Archive for the ‘scuola’ Category

Tutti a casa alé

8 settembre 2009
Nella scuola licenziati 150mila lavoratori in meno di tre anni
di Giuseppe Caliceti

Chiamiamo le cose col loro nome: oggi nella scuola italiana è in atto il più grande licenziamento di massa della storia della nostra Repubblica.
È un fatto storico, drammatico, ma ben pochi organi di informazione ne parlano. Gelmini ha parlato di 150 mila lavoratori in meno in tre anni: se fossero lavoratori della Fiat o dell'Alitalia scoppierebbe una mezza rivoluzione, ma visto che a licenziare è lo Stato e licenzia docenti, tutto, inquietantemente, tace.
Prima di ogni elezione ogni politico ci ricorda che occorre investire di più nei giovani e nella formazione perché sono il nostro futuro.
Ma oggi il nostro Paese è noncurante del futuro grigio che l'attende ed è appiattito su un presente manipolato quotidianamente da un'informazione governativa di parte che condiziona pesantemente ogni settore dell'opinione e della vita pubblica. Scuola compresa.
Il licenziamento di massa colpisce soprattutto i precari, la cosiddetta plebe indocent. Alcuni occupano le sedi degli ex uffici scolastici provinciali, gli ex provveditorati agli studi. Altri si raccolgono in sit-in. Altri fanno lo sciopero della fame. Altri ancora, ben 15.000, patrocinati dall'Anief – l'Associazione nazionale insegnanti ed educatori in formazione -, hanno ottenuto dal Tar Lazio l'inserimento in graduatoria «a pettine» (cioè, in base al punteggio) e non «in coda», come preteso dalla Lega. Per il momento il ministero ha dato indicazioni di ignorare la sentenza in attesa che il Consiglio di Stato confermi o meno quanto già stabilito dal Tar: se dovesse dargli ragione, si dovranno ripetere le nomine a anno scolastico iniziato, creando ulteriore caos nelle aule.
I tagli agli organici del personale previsti in questo primo anno sono 42.500 tra gli insegnanti e 15.000 tra il personale ausiliario.
E questo sarebbe solo l'inizio di un «virtuoso» triennio. Saranno almeno 16.000 i supplenti di scuola media e superiore che non troveranno più la cattedra. A loro occorre sommare i colleghi della scuola elementare, appiedati dallo smantellamento del «modulo». E almeno 10.000 Ata che, dopo anni di supplenza e l'aspettativa di entrare di ruolo, si ritrovano di punto in bianco disoccupati. E' facile prevedere che nei prossimi giorni, quando si svolgeranno le convocazioni per l'assegnazione delle supplenze, la protesta si estenderà a macchia d'olio: solo allora, infatti, tutti avranno l'esatta percezione di quanti di loro resteranno senza lavoro. E al Sud ci si accorgerà improvvisamente di trovarsi in una vera e propria emergenza sociale: tanto è vero che, dopo aver brandito la scure, ora anche Tremonti parla timidamente di cassa-integrazione per i docenti.
Gelmini, annunciando nei giorni scorsi le novità sul reclutamento e la formazione dei nuovi insegnanti, che in buona parte possiamo anche condividere, è come le maestrine della penna rossa di una volta: fa un bel segno su quello che c'era prima, strappa la pagina, tutto da rifare, senza preoccuparsi di chi rimarrà senza lavoro.
Ma c'è di più: il ministro vieta di protestare. Perché, per esempio, «ogni dirigente scolastico, a qualunque parte politica appartenga, è tenuto al dovere di lealtà verso lo Stato e al necessario riserbo nelle sue esternazioni». Parola dell'onorevole Garagnani (Pdl). Ma la pensa così anche il direttore scolastico regionale dell'Emilia Romagna: non ritiene che una preside, Daniela Turci, consigliere comunale a Bologna, possa criticare le politiche della Gelmini. Questa è la regola non scritta della Gelmini: siate ubbidienti e servili.
L'ideologia pericolosa del Governo-Azienda si riproduce nella Scuola-Azienda. Non ti licenzio, osi protestare? La concezione della democrazia e del rapporto fra i funzionari dello Stato e loro dirigenti è sempre più preoccupante. Chi è dipendente dello Stato non potrebbe esprimersi criticamente e pubblicamente su come i superiori operano per quel «bene comune» che è sempre meno bene e sempre meno «comune». Per quanto tempo ancora i direttori generali, regionali, provinciali, e pure tantissimi presidi tenteranno di tenere chiuso il coperchio d'una pentola che, ora per ora, borbotta sempre più? Nessuno si accorge che stiamo arrivando a larghe falcate alla fascistizzazione della Scuola?

Il razzismo è una brutta storia

24 Maggio 2009
di Giuseppe Caliceti

Il numero di immigrati in Italia è più che triplicato solo nell’ultimo decennio. Sono oltre tre milioni. E i bambini? Nessuno lo sa con precisione.
Sono meno che in altri Paesi europei, ma certo in questi anni da noi il malcontento e il razzismo verso di loro è cresciuto, fomentato anche da alcuni movimenti politici. Reggio Emilia è oggi quarta in Italia per incidenza immigrati. Pur avendo straordinarie eccellenze educative riconosciute a livello nazionale e internazionale, anche qui capita che gli immigrati siano sempre più visti come un problema di ordine pubblico e come una minaccia all’identità culturale del nostro paese. Ho iniziato a insegnare nel plesso di Reggio Emilia come maestro elementare di ruolo nel 1983. Per alcuni anni, fui distaccato dal normale insegnamento su classe per curare un progetto ministeriale per l’integrazione dei bambini stranieri all’interno delle elementari di Sant’Ilario d’Enza, un paese tra Parma e Reggio Emilia. Allora c’erano solo alcune decine di bambini di origine non italiana, ora diverse centinaia, ma quel progetto è soppresso da tempo. Sono tornato al mio normale lavoro di insegnante di classe: l’immigrazione cresceva e nelle scuole c’erano sempre più bambini di origine non italiana.
Quanti alunni stranieri avrò conosciuto in questi venticinque anni di scuola? Duecento? Quattrocento? Di più? Non so, ma ho sempre cercato di accogliere tutti e di ascoltarli con attenzione, clandestini compresi. Ho cercato di rispettare i loro silenzi finché, in modo inaspettato, è scattata in loro la voglia di raccontarsi e rileggere, a volte anche in modo fantastico, la propria esperienza. Hanno aiutato me e tanti alunni italiani a guardare con occhi nuovi al complesso fenomeno dell’immigrazione e ai problemi a esso connessi, mettendo spesso in discussione le nostre presunte superiorità e certezze. Ci siamo aiutati a guardare in modo diverso il mondo e il Paese in cui ci siamo trovati ad abitare. Fin da principio ho preso l’abitudine di trascrivere parole, frasi, conversazioni, testi scritti da questi bambini. In più di un’occasione sembrava di rivivere la favola del Brutto Anatroccolo, ma non sempre. Una volta ambientati in Italia, ho chiesto loro cosa ne pensassero dell’Italia e degli italiani.
Ho raccolto i frammenti di tante storie, riflessioni, confidenze piene di speranza e di paura, di realtà e di fantasie, di tristezze e di allegrie, di ingenue osservazioni e di fantastici fraintendimenti. Ne è uscito questo ritratto inedito dell’Italia di oggi e degli italiani. Ho cambiato i loro nomi per ragioni di privacy, ma non la loro età e la loro nazionalità. Questo è libro è dedicato sia a loro che ai loro compagni di classe italiani. Ma anche a tutti i loro genitori. Grazie. Buona lettura.

