Archive for the ‘polonia’ Category

Il tamburo di lotta

14 ottobre 2010

ultima parte

Wojciech Jaruzelski (1923) «Lo Stato di guerra fu inevitabile, era il male minore. Non fu un colpo di Stato, perché io ero il primo ministro legalmente riconosciuto anche dalla comunità internazionale e la Costituzione mi consentiva di ricorrere all’intervento militare per fronteggiare una situazione che si faceva ogni giorno più grave. L’ Unione Sovietica ci aveva tagliato il 50 per cento delle forniture di gas e il 70 per cento del petrolio, e minacciava il blocco totale a partire dal gennaio 1982. Ci avrebbero affamati. Insomma, una vera catastrofe, aggravata dagli aumenti salariali e dal contemporaneo calo di 18 punti della produzione industriale. (more…)

Il tamburo di lotta

9 ottobre 2010
A trent’anni dagli scioperi del Baltico – sedicesima parte
Henryk Jankowski – Tadeusz Fiszbach
di Giovanni Giovannetti
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Padre Henryk Jankowski (1936) «Come è noto, un sostegno decisivo alla lotta degli operai è arrivato dal nostro papa. Di fronte alla portata storica di quegli eventi, nella Chiesa polacca la prudenza e la cautela parevano pronte a frenare il coraggio di chi stava in prima linea. Ad esempio, i pavidi e ripetuti inviti alla moderazione e a tornare al lavoro di monsignor Kaczmarek, vescovo di Danzica erano del tutto fuori luogo; era meglio se stava zitto. Ma ognuno doveva fare la sua parte. Quanto a me, l’ho fatta fino in fondo, stando giorno e notte accanto agli operai dei cantieri. E loro me ne sono stati grati: sopra il cancello 2, accanto all’immagine del papa, qualcuno aveva appeso un mio piccolo ritratto.


È stata una messa a rilanciare lo sciopero. Quando, il 14 agosto, sembrava tutto finito, sono andato in cantiere e ho detto a un Wałęsa ormai rinunciatario che per me la lotta cominciava allora. Fui facile profeta. Il vescovo non aveva autorizzato la funzione, ma io decisi di celebrarla lo stesso. Ho mandato bambini e studenti in tutte le case a dire agli operai di tornare. Sono tornati in 5000 e lo sciopero è ripartito.. In un telegramma al nostro primate Wyszyński, il santo padre pregava. Fui incaricato di leggerlo agli operai in sciopero, a nome del cardinale primate. Giovanni Paolo II si schierava con gli operai. Quella lettera diede nuovo coraggio e determinazione a tutti quanti. Ci sentivamo protetti. In realtà quella fu una rivolta sociale contro il comunismo, che vedeva la Chiesa con a capo il nostro papa schierati con la gente. Una Chiesa che in Polonia ancora adesso è all’opposizione, perché la battaglia non è ancora finita.»

Tadeusz Fiszbach, (1936) «Ero un membro influente dell’ala riformista del Poup e, nel 1980, ero segretario della regione di Danzica. Fin dal primo momento sono stato dalla parte degli operai in sciopero, per il dialogo e una soluzione politica. Al primo plenum del Poup, dopo gli scioperi, sono stato fischiato. Ma a Danzica gli operai avevano affisso in bacheca il testo del mio intervento con sopra scritto: ”Il calvo è con noi”.
Il nostro socialismo era radicato nella società. A differenza di altri partiti analoghi, quello polacco non era monolitico. Il dualismo con la Chiesa ha progressivamente favorito il manifestarsi dell’opposizione sociale. Fra l’altro, tra gli iscritti e i dirigenti c’erano molti fedeli. Dopo il colpo di Stato del 1981, mi hanno mandato all’ambasciata polacca a Helsinki, ma avrebbero voluto mandarmi ancora più lontano, perché volevano impedirmi di avere un ruolo nelle relazioni politiche dopo lo stato di guerra.
Nel 1989 sono stato eletto in parlamento. Quelli del mio partito mi hanno voluto come capogruppo, ricordando che ero tra coloro che avevano firmato gli accordi di Danzica. Era un parlamento di contrasti. Due anni e mezzo, il tempo necessario per traghettare il Paese verso elezioni veramente libere. Non sono mai entrato nell’Sld, la sinistra democratica postcomunista. Secondo me la socialdemocrazia andava fatta lievitare dal basso; bisognava anche recuperare la credibilità, ad esempio restituendo i beni immobiliari presi abusivamente o scrivendo la verità sulla storia del Poup.
I compagni di Cracovia mi volevano alla vicepresidenza del nuovo partito ma queste mie proposte non sono passate. Così, con un gruppo di compagni, abbiamo fondato l’Unione dei Socialdemocratici polacchi (Unia), un movimento che ha subito preso le distanze dal marxismo-leninismo e che vantava l’appoggio delle socialdemocrazie europee. Ma alle elezioni presidenziali del 1990 ci siamo divisi sull’appoggio ai candidati. Io ho lasciato. Molti ora dicono che ho fatto male.
Nel 1993 mi hanno mandato a Oslo, come addetto commerciale presso la nostra ambasciata. Da Oslo sono tornato nel dicembre 1998. Ora sono a casa, a disposizione del ministero degli Affari esteri. Aspetto proposte. Ho 65 anni e sono ormai prossimo alla pensione. Da un po’ di tempo sono tornato in chiesa. Provengo da una famiglia molto patriottica. In quel momento, forse, hanno suonato quelle corde.»

