borsa: il sommerso e le mafie, sommati, fanno un fiume di denaro – circa il 40 per cento del Pil – che preme sull’economia legale e condiziona il libero mercato. Le mafie fatturano 175 miliardi di euro – l’11, 1 per cento del Pil – che è frutto di attività criminali e che viene reinvestito nell’edilizia e nelle attività commerciali, o in operazioni finanziarie attraverso banche compiacenti. Nelle sole regioni del Nord, oltre 8. 000 negozi sono gestiti direttamente dalle mafie inabissate dei colletti bianchi. In Italia, 180mila esercizi commerciali sono sottoposti all’usura, con tassi di interesse in media del 270 per c
ento: un movimento di denaro di 12, 6 miliardi che va ad aggiungersi al ricavato delle estorsioni (circa 250 milioni di euro), della droga (59 miliardi di euro), delle armi (5,8 miliardi), della contraffazione (6,3 miliardi), dei rifiuti (16 miliardi), dell’edilizia pubblica e privata (6,5 miliardi) delle sale gioco e scommesse (2,4 miliardi), della compravendita di immobili, della ristorazione, dei locali notturni, ecc. Uomini cerniera mantengono i collegamenti con il mondo dell’economia, della politica e della finanza. Le mafie condizionano l’intera filiera agroalimentare (7,5 miliardi) interagendo con segmenti della grande distribuzione.
Le mafie delocalizzano, diversificano gli investimenti, hanno molta liquidità, non pagano le tasse, non hanno bisogno di indebitarsi con le banche e pagano cash . Le Procure hanno invece le armi spuntate, perché la legge sul riutilizzo a fini sociali dei beni confiscati ai mafiosi può essere facilmente aggirata (ad esempio, intestando le proprietà a compiaciuti prestanome), mentre strumenti che potrebbero rivelarsi incisivi, come l’anagrafe dei conti correnti bancari, è disattesa da vent’anni. [99]
La cattiveria a volte è un crimine. Ed è criminale lasciare morire esseri umani (come è ormai norma al largo di Lampedusa), criminale uccidere persone che spesso stanno fuggendo da altre guerre. La cattiveria a volte nemmeno la si vede. Ad esempio, quella nascosta dietro le “morti bianche” sul lavoro, una vera emergenza.
La cattiveria di chi usa le malattie, le povertà e il disagio per traghettare pubblico denaro verso privatissime strutture d’area.
La cattiveria delle false bonifiche – quelle a danno della salute dei cittadini – e dei veri bonifici sui conti cifrati esteri di persone già ricche eppure ostinatamente venali.
La cattiveria dei cementificatori, degli asfaltatori e di chi non smette di speculare sul consumo di territorio vergine, che è un bene non riproducibile. La cattiveria di chi vuole trasformare l’acqua in una merce su cui lucrare, con rincari fino a cinque volte il prezzo attuale.
La cattiveria dei «cattolici senza fede», leghisti digiuni dei Vangeli che esibiscono una croce senza più Cristo né carità. È la Lega «sorta nel vuoto prodotto dall’eclissi del sacro e dalla secolarizzazione. Propone una nuova religione. Naturalmente secolarizzata. Senza Dio e senza chiesa. Sovente, contro la Chiesa». [100]
Tutto questo e molto altro ancora è cattiveria, ma al peggio non c’è mai fine. I cambiamenti climatici, l’inquinamento delle acque e la biodiversità in declino sono di gran lunga più cattivi e devastanti della crisi finanziaria, al punto da minare il futuro stesso della specie umana, che negli ultimi cinquant’anni è raddoppiata. Nello stesso tempo, un terzo delle specie selvatiche o si sono estinte o sono state decimate dal nostro espansionismo.
Scrive Gianni D’Elia: «le parti di Petrolio che non si trovano più davano forse molto fastidio al Nuovo Potere, che si andava consolidando. Forse avrebbero fatto lo stesso botto di Mani pulite, contro la tangentopoli stragista di quella stagione, invece sepolta nella rimozione che siamo diventati, pasolinianamente, “a mutazione criminale avvenuta”».[101] E allora leggiamo Questo è Cefis, e rileggiamo anche Petrolio, che al libro di Steimetz deve molto. Ripercorriamo «il viaggio dantesco dentro i “gironi” della notte repubblicana, della sua “mutazione antropologica” e politica infernale».