(Il brano qui sopra è l’introduzione a Italiani, per esempio. L’Italia vista dai bambini immigrati, presentato alla Fiera del Libro di Torino. Edito da Feltrinelli, il libro raccoglie le voci di piccoli studenti extracomunitari delle scuole reggiane, e condensa la mia esperienza di maestro elementare. Il volume si inserisce in un progetto più ampio "Il razzismo è una brutta storia" promosso dalla casa editrice milanese per tutto il 2009, e costituisce l’assaggio di una versione ampliata, la cui pubblicazione è prevista per il 2010).

Cara CGIL scuola ti scrivo

5 marzo 2009
di Giuseppe Caliceti

Alcune settimane fa un’amica, Linda, che fa parte del Coordinamento Insegnanti e Genitori di Reggio Emilia in mobilitazione contro i tagli alla scuola compiuti dalla Gelmini, mi ha chiesto di girare un mio articolo pubblicato su “Il Manifesto” e su “reggio24ore” agli iscritti al Coordinamento. Ho detto che naturalmente poteva farlo. Anzi, mi faceva piacere. Qualche giorno fa mi ha girato questa mail firmata da Alan Albertosi insieme al resto dell’Ufficio scuola FLC di Reggio Emilia, di fatto la CGIL Scuola di Reggio Emilia. La lettera è stata inviata, col consenso dell’autore, a tutti gli iscritti al Coordinamento da Emiro Endrighi, l’infaticabile animatore del Coordinamento. Non fosse stata inviata agli iscritti, avrei lasciato perdere. Voglio dire: ora non sarei qui a scrivere quello che sto scrivendo. E’ noto che ognuno ha le sue idee e, aggiungo, è un bene. Ma essendo stata inviata a tutti gli iscritti al Coordinamento – di cui fanno parte tanti genitori e docenti preoccupati come e forse anche più di me per quello che sta avvenendo nella scuola pubblica italiana – credo sia mio diritto e dovere parlarne. Ecco la lettera di Alan Albertosi e del resto della Cgil Scuola di Reggio Emilia.

Caro Emiro,
ho letto con un certo imbarazzo la lettera aperta di Linda e Giuseppe Caliceti ("illustre" firma del Manifesto e docente dell’ IC S.Ilario, nonché "fantasma" nelle assemblee sindacali). Oltre a vari passaggi condivisibili sulla latitanza della sinistra, del governo ombra (Garavaglia), sull’assenza di un progetto alternativo di scuola pubblica… i due autori si lanciano nella rituale invettiva contro i sindacati, Cgil compresa.
Ora, accusare la FLC- Cgil di «strategia poco chiara» di «prendere tempo» mi pare francamente scorretto. Dopo un autunno intensissimo di incontri informativi, assemblee sul territorio, dibattiti che abbiamo condiviso con il Coordinamento e ora il Tavolo (la cui ossatura è di iscritti FLC e membri del nostro Direttivo provinciale) ci sembra completamente ingiusto. Con il nuovo anno, poi, abbiamo consultato il personale della scuola, docenti e ATA, con un ODG che, oltre alla mancata firma del CCNL – secondo biennio economico, aveva come tema prioritario la "riforma" Gelmini, i regolamenti, la circolare sulle iscrizioni e tutte le emergenze del ciclo primario. Abbiamo consultato oltre 3000 lavoratori della scuola con 66 assemblee territoriali: un lavoro informativo capillare per tenere l’attenzione desta e coinvolgere i dipendenti ma anche gli utenti (anche gli insegnanti sono fruitori del servizio e genitori…)
Caro Emiro, a chi giova questa polemica sterile? Ora siamo "ventre a terra" con i trasferimenti ma sempre disponibili a confrontarci, magari a quattr’occhi con questi "guru" della scuola che straparlano… spesso usando i dati e le statistiche in modo approssimativo…
Alan Albertosi e il resto dell’Ufficio scuola FLC

Confesso che ho pensato parecchio prima di rendere pubblico questo scambio di mail. Per i miei buoni rapporti con Cgil. Perché ho collaborato con Cgil. Per la mia stima in Cgil. Per la mia amicizia con Enrico Panini. Perché mi sembrava ingiusto gettare anche solo una possibile ombra nei confronti della Cgil che considero, nel suo complesso, una delle forze più sane, importanti e combattive della nostra città e di questo nostro Paese.
Alla fine, però, mi sono deciso a farlo perché mi pare un po’ paradossale, dopo oltre 25 anni di lavoro appassionato nella scuola e mesi di dichiarazioni contro questa Riforma in atto, farci la parte del fighetto che vuole distruggere invece che costruire. Che straparla. Che racconta robe approssimative. O di sentirmi ripetere ritornelli del tipo: criticando si fa il gioco del nemico. Ma dove siamo arrivati? Anche in Cgil siamo a questo punto?