(sedicesima parte – continua)

Il tamburo di lotta

29 settembre 2010

A trent’anni dagli scioperi del Baltico – quindicesima parte
Le storie. Mieczysław Chełminak (1959)
di Giovanni Giovannetti

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Mieczysław Chełminak, classe 1959, viene assunto diciannovenne ai cantieri, dopo aver frequentato una scuola di meccanica esterna alla fabbrica. Lavoro e studio, anche 14 ore al giorno, per un salario lordo di circa 7000 złoty (1600 euro). Ci sono diversi livelli salariali: un giovane viene assunto con un salario di quinto livello; col lavoro straordinario si arriva ad uno di settimo livello, equivalente appunto a circa 7.000 złoty.

In pensione prima della scadenza

Nel dicembre 1980 Mieczysław si mette in aspettativa e lavora per Solidarność alla reception della sede. Dopo il colpo di Stato torna a lavorare in cantiere. Ma è molto malato. Nel 1995 va in pensione d’invalidità prima della scadenza. Sei anni dopo torna ancora alle dipendenze dei cantieri come istruttore, nello stesso reparto di prima. La salute non è migliorata, Chełminak non può fare lavori pesanti ma, come spiega, è costretto a lavorare per ragioni economiche, perché «in Polonia le pensioni sono bassissime e quelle di invalidità non arrivano neanche alla metà di uno stipendio medio mensile», che ora non supera i 550 euro lordi. Chełminiak è felice di questo lavoro.

Mieczyslaw Chelminak, 1959. «Sono stato assunto ai Cantieri nel 1978, dopo aver frequentato una scuola di meccanica esterna alla fabbrica. Avevo 19 anni. Lavoravo sette ore al giorno anche durante gli studi. Poi, dopo l’assunzione, lavoravo anche tredici ore al giorno.
Mi erano richieste molte ore di lavoro straordinario. Il salario medio era di circa 7.000 zloty. C’erano diversi livelli salariali: un giovane veniva assunto con un salario del quinto livello; col lavoro straordinario si arrivava ad un salario del settimo livello equivalente appunto a circa 7.000 zloty.
Durante gli scioperi del 1980 io dovevo occuparmi degli approvvigionamenti di cibo. Seguivo anche la delegazione governativa nel breve tratto dall’autobus alla sala riunioni. Nella sala grande sedevano i delegati delle fabbriche in lotta; nello stesso edificio, in una sala più piccola, si svolgevano le trattative.
Nel dicembre 1980 mi sono messo in aspettativa e ho lavorato per Solidarnosc: ero allareception della sede. Sono tornato a lavorare in cantiere dopo il colpo di stato. Ero in Cantiere anche nel dicembre 1981, con gli operai e gli studenti dentro ad occupare. Mercoledì 16 sono entrati con i carri armati, ci hanno messi contro il muro fuori dalla sala riunioni e sceglievano chi arrestare e chi mandare a casa. Mi hanno lasciato andare. Ero un pesce piccolo ma conoscevo i pesci grossi e loro mi hanno seguito sperando che li portassi da qualche dirigente alla macchia.
Già a quei tempi ero molto malato, così sono andato in pensione cinque anni fa, prima della scadenza».