(dall’introduzione a Questo è Cefis. L’altra faccia dell’onorato presidente di Giorgio Steimetz, edito da Effigie nella collana Saggi e documenti)
[91] D’Elia, Il Petrolio delle stragi, p.98. Il cugino di Pasolini Guido Mazzon (testimonianza raccolta da D’Elia e Giovannetti il 24 ottobre 2005, a Pavia) «Mia cugina Graziella [Chiarcossi, erede del poeta] mi telefonò due volte il giorno del delitto – “I fascisti hanno ucciso Pier Paolo”– e qualche tempo dopo, un mese, non ricordo bene. i ricordo bene quello che mi disse “sono venuti i ladri in casa, hanno rubato della roba, gioielli e carte di Pier Paolo”» . Mazzon ha poi ripetuto la sua testimonianza a Paolo Di Stefano (sul “Corriere della Sera”, 4 marzo 2010) «Nel ‘75, dopo la tragedia di Pier Paolo, Graziella chiamò mia madre per dirle di quel furto. Quando mia madre me lo riferì, pensai “Accidenti, con quel che è capitato ci mancava pure questa”. E pensai anche “Strano però, che senso ha andare a trafugare le carte di un poeta?”. Il mio stato d’animo sul momento fu proprio quello. Avevo 29 anni e ricordo bene la sensazione che ebbi. Poi il particolare del furto mi tornò alla mente leggendo Petrolio e venendo a sapere della parti scomparse» Perché l’imbarazzo? «Perché non riesco a capire come mai mia cugina continui a negare quel fatto. Dopo l’annuncio del ritrovamento, l’ho cercata al telefono, ma senza successo vorrei chiarire, cercare di ricomporre il ricordo. ia madre è morta due anni fa e non posso più chiederle conferma, ma quella comunicazione telefonica ci fu e si verificò dopo la morte di Pier Paolo, non potrei dire esattamente quanti giorni dopo». Ancora Mazzon a Matteo Sacchi (“il Giornale”, 4 marzo 2010) «Io ricordo bene che dopo la morte di Pasolini mia madre ricevette una telefonata proprio da Graziella Chiarcossi che le comunicava che c’era stato un furto. Avevano portato via delle carte e dei gioielli. Mia madre era molto turbata. All’epoca non pensammo affatto a Petrolio. a col senno di poi e con queste rivelazioni, tutto potrebbe assumere un senso».
[92] Lo stesso titolo di uno dei capitoli del libro di D’Elia, che i due autori correttamente indicano tra le principali fonti d’ispirazione del loro lavoro.
[93] «L’ho letto, è inquietante, parla di temi e problemi dell’Eni, parla di Cefis, di Mattei e si lega alla storia del nostro Paese». Così parlò Marcello Dell’Utri il 2 marzo 2010, annunciando che di Lampi sull’Eni – il capitolo mancante di Petrolio, il mutilato romanzo di Pier Paolo Pasolini – proprio di quelle pagine proprio lui, beffardamente era entrato in possesso. Una notizia clamorosa due volte perché l’amico dello stalliere di Arcore stava dando (inconsapevolmente?) una “notizia di reato” e perché nonostante Dell’Utri ci saremmo trovati di fronte a pagine di rilevante interesse sia storico che letterario. Presto Dell’Utri si corregge «in realtà non l’ho letto… me ne hanno riferito un sunto… sembra ch
e in quelle pagine Pasolini parli… parli dell’Eni… di Cefis… di Mattei…». E a Paolo Di Stefano (“Corriere della Sera”, 12 marzo 2010) Ma lei li ha visti? «Li ho avuti tra le mani per qualche minuto, sperando di poterli leggere con calma dopo». Che fisionomia avevano? «Una settantina di veline dattiloscritte con qualche appunto a mano». Poi si preciserà che sono esattamente 78 «di un totale di circa duecento». Potrebbe essere il famoso capitolo mancante, intitolato Lampi sull’Eni? Risposta «Più esattamente Lampi su Eni». Alessandro Noceti (collaboratore di Dell’Utri) su “il Giornale” del 4 marzo 2010 dice che quelle pagine «erano all’interno di una cassa. La cassa apparteneva ad un Istituto che ne è anche proprietario». A quanto sembra, le veline sparite sarebbero in mano a un antiquario – un intermediario – che le avrebbe offerte al sodale di Berlusconi, condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. Nell’ottobre 1974 Pasolini dichiara di essere arrivato a 600 pagine (un mese prima erano 337), mentre al filologo Aurelio Roncaglia la cugina Graziella Chiarcossi ne consegna 522: 492 pagine dattiloscritte, le altre a mano, «senza contare – osserva D’Elia – che in pochi mesi ne aveva scritte circa 200».
[94] Il 27 marzo 2009 l’avvocato Stefano Maccioni e la criminologa Simona Ruffini hanno depositato alla Procura di Roma un’istanza di riapertura delle indagini sulla morte di Pasolini.
[95] La formula era di Palmiro Togliatti, A proposito di fascismo (1928)
[96] «Che cos’è, infatti, il globalismo (e l’aggettivo “globale” ricorre in Petrolio) se non la forma più avanzata del “cristiano” vecchio coloniali-smo?», si domanda D’Elia «Un colonialismo delle merci e dei capitali sulla vita degli umani, con altissima velocità dello Sviluppo e della Miseria, di cui il petrolio è l’essenza, la marxiana benzina del valore di scambio» (D’Elia, Il Petrolio delle stragi, p.27)
[97] La fabbrica della cattiveria, “Il primo amore” n. 6/2008
[98] Ilvo Diamanti, Se il Carroccio diventa una Lega nazionale, “la Repubblica”, 13 dicembre 2009
[99] Senza alcun clamore, per il triennio 2009-2011 il Governo Berlusconi prevede una riduzione dell’organico delle forze di Polizia di almeno 40. 000 operatori e tagli di spesa per più di 3 miliardi di euro. Il Governo conferma la riduzione del 50 per cento delle indennità per i servizi in strada e per il controllo del territorio, nonché la riduzione del 40 per cento della retribuzione accessoria per malattia o infortuni sul lavoro.