Gentile Alan Albertosi e resto dell’Ufficio scuola FLC di Reggio Emilia,
ho letto con interesse e dispiacere la lettera che avete inviato al Coordinamento docenti e genitori di Reggio Emilia, che vi aveva inviato un mio articolo sulla scuola apparso sul quotidiano “Il Manifesto”. E ringrazio il Coordinamento per avermela inviata. Tralascio la bassa ironia sul mio conto – illustre "firma" del Manifesto, "guru" della scuola, nonché "fantasma" nelle assemblee sindacali: in realtà anche all’ultima, a Sant’Ilario, ho partecipato, ma, sinceramente, credo che avrei potuto tranquillamente farne a meno. In realtà sono soprattutto un docente e un genitore, come ben sapete. Tra l’altro, la Cgil non sostiene “Il Manifesto”? A ogni modo, credo che essere trattati così – con sufficienza – semplicemente perché esprimo dubbi e perplessità sulla strategia con la quale in questi mesi la FLC – anche della nostra città – ha espresso il suo dissenso alla riformaccia Gelmini, sia per lo meno strano. Specie per un sindacato. Aggiungo: specie per un sindacato come la Cgil.
Sono io a chiedermi «a chi giova questa polemica sterile». La vostra. Da un sindacato come la Cgil mi sarei aspettato, di fronte a delle critiche, qualcosa in più dell’imbarazzo e del risentimento; avrei preferito risposte sul merito. Per esempio, mi pare che i sindacati confederati si siano mossi in ben altro modo di fronte ai possibili licenziamenti di Alitalia o della Fiat, che sono molto meno di quelli annunciati dalla Gelmini. Ecco, per fare un esempio che forse risulta ancora più chiaro a tutti, pensate se domani, di punto in bianco, il Governo in carica decidesse di far fuori in tre anni 250.000 posti di lavoro nei sindacati confederali. Sinceramente, credo che la vostra mobilitazione sarebbe un po’ diversa da quella che c’è stata – anche da parte della Cgil – per difendere lo smantellamento della scuola pubblica italiana.
Siete lì per rappresentare e ascoltare chi lavora nella scuola, ricordatevelo. Compresa la sua rabbia, la sua frustrazione, la sensazione di spaesamento di fronte a quanto sta accadendo. Sensazione mie ma anche di tanti altri docenti e genitori, ve lo garantisco. Qualcuno potrebbe obiettare che nelle mie parole c’è troppo allarmismo; io credo esattamente il contrario, che i genitori e i docenti, che i sindacati e l’opposizione, non si rendano conto fino in fondo della gravità di quanto sta accadendo nella scuola pubblica. Spero di sbagliarmi, naturalmente. Ma con tutta sincerità voglio dire che la delusione di oggi, anche di fronte ai sindacati, è legata proprio al fatto che tutto quello che la scuola pubblica italiana è diventata in questi anni – le elementari erano le quarte al mondo per qualità, prima della Gelmini – nessuno le ha regalate ai docenti e ai genitori degli alunni, ma sono state conquistate con grande dispendio di fatica e di energia, specie in una città e in una regione come le nostre. Basti pensare al modello di scuola più evoluto, quello del tempo pieno laboratoriale – quello della Gelmini, senza compresenza e laboratori non si potrà mai chiamare tempo pieno. Ecco, credo che per tutti i docenti e i genitori che hanno lottato in passato per darci questa scuola qui, questa scuola di qualità che oggi sta per essere cancellata – spesso con l’attivo e fondamentale contributo anche dell’allora sindacato e dell’allora opposizione – non sia bello che oggi, di fronte allo sfascio, anche il sindacato si comporti in questo modo. Per quanto riguarda i confronti vi ringrazio per la disponibilità a incontrarci, per me è un onore. Anche se dubito che, con queste premesse, possa esserci un confronto molto serio e costruttivo.
Tra l’altro ne approfitto per ricordarvi che sono già stato contattato dal vostro responsabile Bussetti alcune settimane fa. Mi ha dato un repentino appuntamento, poi non si è presentato all’appuntamento. Ho poi perso le sue tracce. Non mi ha neppure ritelefonato. Spero stia bene.
Giuseppe Caliceti

Ostaggi

19 dicembre 2008

Normal
0
14

false
false
false

MicrosoftInternetExplorer4

/* Style Definitions */
table.MsoNormalTable
{mso-style-name:”Tabella normale”;
mso-tstyle-rowband-size:0;
mso-tstyle-colband-size:0;
mso-style-noshow:yes;
mso-style-parent:””;
mso-padding-alt:0cm 5.4pt 0cm 5.4pt;
mso-para-margin:0cm;
mso-para-margin-bottom:.0001pt;
mso-pagination:widow-orphan;
font-size:10.0pt;
font-family:”Times New Roman”;
mso-ansi-language:#0400;
mso-fareast-language:#0400;
mso-bidi-language:#0400;}

da Milano, Luciano Muhlbauer

 

 

Il Consiglio regionale è ostaggio di un comitato d’affari. Non ci sono altre parole per descrivere quanto avvenuto oggi, durante la sessione di bilancio, con la bocciatura degli ordini del giorno dell’opposizione sul ‘buono scuola’ e sull’edilizia scolastica. Non avevamo chiesto la luna e nemmeno di eliminare il finanziamento pubblico alla scuola privata, ma semplicemente di applicare a quest’ultima le stesse regole valide per quella pubblica, recuperando in questo modo risorse da destinare all’edilizia scolastica. Eppure, niente da fare. Forza Italia, An e Lega hanno compattamente respinto la proposta di eliminare le disparità di trattamento e i privilegi.

E così, mentre in Aula risuona da due giorni il lamento del ‘vorrei, ma non posso’ che parte dagli assessori ogniqualvolta si chiede di aumentare la spesa a sostegno dei redditi bassi, il centrodestra conferma con la massima tranquillità l’erogazione di un sussidio pubblico a chi frequenta la scuola privata e dichiara al fisco 100, 150 e persino 200 mila euro di reddito all’anno.

Pochi cittadini lo sanno, ma il ‘buono scuola’ costa ai contribuenti ogni anno 45 milioni di euro e soltanto il 28 per cento di questa cifra finisce in tasca a famiglie che dispongono di meno di 30 mila euro di reddito annuo. Miracoli di un coefficiente Isee truccato per l’occasione e dello strapotere della lobby di Comunione e Liberazione.

Oggi tutti i consiglieri di centrodestra, compresa la Lega, si sono inchinati in silenzio, senza riuscire ad argomentare il proprio voto, al volere e agli interessi di Cl.

I lombardi sappiano dunque che non c’è un centesimo in più per le scuole che cadono a pezzi perché bisogna continuare a spendere decine di milioni di euro per regalare un privilegio a una clientela politica che non ne avrebbe nemmeno bisogno.