(quindicesima parte – continua)

Il tamburo di lotta

23 settembre 2010

A trent’anni dagli scioperi del Baltico – quattordicesima parte
Le storie. Jurek Michalski (1974)
di Giovanni Giovannetti

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Jurek Michalski ha 6 anni quando il padre Stanisław, attore, direttore artistico e segretario del Poup nel Teatro Wybrzeże, lo porta nei cantieri in sciopero.
Il 29 agosto Stanisław Michalski è a casa in vacanza e deve occuparsi del figlio in assenza della madre. Passa ugualmente dal teatro. Qui i colleghi gli riferiscono la loro visita ai cantieri del giorno prima e lo informano che gli operai hanno chiesto di lui. I Michalski vivono a Żabianka, un quartiere popolare dove abitano molti lavoratori dei cantieri. Dunque, gli operai lo conoscono bene: «Che altro potevo fare? Ho preso Jureczek e siamo tornati ai cantieri». Come il giorno precedente, ha luogo un recital improvvisato. Stanisław sceglie un frammmento di Pan Tadeusz, opera di Adam Mickiewicz. «Mentre recito “Che viva il popolo, che vivano i soldati, che vivano gli Stati” gli spettatori cominciano ad applaudire. Poi si alzano in piedi e intonano l’inno nazionale. Avevo le lacrime agli occhi. Un entusiasmo, una fede così non li ho ritrovati mai più, perché tutto è scoppiato come una bolla di sapone. Succede sempre così, a noi polacchi. Quando la patria è in pericolo, corriamo come matti con la baionetta in canna. Poi vincono le gelosie e cominciano le lotte fratricide».


Mettere le dita a V

Su quel palco, davanti agli operai dei cantieri, Stanisław, controllando una fortissima emozione, aiuta il piccolo Jurek nel saluto finale alle delegazioni operaie: gli alza la mano con le dita a V, nel segno della vittoria. Il figlio non capisce la ragione delle due dita alzate e non una, come gli hanno insegnato all’asilo.
Dopo gli scioperi Stanisław Michalski si iscrive al nuovo sindacato, come il 95 per cento della sua compagnia teatrale. Nel dicembre 1981, quando il generale Jaruzelski proclama lo stato di guerra, Stanislaw ha in tasca le tessere del Poup e del Nszz Solidarność.
Nel 1982, l’anno più buio dello stato di guerra, Michalski viene eletto delegato al congresso straordinario del partito. Nel modulo di accredito al congresso si chiede di indicare l’appartenenza ad altre organizzazioni: Stanisław scrive “Solidarność”, un atto di coraggio del quale ancora oggi va fiero. Nel Poup rimarrà fino allo scioglimento del 1990.
Jurek, oggi trentenne, ha un vivido ricordo di quel giorno: «Non capivo, li vedevo di profilo, a me sembrava che levassero al cielo un dito. E li ho imitati. Mio padre mi ha corretto alzando anche il dito medio, nel segno di vittoria. Non avevo alcuna percezione dello sciopero e di quanto stava accadendo. C’era una sala affollata e un palco sul quale io giocavo: saltellavo, mi infilavo sotto il tavolo, imitavo i grandi. Mio padre mi ha rimproverato: “Siediti qui e stai zitto e buono”. Solo da grande, per conto mio, ho potuto capire la portata di quegli eventi dentro e fuori i cantieri».
Jurek lavora nel teatro musicale fondato dalla nonna. È un attore e cantante di successo.