[100] Diamanti, “la Repubblica”, 13 dicembre 2009
[101] Il Petrolio delle stragi, p.30
(7 – fine)
di Carla Benedetti e Giovanni Giovannetti
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A conclusione della sua inchiesta, nonostante la mancata certificazione di sicari e mandanti, Vincenzo Calia scrive:
Indagando sulla morte del presidente dell’Eni (nonostante l’accertamento del reato, l’inchiesta verrà archiviata per l’impossibilità di incriminare i colpevoli), Calia ha potuto constatare la lucidità dello scrittore “corsaro” nel ricostruire in Petrolio il degrado e la mostruosità italiana, identificando il burattinaio principale in Cefis, affarista e “liberista” tanto quanto Mattei era utopista e “statalista”.
Dopo la scalata dell’Eni alla Montedison (il colosso chimico privato acquisito con pubblico denaro) , nel 1971 Cefis ne diventa il presidente, lasciando l’Eni (a cui era alla guida dal 1967) al fido Raffaele Girotti. Come ironizza Steimetz, Cefis «si crede un semidio e trova fedeli osservanti in questo suo culto della persona. Se tutti gli danno retta, è ovvio che finisca per convincersi di aver perfettamente e abitualmente ragione. È saccente, tiene a distanza i villani, si lascia appena ossequiare. Ma in Italia lo applaudono ad esempio. L’economia del Paese – come avvertono gli studiosi e i politici seri – va piuttosto male, se non a rotoli, ma lui accantona miliardi senza faticare molto visto il numero di utili idioti che lo favoriscono». [76] Basterebbe aggiungere una bandana estiva, e il ritratto di Steimetz calza alla perfezione con quello di un altro Cavaliere. Chissà, forse Questo è Cefis lo si può trovare anche nella napoleonica villa San Martino di Arcore, acquisita nel 1972 dalla Edilnord – una società immobiliare in quel momento intestata a Mauro Borsani (zio di Berlusconi) e amministrata da Giorgio Dall’Oglio (cognato di Berlusconi) – per una ridicola cifra intorno a 250 milioni in lire (già all’epoca ne valeva 1. 700;oggi il suo prezzo salirebbe a 7, miliardi delle vecchie lire) completa di parco (1 milione di mq.) , di pinacoteca (Tintoretto, Tiepolo, Luini…) e biblioteca con oltre 10. 000 volumi (per la loro cura, venne assunto nientemeno che Marcello Dell’Utri) . [77] (more…)
di Carla Benedetti e Giovanni Giovannetti
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La scia del sangue
Il 4 settembre 1998 Graziano Verzotto – interrogato a Pavia – confida a Calia che per Mauro De Mauro «il sabotaggio del Morane Saulnier [il bireattore su cui è morto Mattei] si spiegava con una pista esclusivamente italiana. Tale pista, secondo De Mauro, portava direttamente ad Eugenio Cefis e a Vito Guarrasi», avvocato palermitano in odore di mafia, già componente del cda della s. a. “l’Ora” di Palermo – il quotidiano vicino al Pci presso cui lavorava De Mauro – e braccio destro di Cefis in Sicilia.[57] È un tardivo riscontro della testimonianza di Junia De Mauro al giudice istruttore di Palermo Mario Fratantonio il 17 marzo 1971: «Sono in grado di affermare con sicurezza che mio padre addossava precise responsabilità per la morte di Mattei all’attuale presidente dell’Eni Eugenio Cefis».
Un rapporto del 1944 custodito a Washington nell’archivio del Dipartimento di Stato, indica Vito Guarrasi tra i componenti di spicco di Cosa nostra nell’isola. Dal 1948 al 1950 Guarrasi ha avuto Alfredo Dell’Utri (padre di Marcello) quale socio nella Ra.Spe.Me. Spa, azienda che operava nel settore medico. Secondo il giornalista di “Epoca” Pietro Zullino, «Cefis aveva forti cointeressenze nelle raffinerie Sarom di Ravenna e Mediterranea di Gaeta. Queste raffinerie sono tra le principali rifornitrici del sistema difensivo Nato per il sud-Europa e della Sesta Flotta americana; raffinano e vendono petrolio Esso e Shell. Mattei cercava di obbligare la Nato mediterranea a diventare cliente dell’Eni; Cefis si opponeva a questo progetto, per via delle sue cointeressenze».[58] (more…)