Una goccia in azione

6 dicembre 2008
di Teo Lorini

Mentre il governo di centrodestra procede indefesso nella manovra di tagli che genera lo sfascio (anche letterale come purtroppo testimonia la tragedia di Rivoli) della scuola italiana, esce per gli eleganti tipi di Casagrande Una goccia di splendore, un volumetto che raccoglie gli articoli pubblicati nel corso di due anni dal poeta e insegnante Fabio Pusterla sul settimanale ticinese “Azione”.
Queste brevi, ma spesso fulminanti meditazioni restituiscono al lettore italiano l’immagine di una scuola su cui non incombe lo smantellamento decretato dalla coppia Tremonti-Gelmini, ma che vive però nello stesso tempo tormentato e si confronta con problemi di non minore portata, anche se (forse) di meno lacerante urgenza. Come cambia il ruolo dell’insegnante, ad esempio, in una società i cui valori condivisi non includono necessariamente il ruolo della cultura, privilegiando magari uno status sociale basato su beni materiali, sulla consistenza della busta paga? Come rispondere all’annosa questione dei ragazzi che non leggono, quando i primi a non riaprire mai i classici della letteratura (e tantomeno ad aprire un romanzo contemporaneo) sono spesso gli stessi docenti, seguiti a ruota dai pedagogisti, dai sociologi, da famiglie intere in cui il libro semplicemente non è mai un argomento di conversazione?Pure, fra i molti pregi di questo libricino c’è la capacità di trattenersi sempre al di qua della scivolosa china d’una retorica facile. La scuola che Pusterla racconta non è mai un eroico (e pomposo) baluardo contro la decadenza della società, ma un tessuto vivo che s’innerva di passione e di lucida determinazione. Non a resistere, resistere, resistere in una battaglia passatista e sterile ma a interrogarsi incessantemente per tenere allenato quello spirito critico che deve restare il più grande dei doni agli allievi di oggi e alle donne, agli uomini, in una parola ai cittadini di domani.
Gli argomenti si susseguono: le gite di istruzione (sempre più arrese alle logiche di un turismo commerciale e massificato); il bullismo (in verità più feroce in Italia rispetto al Ticino, dove i politici non sbraitano in appositi telesalotti, i ministri non mostrano il dito medio e gli ex presidenti non auspicano il massacro delle maestre “ragazzine”); il disinteresse dei giovani liceali verso le dinamiche della partecipazione politica; la responsabilità terribile e dolorosa dei giudizi e delle bocciature; l’importanza sovrana della preparazione e quella, non meno decisiva, della capacità di entrare in contatto con gli studenti; l’angoscia e l’intensità delle storie di solitudine, violenza, ingiustizia con cui il mestiere di insegnante mette tanto spesso quanto profondamente in contatto. Sono le sfide di cui si sostanzia la scuola e su cui oggi, in Italia, la brutalità dell’intervento governativo cala una cappa, spostandole in secondo piano.
Eppure la morsa asfissiante di questa strettoia non diminuisce di un grammo il peso della responsabilità e il bisogno di lucidità di ciascun insegnante. Anzi, mentre la lotta e la tempesta infuriano, è necessario mantenere la concentrazione nello sforzo di regalare ai ragazzi l’avventura vertiginosa dell’apprendimento, della lettura, dell’esercizio del proprio giudizio. È qui la Goccia di splendore che la scuola deve essere ancora in grado di regalare. E che matura attraverso un impegno e un entusiasmo che a volte paiono inspiegabili e che invece basta un istante speciale a giustificare. A chiudere queste impressioni di lettura, ecco allora uno di questi momenti teneri, imprevedibili e magici:
«A ridosso di Natale sono invitato da un’amica, Sara, nella sua II F a parlare di libri e di poesia. Classe simpaticissima, vivace, ma non necessariamente molto interessata alla letteratura; orario non facile, dalle 15.20 alle 17.00, poco prima di Natale; io stesso, come tutti in questo periodo, stanco morto. Una ragazza appoggia sopra un banco un vassoio di panettone; dalla borsa di un suo compagno spunta il collo di una bottiglia di spumante: immagino già che non parleremo molto. Invece, quando suona il campanello, sono trascorse due ore di eccezionale intensità, di domande, di curiosità, durante le quali ci siamo dimenticati della fatica e del tempo. Due ore così belle che non si possono raccontare, come non si può raccontare quasi mai la magia della scuola: che esiste, ogni tanto, che continua a esistere».

Quelli che la crisi non la pagano

2 dicembre 2008

Normal
0
14

false
false
false

MicrosoftInternetExplorer4

/* Style Definitions */
table.MsoNormalTable
{mso-style-name:”Tabella normale”;
mso-tstyle-rowband-size:0;
mso-tstyle-colband-size:0;
mso-style-noshow:yes;
mso-style-parent:””;
mso-padding-alt:0cm 5.4pt 0cm 5.4pt;
mso-para-margin:0cm;
mso-para-margin-bottom:.0001pt;
mso-pagination:widow-orphan;
font-size:10.0pt;
font-family:”Times New Roman”;
mso-ansi-language:#0400;
mso-fareast-language:#0400;
mso-bidi-language:#0400;}

da Milano, Luciano Muhlbauer

 

 

280 milioni di euro in sette anni e altri 45 milioni già messi in bilancio per il 2009. Beneficiari esclusivi di questa pioggia di denaro pubblico sono le scuole private, ma anche le famiglie lombarde benestanti: in 3.000 dichiarano al fisco un reddito tra 100 e 200mila euro e ricevono lo stesso un sussidio regionale. E mentre molte scuole pubbliche cadono a pezzi, la Regione storna 4,5 milioni di euro dai fondi per l’edilizia scolastica per finanziare la costruzione di una nuova scuola privata.

Queste sono solo alcune delle inquietanti realtà che emergono dal dossier Quelli che la crisi non la pagano, contenente l’inchiesta del Gruppo consiliare regionale di Rifondazione Comunista sul finanziamento pubblico della scuola privata in Lombardia e da oggi gratuitamente a disposizione dei cittadini.Regista dell’operazione di drenaggio di risorse pubbliche verso interessi privati è il Presidente Formigoni, che da tre lustri governa la Lombardia, ma il conto lo pagano i contribuenti, i cui figli frequentano in 9 casi su 10 la scuola pubblica. Il quadro che esce dalla nostra inchiesta è disarmante, preoccupante e scandaloso, poiché colpisce non soltanto per l’esorbitante entità del finanziamento, ma anche per il sistema di regole differenziato e discriminatorio.

Per l’anno scolastico 2007/08 sono stati erogati dalla Regione oltre 45 milioni di euro per il buono scuola, cioè il sussidio regionale che rimborsa parte delle rette scolastiche. Dei 64mila studenti lombardi beneficiari del sussidio, il 99 per cento frequenta un istituto privato e questi assorbono il 99,63 per cento del finanziamento totale. Così facendo, ormai il 70 per cento degli studenti lombardi che frequentano le scuole private usufruisce del sussidio pubblico (nel 2001/02 era il 58 per cento). E per avere quel sussidio non bisogna essere né meritevoli, né economicamente svantaggiati. Infatti, non ci sono criteri di merito e il coefficiente Isee  – il riccometro – utilizzato in questo caso dalla Regione è talmente elastico, da distribuire allegramente sussidi pubblici a famiglie benestanti. Incredibile ma vero: soltanto il 28 per cento di questi 45 milioni di euro è stato assegnato a famiglie che dichiarano al fisco un reddito annuo inferiore a 30.000 euro. Tutto il resto è andato a famiglie con redditi superiori, tra cui ben 3.000 con un reddito dichiarato tra 100 e 200mila euro!