Jurek Michalski (1974).«Quel giorno di fine agosto 1980 io c’ero, unico bambino passato lì dentro. Ero su quel palco con mio padre e gli attori del Teatr Wybrzeze per un saluto ai rappresentanti operai riuniti nei Cantieri. Mia madre aveva da fare, così mio padre, dovendo badare a me, mi ha portato con sé ai cantieri. Provengo da una famiglia di attori. Negli anni Sessanta mia nonna ha introdotto il Musical in Polonia, mio padre e mia madre sono attori e anch’io recito e canto.
Dopo aver cantato l’inno nazionale gli attori intorno a me hanno alzato la mano. Non capivo, li vedevo di profilo e a me sembrava che levassero al cielo un dito. E li ho imitati. Mio padre mi ha corretto alzando anche il dito medio, nel segno di vittoria. Non avevo alcuna percezione dello sciopero e di quanto stava accadendo. C’era una sala affollata e un palco sul quale io giocavo: saltellavo, mi infilavo sotto il tavolo, imitavo i grandi. Mio padre mi ha rimproverato: “siediti qui e stai zitto e buono”. Solo da grande, per conto mio, ho potuto capire la portata di quegli eventi dentro e fuori il Cantiere.
Oggi lavoro come attore nel teatro fondato da mia nonna, teatro musicale. Canto e recito nei Musical: attualmente sono Gesù Cristo nella versione polacca di “Jesus Christ Superstar”, un grosso passo avanti nella mia carriera. Porto in scena anche un altro spettacolo sulla vita dei montanari. Per me la scelta di calcare le scene è stata del tutto naturale. Tutti in famiglia fanno teatro. Ci sto ogni giorno. Che altro potevo fare nella vita? Così ho frequentato la scuola di recitazione e canto. Non mi voglio imporre obiettivi, col teatro voglio andare avanti più che posso.
Naturalmente del comunismo non so molto. Ma limitandomi all’ambiente del teatro ritengo che gli attori stessero molto meglio ai tempi del regime nonostante la censura. Presa alla lettera la teoria comunista, l’idea, non è poi tanto male: il mondo cambia e forse alla democrazia o a un comunismo dal volto umano ci saremmo arrivati anche senza Solidarnosc. Oggi i teatri sopravvivono con le sovvenzioni comunali, veramente pochi soldi, ma sono liberi di rappresentare quello che vogliono.
Si è creato un mercato degli artisti, che girano da una città all’altra, affittano i teatri o fanno spettacoli all’aperto. Così guadagnano.
Ai tempi del comunismo il tipico Musical americano non poteva andare in scena. C’erano dei surrogati, degli spettacoli musical-teatrali, ma il Musical vero e proprio in Polonia è arrivato solo nel 1983, con “Il violinista sul tetto”, andato in scena al teatro di Gdynia. Proprio in questi giorni quello spettacolo è arrivato alla sua cinquecentesima rappresentazione».

(quattordicesima parte – continua)

Il tamburo di lotta

18 settembre 2010

A trent’anni dagli scioperi del Baltico – tredicesima parte
Le storie. Ryszard Lewandowski (1950)
di Giovanni Giovannetti

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Nell’agosto 1980 Ryszard Lewandowski ha 30 anni. Lavora ai cantieri come idraulico dal 1968. È iscritto alla Zms, Gioventù socialista, solo per avere una tessera in tasca, perché non si sa mai. Nel 1976 è a capo dell’organizzazione giovanile dei cantieri. Ricorda che poco prima di annunciare i nuovi aumenti di prezzo dei generi alimentari, le autorità hanno convocato i capi distretto, i leader delle organizzazioni giovanili e i segretari del Poup dei cantieri, per fornire loro alcune indicazioni su come affrontare l’argomento coi compagni: «Io ho detto che sarei stato il primo a condurre i ragazzi davanti alla sede della direzione per protestare. E così ho fatto. Ma sono rimasto nella Gioventù socialista, e questa è la ragione principale per cui non ho mai fatto politica. Non ho voluto che i miei avversari me ne tirassero fuori».

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Il tamburo di lotta

15 settembre 2010

A trent’anni dagli scioperi del Baltico – dodicesima parte
Le storie. Wojtek Tucholski (1958)
di Giovanni Giovannetti

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Wojtek Tucholski, classe 1958, entra ai cantieri nel 1974. Nel 1978 passa al tempo pieno lavorativo, dopo un corso scolastico di avviamento professionale come elettrotecnico e dopo un tirocinio di sei anni: monta cavi elettrici sulle navi. L’elettricista Lech Wałęsa è stato licenziato da poco. A Tucholski viene dato il suo armadietto. Solo due anni dopo, durante lo sciopero del 1980, viene a sapere che il baffone dell’armadietto e il famoso Wałęsa dei sindacati liberi sono la stessa persona.

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Il tamburo di lotta

4 settembre 2010

A trent’anni dagli scioperi del Baltico – undicesima parte
Le storie. Zbigniew Lis (1948)
di Giovanni Giovannetti

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Durante gli scioperi dell’agosto 1980, Zbigniew Lis è il responsabile del servizio d’ordine. Zbigniew, tecnico disegnatore, è stato assunto ai cantieri nel 1969, a 21 anni. Non ha mai avuto contatti con i sindacati liberi, ma le sue capacità organizzative sono preziose nei giorni più caldi delle trattative: dentro i cantieri ci sono anche i rappresentanti di partito e Governo, e tocca al servizio d’ordine operaio garantirne l’incolumità: «bastava una provocazione, anche piccola, e tutto sarebbe finito», ricorda Lis.


In affari fuori dai cantieri

Gli agenti dei servizi di scorta alla delegazione governativa forniscono loro alcune nozioni-base: a che distanza tenere le persone dai ministri e quali precauzioni mantenere durante il breve tragitto dei rappresentanti di partito e Governo dal pullman alla sala delle trattative. Se tutto è filato liscio, buona parte del merito va a Lis e ai suoi uomini.
Nel territorio libero dei cantieri in sciopero c’è più disciplina che in una caserma: niente alcol, niente risse, tutti leggono ”Solidarność” (il bollettino del Comitato di sciopero) e ascoltano le trattative attraverso l’impianto interno di amplificazione. Al suo primo arrivo in fabbrica, il 23 agosto, la delegazione ufficiale è accolta al cancello 2 nel più rigoroso silenzio. È un’idea di Lis, e mai silenzio è parso più rumoroso. In quel clima surreale la delegazione governativa sfila tra due mute ali di folla dal cancello 2 alla sede delle trattative, la saletta attigua alla mensa, dove la aspettano i rappresentanti operai guidati da Wałęsa. Dal giorno seguente la delegazione entrerà in fabbrica da un altro cancello senza scendere dal pullman.

«L’entusiasmo era così forte che potevamo fare di tutto. Qualcuno la sera ha proposto di disegnare un progetto per il monumento ai caduti del 1970 e la mattina seguente i carpentieri hanno portato un modello pronto, in legno. Un momento magico della storia, una leva in massa. Proprio per questo ci è riuscita quella Solidarność».
Zbigniew esce dai cantieri nell’aprile 1997, con la lettera di licenziamento in mano e la voglia di provare la libera professione: «Oggi ho una avviata ditta di consulenza nel campo delle ristrutturazioni industriali. E, come in passato, continuo a progettare navi». Quanto a Solidarność, Zbigniew non nasconde la propria amarezza: «Noi di Solidarność abbiamo perso. Perché ci siamo illusi di poter continuare a fare politica come durante lo sciopero, che bastasse osare, volere. Non ci rendevamo conto che, dopo la vittoria, avremmo dovuto misurarci con una realtà grande e complessa e sfidare le ambizioni personali di molti di noi. Così abbiamo fatto un bel regalo ai comunisti».

Zbigniew Lis (1948). «La prima volta che ho messo piede nel Cantiere avevo 14 anni. Frequentavo la scuola interna di formazione professionale. Dopo sei anni di studio e lavoro insieme, nel 1969, a 21 anni, mi hanno assunto: tecnico disegnatore ai progetti delle navi. Ho svolto questo incarico fino al dicembre 1981, fino al colpo di stato, quando sono finito in prigione per sette mesi seguiti da altri sette mesi. Ma ero in buona compagnia.
Nell’ agosto 1980 ero il responsabile del servizio d’ordine. Non avevo mai avuto contatti con i sindacati liberi, ma quando è nata Solidarnosc io sono diventato uno di loro. Nessuno di noi aveva previsto un tale salto di qualità, dunque eravamo impreparati. Quelli con più capacità organizzativa hanno allora preso in mano la situazione, ma tutto avveniva come per caso. Era aumentato l’interesse, anche internazionale, verso lo sciopero. Arrivavano giornalisti dall’estero e questo ci rassicurava e ci dava coraggio. Io e altri eravamo anche passati per gli scioperi del 1970, quando gli studenti non avevano aderito dopo che, due anni prima, gli operai non avevano appoggiato la protesta studentesca. Nel 1968 io ero uno studente lavoratore. E non sapevo cosa fare. Nel 1980 sapevo benissimo cosa fare, ad esempio aprire il cancello agli studenti.
Poi il colpo di stato, la galera, il campo di internamento, la restaurazione, la crisi acuta della cantieristica sul Baltico. Solo pochi di noi lavorano ancora nei Cantieri. Dopo la chiusura del 1997 ci sono stati molti prepensionamenti. Altri, come me, lavorano nel privato o hanno cambiato mansioni. Quella dell’80 era una classe operaia dotata di un forte spirito di iniziativa. Risorse che sono venute buone anche dopo, con la chiusura della fabbrica. Io, ad esempio, dopo il licenziamento ho avviato una mia ditta di consulenza: continuo a progettare navi e offrire consulenze per le ristrutturazioni industriali. Ho lavorato anche con le ditte dei Cantieri».