Ma appunto, le regole non sono uguali per tutti. E così, i 970mila studenti della scuola pubblica e le loro famiglie devono accontentarsi delle briciole (8,5 milioni di euro per il diritto allo studio) e per averne qualcuna devono pure dimostrare di essere meritevoli ed economicamente svantaggiati. Morale: l’investimento pro capite della Regione è di 700 euro per ogni studente delle private e nemmeno di 8 euro per quelli delle pubbliche.

Le cose non vanno diversamente nemmeno nell’edilizia scolastica. Infatti, dal 2007 il governo regionale può destinare fino al 25 per cento del finanziamento complessivo alla scuola privata. E così capita che, mentre le scuole pubbliche cadono a pezzi, una fondazione legata a Cl ottiene un contributo regionale di 4,5 milioni di euro per costruire una scuola nuova di zecca.

Insomma, siamo di fronte a una gigantesca operazione di drenaggio di denaro pubblico ad alcuni interessi privati. E pur di privilegiare la scuola privata ogni mezzo sembra essere lecito, compreso erogare un sussidio pubblico a famiglie benestanti, mentre tutte le altre devono arrangiarsi, e finanziare la costruzione di nuove scuole private, mentre quelle pubbliche non riescono nemmeno ad ottenere le messe in sicurezza.

Loro lo chiamano riforma, noi scandalo. Giudicate voi.

Ore 9.00: Lezione di democrazia

30 ottobre 2008

Cinquemila studenti, insegnanti e bidelle in corteo a Pavia non si erano mai visti. Così tanti non ne erano mai scesi in piazza, nemmeno nel Sessantotto, nemmeno nel Settantasette. Solo i metalmeccanici erano arrivati a esprimere tanta energia e tanta determinazione multicolore. Quella lotta operaia e quelle conflittualità avevano portato al miglioramento della qualità del lavoro, ma anche e ad altre importanti riforme sociali: la riforma della scuola, la legge sull’aborto e quella sul divorzio. Ma le stragi “di Stato” e l’assurda uccisione di Aldo Moro per mano delle Brigate rosse offuscarono lo sguardo antagonista e la voglia di cambiamento.
I ragazzi del Duemilaotto ora scendono in piazza per difendere lo Stato di diritto e la scuola pubblica, per chiedere il taglio delle spese militari, per una più equa gestione delle risorse. Le culture iperliberal delle privatizzazioni e dei tagli alla spesa pubblica non hanno saputo arginare gli squilibri sociali economici ed ecologici, usando anche una narcotizzante iperinformazione di massa, quella che appunto ci disinforma. Stiamo andando così verso la sospensione di alcune garanzie fondamentali. A questo nuovo ordine immorale la nostra ‘meglio gioventù’ ha dato la risposta più bella: una risposta civile, pacifica e di massa.

0321 oriz CORTEO (more…)

Marionette rossonere, praticamente romaniste

30 ottobre 2008
di Nicola*

 

Proprio un bel quadretto familiare quello che si sta disegnando in questi giorni nel nostro bel Paese. Ancora una volta troviamo i partiti a fare la parte dei genitori ottusi e il movimento studentesco nei panni dell’adolescente ribelle. Già, peccato però che questa volta l’adolescente è più intelligente dell’uomo maturo e sta dimostrando di sapere quello che fa. Quello che invece mi preoccupa, è che ancora una volta mi sembra proprio che la politica "matura", quella dei conflitti d’interesse, delle intercettazioni telefoniche, del "una poltrona a me e un’appaltino da qualche milione di euro a te", stia cercando di insinuarsi nel movimento come un serpente si infila in un buco del prato quando si sente in pericolo. Ma in pericolo di che? Di non essere in grado di fare la sinistra? Di non essere in grado di tener testa allo psiconano? Di non essere in grado di ascoltare la piazza? No, il pericolo vero è dato dalla paura di non poter rispettare le proprie priorità, non la ricerca di idee per delle politiche sociali degne di esser chiamate tali, ma il mantenimento dell’ordine dei culi nelle poltrone dei palazzi. Le stesse identiche priorità che stanno portando l’Italia sull’orlo di una crisi… che magari fosse di nervi. A quella ci pensa già la marionetta nera tutta impettita quando proclama "ordine e disciplina" dalla distanza di sicurezza del tubo catodico, al fianco della italian version di Mrs. Palin. Beh, qualcuno effettivamente ha seguito i consigli. Non le forze dell’ordine, che sembrano essere rimaste l’unica istituzione coi piedi per terra (anche perché non potendosi permettere nemmeno nuove gazzelle… di mezzi aerei neanche a parlarne) ma i nuovi squadristi. Quelli che cercano di provocare a suon di manganellate. E la cosa triste non è il diciottenne invasato che si copre la faccia e mena le mani, ma la forte speranza che tutti a palazzo nutrono di una risposta violenta alla provocazione. Si, perché me li vedo proprio bene tutti i Veltrusconi davanti allo schermo con le dita incrociate come ai rigori della nazionale di calcio… che quando c’è di mezzo la nazione siamo tutti "bravi ragazzi". D’altronde lo erano anche quelli di Al Pacino. Che vada a gridarlo in mezzo al movimento l’ordine e il manganello. Ma non lo fa, perché ha paura. Si, perché fino a quando continuano a farsi tanti bei discorsetti che, rimbalzando da una parete all’altra in stile arcanoid creano autoreferenzialità, sono tutti "bravi politici" (o bravi guagliuni… che tanto il significato pratico non cambia), ma se disgraziatamente si trovano spalle al muro a dover parlare con persone normali potrebbe anche diventare un bel problema. Mettiamoci un po’ nei loro panni: non è mica facile offrire la merce quando qualcuno non compra. Hanno tutti paura perché non possono offrire niente a chi non vuole essere comprato, a chi nella democrazia ancora ci crede veramente. Sono contento, contento di vedere che per la prima volta tutti stanno dimostrando che non si tratta di politica, ma di buon senso, non di rossi e neri, ma di diritti sociali fondamentali per il mantenimento dell’indipendenza della ragione e, di conseguenza, dello stato democratico. Eh già, in fondo non è facile fare il mafioso con chi mafioso non lo è.