(undicesimaparte – continua)

Il tamburo di lotta

30 agosto 2010

A trent’anni dagli scioperi del Baltico – Decima parte
Le storie. Tadeusz Pruchnicki (1936)
di Giovanni Giovannetti

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Tadeusz Pruchnicki, classe 1936, abita in una casa-alveare di periferia, nel quartiere Zaspa di Danzica. A pochi isolati, fino a vent’anni fa, in una casa anche peggiore abitava Lech Wałęsa. Anche lui ha una storia da raccontare. Nel 1943, è deportato dai tedeschi nel campo di concentramento di Dachau con la madre e la sorella. Se la cava perché la madre parla un buon tedesco e viene spesso utilizzata come interprete.
Dopo la liberazione alleata, nell’ottobre 1945 i tre tornano a casa. Nel marzo 1963, Tadeusz trova lavoro ai cantieri Remontowa, adiacenti ai Lenin, come fabbro, specializzato nei montacarichi navali.


È abbastanza anziano da ricordare lo sciopero del dicembre 1970, quando esercito e polizia aprono il fuoco sugli operai: «Ho sentito le pallottole fischiarmi intorno, ma fortunatamente l’ho scampata». Nei primi giorni, i militari non possono reagire e usare le armi; addirittura, Pruchnicki e altri operai si impossessano di un carro armato e per divertimento vanno a spasso per Danzica fino a che il carburante finisce. Poi l’autorizzazione a sparare e la tragedia, i morti a Danzica e Gdynia. Anche gli operai si armano con qualche pistola sottratta alla Milicja, acciottolato divelto dalle strade e bombe molotov.
Durante lo stato di guerra del 1981, Pruchnicki è tra i 500 operai (su 6700) che per tre giorni occupano i Remontowa. Invalido, il 29 aprile 1993 ottiene il prepensionamento (1100 złoty mensili). L’ultima busta paga di Tadeusz è stata di 4 milioni di vecchi złoty, equivalenti a circa 4000 attuali (900 euro). Nelle presidenziali del 1995 e del 2000 ha votato per Kwasniewski e la sinistra; nel 1990 ha votato Wałęsa e Solidarność, ma, da presidente, Wałęsa «non ha voluto firmare la legge sul pensionamento anticipato, obbligandomi così a lavorare altri due anni. Noi dobbiamo vivere con poco ma c’è chi tra i dirigenti di Solidarność ha accumulato molto. Una casa costa ormai più di 2000 złoty al metro quadro e un operaio non è più in grado di comprarsela».

Tadeusz Pruchnicki (1936). «Vede queste medaglie? Sono riconoscimenti alla mia laboriosità: croce d’oro, croce al merito, medaglia per i 35 anni di lavoro…Avevano valore ai tempi del regime, ora non contano più niente, ma per me contano ancora. Non sono mai stato iscritto al partito. Ho fatto solo parte delle organizzazioni giovanili. Dunque le mie medaglie me le sono guadagnate davvero.
Nel 1980 avevo 44 anni. Lavoravo al cantiere Remontowa, adiacente al Lenin, dal marzo 1963. Ero fabbro. Aggiustavo i montacarichi delle navi. La mia famiglia è del sud, veniamo da Wieruszowa. A quel tempo l’Istituto professionale apriva la strada al lavoro. Ma voglio fare un passo indietro, al 1943, perché in quell’anno io mia madre e mia sorella siamo finiti nel campo di concentramento di Dachau. I tedeschi consideravano Wieruszowa territorio germanico, così ci hanno internati. Dachau era un campo di passaggio, io ero molto piccolo e non ricordo bene. Mia madre parlava il tedesco: lavorava nelle cucine del campo e occasionalmente faceva da interprete. Ero rinchiuso in una baracca, ma ogni tanto potevo stare con lei nel palazzo delle SS.
Sette mesi più tardi, con l’avvicinarsi della prima linea, ci hanno portati in Baviera. Nel nuovo campo si stava meglio: avevo otto anni e facevo il giardiniere. Poi sono arrivati gli americani. Sei mesi in un loro campo. Nell’ottobre 1945 siamo tornati a Wieruszowa.
Mio padre ha preso lavoro alle acciaierie Krupp. Io nel 1954 ho ceduto al fascino del mare e mi sono spinto fino a Gdansk. Per qualche hanno ho fatto il geologo, poi sono entrato in cantiere.
Ricordo lo sciopero del 1970. Mi hanno anche sparato addosso, durante una manifestazione, davanti alla stazione ferroviaria: tutti scappavano, mi hanno puntato, ho sentito le pallottole fischiarmi intorno, ma fortunatamente l’ho scampata. Da poche ore l’esercito era stato autorizzato ad usare le armi. Prima c’erano stati anche momenti di puro divertimento come quando, approfittando del fatto che loro non potevano reagire, abbiamo sequestrato un carro armato e girato per la città fino all’esaurimento del carburante. Poi la tragedia, morti a Gdansk e Gdynia. Anche gli operai avevano qualche arma: pistole prese alla Milicja.
Il passaggio del potere tra Gomulka e Gierek aveva offerto nuove speranze. Ma le condizioni materiali di vita non sono migliorate: guadagnavo tremila zloty e mi era difficile mantenere la famiglia.
Io stavo coi sindacati ufficiali. Mi occupavo di vacanze gratuite per i figli dei lavoratori, assistenza medica, case, eccetera. Nel dicembre 1980 sono entrato in Solidarnosc e devo dire che lì lavoro pratico zero: Se dai sindacati ufficiali riuscivo ad ottenere qualcosa – e se non ottenevo dal sindacato andavo al partito – con Solidarnosc niente.

Quando il 16 agosto 1980 Walesa ha firmato l’accordo solo per il cantiere Lenin, noi del cantiere Remontowa e del cantiere Nord eravamo proprio arrabbiati. I cantieri Lenin sono separati dai nostri da un solo cancello. Verso le ore 18 noi stavamo a quel cancello e abbiamo visto quelli del Lenin che tornavano a casa. E noi? Eravamo rimasti soli. Allora abbiamo organizzato un nostro comitato di sciopero che ha continuato l’occupazione. Anche tra i lavoratori del Lenin c’era chi voleva continuare. Walesa lo ha saputo e lo sciopero è ripreso anche da loro. Il 17 agosto Walesa ha tentato di entrare nel nostro cantiere. Noi gli abbiamo chiuso il cancello in faccia. Allora è salito su un carrello, ci invitava a unirci a loro. Che ipocrita! Uno di noi più arrabbiato degli altri lo ha raggiunto e lo ha picchiato a sangue. Solo tre giorni dopo, con la mediazione di Andrzej Gwiazda, abbiamo aderito al loro comitato di sciopero.Da noi la situazione era più calda: dal mare erano arrivate alcune navi militari: due o tre volte al giorno entravano in canale. Una volta ne ho contate cinque. Noi siamo marinai della riserva: in 2500 con la divisa da marinai, ci siamo messi uno accanto all’altro lungo la riva del canale. Gridavamo ai militari delle navi di unirsi a noi. Da quel giorno le navi non sono più venute.
Ho lavorato al cantiere fino al 29 aprile 1993: 30 anni e 29 giorni. Ero invalido e mi hanno dato il prepensionam
ento.
Durante lo stato di guerra abbiamo occupato il cantiere. Eravamo in pochi, circa 500. Purtroppo gli altri, oltre 6000 persone, impauriti, sono scappati. Siamo rimasti lì dentro fino a mercoledì, poi sono arrivati gli Zomo, le riserve militanti della Milicja: erano tremila. Ci hanno portati al cantiere Lenin e segregati in due stanze. Poi, dieci per volta, ci hanno lasciati andare. Qualcuno ha detto che quegli Zomo erano delinquenti comuni prelevati dalle carceri e messi in divisa.
Quando mi sono dimesso guadagnavo 4 milioni di zloty, equivalenti a circa 4000 zloty della vecchia moneta. Adesso ho una pensione di 1100 zloty.
Ho i miei buoni motivi per avercela con Walesa: quando era presidente non ha voluto firmare la legge sulle pensioni anticipate obbligandomi così a lavorare altri due anni; e poi tutti sanno che negli anni Settanta collaborava con i Servizi speciali. C’erano le prove, che, guarda caso, sono sparite negli anni della sua presidenza.
Nelle elezioni presidenziali del 1990 ho votato per Walesa; cinque e dieci anni dopo per Kwasniewski e la sinistra. In Polonia migliaia di persone devono procurarsi da mangiare tra i rifiuti. Una legge sull’aborto molto restrittiva costringe le donne ad abortire illegalmente. Non si fa così. Noi dobbiamo vivere con poco ma c’è chi accumula molto. Una casa costa ormai più di 2000 zloty al metroquadro, e un operaio non è più in grado di comprarsela».

(decima parte – continua)

Il tamburo di lotta

24 agosto 2010

A trent’anni dagli scioperi del Baltico – nona parte
Le storie. Stanislaw Dziedziul (1932)
di Giovanni Giovannetti

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Poche decine di metri separano i cantieri di Danzica dalla Poczta Polska, la posta, un bel palazzo in mattoni rossi rivolto a ovest. In questo edificio, la mattina del 1° settembre 1939, le SS attaccano e uccidono metà dei cinquanta impiegati. Sono i primi morti della seconda guerra mondiale. Dal mare, l’incrociatore Schleswig-Holstein bombarda il deposito di munizioni della Westerplatte, una penisola all’imbocco del canale. La ”città libera” e la sua guarnigione di 182 uomini resistono per una settimana ai tedeschi.