*  Laureando in scienza della comunicazione

Scuola. Più soldi ai privati

25 ottobre 2008

da Milano, Luciano Muhlbauer

 

C’è la crisi e di soldi non ce ne sono più. Bisogna razionalizzare. Sono questi gli argomenti principali a cui ricorrono gli esponenti di centrodestra e il Ministro Gelmini per cercare di dare una parvenza di dignità al taglio secco di 8 miliardi di euro alla scuola pubblica, previsto dall’articolo 64 della legge n. 133. E in nome della razionalizzazione si giustifica un po’ tutto, dallo strangolamento delle università al maestro unico nelle elementari, dalla cacciata degli insegnanti precari fino alla chiusura delle piccole sedi scolastiche nei comuni periferici e montani.

Ma in mezzo allo tsunami, per nulla naturale, che sta investendo le scuole e le università c’è qualcuno che sorride. Infatti, di soldi non ce ne sono più per l’istruzione pubblica, ma non certo per quella privata, che anzi guadagna vistosamente spazio. E siccome ci siamo stufati di dover ribattere alle solite e logore accuse di “fare ideologia” ogniqualvolta diciamo queste cose, ci limitiamo qui a raccontare una storia. Poi, ognuno giudichi da sé.

La nostra storia si svolge in Lombardia, cioè la Regione dove più che in ogni altro luogo le ispirazioni di fondo della cosiddetta “riforma Gelmini” sono all’opera da tempo. Chi ha buona memoria si ricorderà che avevamo iniziato a raccontarla un mese fa, allorquando presentammo un interrogazione alla Giunta Formigoni. Cioè, Regione Lombardia aveva stanziato nel mese di aprile, con una procedura esauritasi in tempo record, un milione di euro, al quale seguiranno altri 3,5 milioni, per costruire una scuola privata nuova di zecca a Crema. Beneficiaria dell’operazione è la Fondazione Charis, casualmente legata alla Compagnia delle Opere.

Ebbene, ora l’Assessore regionale all’Istruzione, Rossoni, casualmente in quota Comunione e liberazione come il Presidente della Regione, ha risposto alla nostra interrogazione. Secondo lui tutto va bene, poiché l’infausta delibera del Consiglio regionale n. 149 del 2006 permette al governo regionale di destinare fino al 25 per cento delle risorse disponibili per l’edilizia scolastica alla “programmazione negoziata”. Cioè non alla scuola pubblica in base alle richieste degli enti locali, bensì alla scuola privata in base a una sorta di trattativa privata. Detto in soldoni, questo significa che nel 2008 sui 22 milioni totali stanziati da Regione Lombardia, di cui metà di provenienza statale, 2,9 milioni sono andati a cinque scuole private.

Ma non basta, perché l’Assessore, contraddicendo la stessa norma regionale, sostiene altresì che le regole per l’assegnazione dei finanziamenti valgono soltanto per l’edilizia scolastica pubblica, ma non per quella privata. E così, la regola che nuove costruzioni possano essere finanziate soltanto se finalizzate «alla razionalizzazione della rete scolastica» viene allegramente ignorata.

Per capire fino in fondo la gravità della cosa, basti qui ricordare che la Regione ha preventivamente escluso dalla possibilità di finanziamento tutti i progetti pubblici che prevedevano nuove costruzioni, motivando questa scelta con la ristrettezza dei fondi disponibili. Quindi, per essere ancora più concreti, anche il progetto del liceo Rebora di Rho è stato respinto. Eppure, quel progetto di nuova sede, presentato dalla Provincia di Milano, risponde non solo ai criteri di razionalizzazione della Regione, visto che permetterebbe di superare l’attuale dispersione su quattro sedi e di risolvere annosi problemi di manutenzione, ma anche a una forte richiesta del territorio, espressasi un anno fa con manifestazioni di studenti, insegnanti e genitori.

Ovviamente, oggi abbiamo depositato una nuova interrogazione, anche al fine di poter valutare un eventuale ricorso alla magistratura contabile. Ma la morale della nostra storia è chiara sin d’ora: si chiudono i rubinetti per la scuola pubblica, ma si aprono quelli per il  business della scuola privata, con ogni mezzo.

La difesa della razza

19 ottobre 2008
di Teo Lorini
 
Senatore Bossi,
l’altro ieri il suo partito ha incassato il placet di Montecitorio su una mozione che istituisce classi «di integrazione» per bambini stranieri. Non è chiaro quanto a lungo dovrebbe durare questo regime di separazione né se il provvedimento si applicherà tanto ai bambini appena arrivati quanto ai figli di stranieri nati e cresciuti sul suolo italiano, ma è da vent’anni ormai che il movimento da Lei guidato ha dichiarato guerra a distinzioni e sottigliezze, preferendo invece gli slogan tosti, facili da ricordare e ottimi per guadagnare prime pagine e consensi.
Le scrivo, senatore, perché a me capita di abitare in Svizzera, e per la precisione in Canton Ticino, uno Stato di cui Lei tesse grandi lodi, tanto che, dopo l’ictus che L’ha colpita nel 2004, ha scelto di venire a farsi curare proprio qui e non in uno degli ospedali della sua amata Lombardia. Io, per buona sorte, non mi trovo qui per gli altissimi livelli degli ospedali, neppure però per motivi di vacanza. Sono solo uno dei tanti italiani all’estero.
Certo, la mia non è l’emigrazione dei carpentieri, dei gessatori, degli operai che sono arrivati qui dieci o vent’anni prima di me e i cui racconti sono stato ore ad ascoltare (mi permetterei anzi di consigliarli anche a Lei, senatore, e ai suoi compagni di partito tanto inclini a denigrare gli immigrati). Io non sono venuto a offrire muscoli e fatica fisica, ma preparazione culturale: avevo da poco passato la trentina quando è stato chiaro oltre ogni ragionevole dubbio che, per i miei anni di studio e di non disprezzabile carriera universitaria (laurea, dottorato, periodi di ricerca all’estero, specializzazioni, assegni di studio), la migliore prospettiva che lo Stato italiano era in grado, o si accontentava, d’offrire a me e a centinaia di giovani nella mia posizione era quella di aspettare fino ai 40, i 45, magari anche i 50 anni per arrivare a un vero posto di lavoro, a uno stipendio minimo ma regolare. E, constatazione ancora peggiore, solo a quel punto si sarebbe realizzata l’opportunità di insegnare davvero e non di limitarsi a improvvisare un seminario per riempire i buchi nell’orario di qualche barone. Le cose studiate (e, in taluni casi, scoperte) in anni di ricerca appassionata tra biblioteche, manoscritti, cataloghi microfilm, archivi e fondazioni, sarebbero rimaste, ben oltre il proverbiale «mezzo del cammin» delle nostre vite, lettera morta. Senza essere comunicate né condivise con classi di giovani, di studenti, di italiani di domani.
C’è il rischio di scivolare nella retorica, lo so. Come so che moltissimi in Italia fronteggiano problemi ben peggiori, specialmente adesso. Ma anche l’esperienza che ho appena raccontato è desolante: il lavoro, il sacrificio, e persino il compromesso (sgradevole, vischioso e umiliante come lo è ogni cedimento dalle proprie convinzioni), non valgono neppure a guadagnare una classe a cui trasmettere ricerche che resteranno invece seppellite all’aridità degli studi specialistici e di monografie destinate alla polvere di scaffali (o a essere tutt’al più compulsate da qualche altro eterno precario della cultura).
Andarsene, lasciare il posto dove si è cresciuti è difficile, doloroso, ma almeno un vantaggio c’è. Un adagio veneziano che forse non le sarà ignoto dice che viagiar descanta e cioè, letteralmente, dis-incastra, ci fa uscire dal cantuccio angusto dell’ignoranza e della comodità, dalla fascinazione, dall’incantamento che esercitano su di noi gli slogan e i pregiudizi. Può bastare anche un viaggio breve come la mezz’ora che ci vuole per arrivare dalla frontiera al paesino dove abito per conquistare subito un punto di vista più ampio. In Svizzera italiana, per dire, il migrante sono io.
Le confesso, senatore, che la prima volta in cui ho sentito qualche esponente del suo movimento parlare di classi differenziali perché la vicinanza con bambini stranieri «non rallenti l’apprendimento» dei piccoli italiani, ho pensato alle sparate con cui le seconde linee del partito cercano talvolta di ritagliarsi un briciolo di visibilità, di mostrarsi più realisti del re, rendendo più efficace l’adulazione servile su cui costruiscono la propria carriera. Ora leggo invece che non si tratta d’una boutade ruffiana, ma che la Lega vuole effettivamente istituzionalizzare la discriminazione, rendere legge il pregiudizio, con l’alibi dei piccoli italiani frenati nell’apprendimento da bimbi di madrelingua straniera.
In Ticino, dove vivo e insegno, la presenza di alloglotti nelle classi è realtà da sempre. E non sono necessariamente figli di stranieri venuti qui a “rallentare” l’istruzione degli studenti svizzeri, anzi! Tali allievi sono molto spesso cittadini a pieno titolo. Sì, perché questo è un paese che ha quattro lingue nazionali – con le difficoltà e le sfide che ciò può comportare – ma che non pensa di risolvere tali problemi con i muri e gli steccati nelle scuole, bensì con l’integrazione, parola assai poco presente nelle esternazioni leghiste (forse perché non conquista titoli né consensi). Nella scuola del Canton Ticino, invece, il problema non è discriminare, separare, dividere. Ma casomai integrare e valorizzare le differenze, inserendo gli alloglotti nelle classi di italofoni nella consapevolezza che dal confronto tra lingue e culture scaturisce ricchezza, non ritardo.
Quante lingue parla Lei, senatore Bossi? Basta l’infarinatura di latino e di inglese che dà un qualsiasi liceo della Repubblica per rendersi conto di quanto la comprensione delle sfumature espressive dell’italiano s’arricchisca tramite la ricerca etimologica o il parallelo con altre strutture grammaticali e sintattiche. Immagini ora la ricchezza d’un paese che sin dalle medie insegna quattro lingue e i cui allievi possono confrontarsi con coetanei della più varia provenienza. In questi anni sono stato docente sia per alunni provenienti da altri cantoni, di madrelingua francese o svizzero-tedesca, sia per i figli di persone che hanno lasciato la terra d’origine per cercare lavoro o asilo e a cui la Svizzera non ha negato né l’uno né l’altro. Mi permetta una piccola rassegna delle varie nazionalità dei bambini e ragazzi a cui ho assai proficuamente insegnato lingua e letteratura italiana in qualche anno di professione e che – basta un’occhiata al registro per verificarlo – compongono il quadro delle normali classi ticinesi: spagnoli e portoghesi, croati, macedoni, serbi e altri della diaspora jugoslava, turchi e armeni, rumeni, albanesi e kosovari, brasiliani, colombiani e dominicani, ucraini, polacchi, russi, maghrebini, cingalesi.
E italiani, naturalmente.
Lei, nato a 30 km dalla frontiera e fervido ammiratore della Confederazione, dovrebbe saperlo bene: i primi stranieri ad arrivare qui siamo stati proprio noi italiani, con la nomea poco gradevole che ci portiamo dietro. E che non sta certo migliorando adesso. Prima però che Lei scatti con la denigrazione di “terroni” e mafiosi che tante volte ho letto sui manifesti e ascoltato ai comizi leghisti del Nordest dove sono cresciuto, lasci che le dica che a peggiorare la reputazione e l’immagine dell’Italia all’estero non sono le già tristemente note mafie meridionali, quanto piuttosto lo stillicidio di casi di discriminazione e persecuzione razziale che, con cadenza quasi quotidiana, rimbalzano sui giornali di qui e, ancor peggio, le farraginose giustificazioni con cui vari esponenti del suo partito (il ministro Maroni in primis) s’affannano a negare la componente razzista di delitti come l’omicidio di Milano. Magari, da quando sono partito, l’accezione italiana del termine “razzista” sarà mutata. Qui invece è rimasta la stessa e include ancora chi ammazza un ragazzo sprangandolo in testa al grido di «sporco negro!».
Comprende poi l’idea di schedare i bambini prendendo loro le impronte, o quella di inserirli in classi-ghetto magari di trenta studenti, come si sente dire riguardo al progetto di riforma della ministra Gelmini. E soprattutto senza italofoni con cui fare amicizia, giocare e imparare la lingua, nella quotidianità di un’infanzia che è e dovrebbe restare il bene più sacro da tutelare e non l’ennesimo territorio in cui rosicchiare ciniche rendite elettorali.

Tutti a scuola

13 ottobre 2008
da Torino, Lino Di Gianni
 
 
Insegno nel Ctp [Centro Territoriale Permanente] da 15 anni, dal 1993. Prima ho insegnato 20 anni nelle classi a tempo pieno delle barriere operaie di Torino.
Nella scuola nacquero, come conquista operaia, le 150 ore. Erano corsi che all’inizio servivano a istruire avanguardie di fabbrica, o casalinghe, o impiegati. Poi diventarono sede per chi non aveva preso la licenza media, perché aveva interrotto gli studi. E di questo, si occuparono i professori di scuola media. Nella elementare, invece, si organizzarono corsi di alfabetizzazione. Venivano anziani italiani che non avevano imparato a leggere e scrivere. Gli insegnanti elementari si inventarono l’accoglienza verso gli stranieri, formandosi una professionalità attraverso corsi ed esperienze sul campo.
Nel 1993, ho iniziato nella Val di Susa, quella dei Notav. In una scuola elementare, avevo una classetta dove prima mettevano i ripetenti. Il primo giorno avevo 10 cinesi davanti, senza nessuna lingua di mediazione tra noi. Poi avevo una coppia di italiani, sui 40 anni, disabili. Erano molto teneri, venivano mano nella mano, dovevano imparare a leggere e scrivere. Poi avevo persone del Marocco, due campioni di nuoto dell’Argentina, persone della Bulgaria, Ungheria, Russia. Era gratuito, due lezioni da due ore ciascuna, alla settimana.
Nel 1999 nacquero i Ctp, a livello nazionale. In una stessa scuola si unirono 5, 10 o più tra insegnanti medi ed elementari. E nacquero corsi di italiano per stranieri, per la licenza media, per imparare informatica, inglese, teatro, danza, o altro.