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Il tamburo di lotta

21 agosto 2010

A trent’anni dagli scioperi del Baltico – ottava parte
Le storie. Marian Moćko (1936-2000)
di Giovanni Giovannetti

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Marian Moćko, classe 1936, dal 1958 al 1992 operaio dei cantieri Lenin, è morto in un incidente stradale. Caduto sulla breccia, come dicono i suoi colleghi. Qualcuno è convinto che in quella calda giornata di fine estate 2000 Moćko sia stato assassinato. Moćko era uno degli animatori dell’Arka, una associazione sorta per tutelare lavoratori ed ex lavoratori dei cantieri da un «criminale imbroglio»: Moćko l’irriducibile, Moćko l’ingenuo idealista. Lo avevamo incontrato a Danzica pochi mesi prima della sua morte e ne serbiamo un caro ricordo.

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Il tamburo di lotta

17 agosto 2010
A trent’anni dagli scioperi del Baltico – settima parte
Le storie. Zenon Kwoka (1954)
di Giovanni Giovannetti
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Zenon Kwoka, classe 1954, lavorava alle officine dei trasporti urbani. Il 14 agosto 1980 organizza lo sciopero dei trasporti a Danzica, Gdynia e Sopot. Quando le autorità concedono un notevole aumento degli stipendi, Kwoka a stento riesce a convincere i colleghi a continuare lo sciopero di solidarietà con i cantieri.

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Il tamburo di lotta

14 agosto 2010

A trent’anni dagli scioperi del Baltico – sesta parte
Le storie. Bogdan Lis (1954)
di Giovanni Giovannetti

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Bogdan Lis ha un curriculum vitae che, nei primi anni della Polonia democratica, garantisce almeno un incarico ministeriale: è stato uno dei fondatori di Solidarność, ma già nel 1978 era un attivista dei sindacati liberi Wzz, da cui Solidarność è sorta. Nel 1980 è a capo del Comitato di sciopero alla Elmor, una fabbrica di impianti elettrici per le navi, dove il giovane Lis lavora, vicecapo del Comitato di sciopero generale Mks e tra i firmatari degli accordi di Danzica.

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Il tamburo di lotta

11 agosto 2010

A trent’anni dagli scioperi del Baltico – quinta parte
Le storie. Lech Wałęsa (1943)
di Giovanni Giovannetti

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Nel vocabolario di Lech Wałęsa komuna (comunisti) è l’insulto peggiore. Wałęsa oggi è un ex leader di Solidarność, un ex presidente della Repubblica, un ex eroe nazionale, un ex punto di riferimento dell’antagonismo politico e sociale ai komuna del generale Jaruzelski. Ha un passato ingombrante e un futuro decisamente incerto, specie dopo la sconfitta alle presidenziali del 1995 e la vera e propria debacle del novembre 2000 contro il presidente in carica Aleksander Kwaśniewski, l’ex giovane leone postkomuna.

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Il tamburo di lotta

8 agosto 2010

A trent’anni dagli scioperi del Baltico – quarta parte
Le storie. Anna Walentynowicz (1929-2010)
di Giovanni Giovannetti

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Tra le vittime della tragedia aerea che, in Russia, ha decapitato la classe dirigente polacca, figura va anche il nome di Anna Walentynowicz. La pasionaria degli scioperi del Baltico aveva ormai aver fatto l’abitudine al ruolo di donna – simbolo. Dal suo licenziamento, nell’agosto 1980, prende il via la protesta operaia; durante lo sciopero è la più intervistata dalla stampa occidentale; la sua biografia ispira ad Andrzej Wajda la figura di Maciek Tomczyk, il figlio di Mateusz Birkut, ne L’uomo di ferro. Ma c’è un precedente clamoroso nel 1950, quando il volto di Anna viene riprodotto in un manifesto e sui giornali tra una falce e un martello, e Anna diventa una icona laica del socialismo polacco. Come nel quadretto appeso al muro della sua fabbrica, che riproduce il volto di una operaia, al lavoro «per costruire un mondo migliore». Quando Anna lo guardava, si identificava in lei e, piena di ardore patriottico, andava a lavorare: «Ci credevo. Credevo anche alle frasi scritte sui muri, “La gioventù costruisce le navi”, e cose del genere. Ero grata alla Polonia popolare che mi permetteva di lavorare e di vivere».

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