Nel mio Ctp della ValdiSusa adesso siamo 13 insegnanti, abbiamo 6 sedi nella valle, e circa 1000 frequentanti, dei quali due o trecento sono stranieri. Dai vecchi corsi 150 ore – che a livello nazionale si rivolgevano a 10, 20 mila persone – siamo passati a coinvolgere come utenza dalle 300 alle 500 mila presenze.
Forniamo la patente informatica (ECDL, Mos), la certificazione universitaria della lingua italiana (Cils di Università di Siena.) attestati e certificazioni per le lingue straniere Inglese, Francese, Arabo, Russo, Cinese, Spagnolo. Facciamo prendere il diploma di scuola superiore in tre anni anziché in cinque (Progetto Polis).

Siamo un servizio collegato al territorio che vede persone anziane venire a imparare al costo minimo di 20 euro per 13 lezioni o 40 euro per tutto l’anno. I corsi di italiano per stranieri sono completamente gratuiti. Con accesso a bassa soglia: ti presenti in classe ed entri. Nei miei corsi ci sono sia donne arabe che non sanno leggere e scrivere, sia persone laureate che vogliono imparare gratuitamente la lingua italiana, in una scuola italiana, con insegnanti statali. Poi altri migranti provenienti dall’India, da Cuba, dalla Russia, dalla Cina
La cosa incredibile è che siamo conosciuti solo da chi ci frequenta.Per questo chiamo il settore dell’Educazione degli adulti, Yellow Submarine. Il Sottomarino giallo, che fino a che non sarà massacrato dai tagli governativi, viaggia felicemente nel mare delle culture altre.

Che fare per la scuola e l'Università?

12 ottobre 2008
di Carla Benedetti
A Pisa (sede dell’Università in cui insegno) docenti e studenti protestano da tre giorni contro la legge Gelmini e i tagli della finanziaria.
L’8 ottobre un’assemblea generale di ateneo (circa tremila persone in piazza dei Cavalieri) ha dichiarato lo stato di agitazione contro i provvedimenti del governo che prevedono il taglio di 1.400 milioni di euro del Fondo di Finanziamento Ordinario, il blocco delle assunzioni del personale (possibili solo in misura pari al 20 per cento dei pensionamenti) e la possibilità per le Università di trasformarsi in Fondazioni di diritto privato.
Ancora a Pisa, il 9 ottobre, c’è stata una manifestazione di 5.000 persone e il Consiglio della Facoltà di Lettere, allargato agli studenti, ha dichiarato la sospensione dell’attività didattica come forma di mobilitazione. Sotto si può leggere il testo della mozione. (Alte informazioni sul sito http://133.anche.no/)
Cose analoghe stanno succedendo in altre città italiane, anche se sui quotidiani nazionali le notizie sono scarse. Cose analoghe stanno succedendo in altre città italiane, anche se sui quotidiani nazionali le notizie sono scarse.
In rete si sta poi diffondendo anche un’altra iniziativa: scrivere al Presidente della Repubblica una e-mail per chiedere di  non firmare il decreto Gelmini, con parole semplici, come queste:

«Illustrissimo Presidente della Repubblica Onorevole Giorgio Napolitano, La preghiamo vivamente di non firmare la legge che uccide la scuola pubblica italiana».

L’indirizzo è
presidenza.repubblica@quirinale.it

Oppure si può andare sul sito http://www.quirinale.it, cliccare su La posta e seguire le indicazioni.
 

***
 
MOZIONE DEL CONSIGLIO DI FACOLTA’ DI LETTERE E FILOSOFIA DELL’UNIVERSITA’ DI PISA RIUNITOSI IN SEDUTA STRAORDINARIA IL 9/10/2008

 
Viste le mozioni e le successive prese di posizione approvate sin dall’emanazione del Decreto Legge 112 del 18 giugno 2008, convertito il 6 agosto nella Legge 133/2008, dalla CRUI e dal CUN, ovvero, i maggiori organi di rappresentanza delle Università Italiane, da diverse Conferenze dei Presidi, dai Senati Accademici e dai Consigli di amministrazione della maggior parte degli Atenei Italiani;
Vista la posizione espressa dai Senati Accademici delle Università Toscane riunitisi per via straordinaria in seduta congiunta;
Viste le prese di posizione di molti organi collegiali della Facoltà e dei Dipartimenti dell’Ateneo pisano e toscani;
Vista la forte denuncia all’opinione pubblica fatta dall’assemblea generale del personale dei tre Atenei pisani rivolta ad evidenziare il rischio dello smantellamento dell’Università pubblica;
Vista la rilevante, giustificata protesta studentesca e la profonda preoccupazione dei giovani laureati e dei giovani docenti che svolgono con sacrificio e senza la giusta rimunerazione tanta parte delle funzioni didattiche nel momento attuale;
Vista l’attuale sordità da parte del Governo nei confronti dei pareri negativi delle rappresentanze dei docenti e delle associazioni di dottori di ricerca, dei dottorandi, contrattisti, precari e studenti, della CRUI  e del CUN, delle Conferenze dei Presidi, dei Senati Accademici e consigli di amministrazione della maggior parte degli atenei italiani;
Considerato che l’Italia, in buona posizione per produzione scientifica, è già molto lontana dagli obiettivi europei sulla formazione, perché molto indietro (malgrado tentativi maldestri di mostrare il contrario) per spesa annua per studente, ed ultima in Europa per spesa totale destinata all’Università rispetto alla PIL (0,9 % contro 1,3% della media UE), per la quota di spesa pubblica per l’università (1,6% contro 2,8% della media UE), per spesa totale destinata alla ricerca rispetto al PIL (1,09% contro 2,26% della media UE);
Considerato che, approfittando di attacchi mediatici (spesso diffamatori) su caratteri pur discutibili della gestione dell’Università, viene colpito il sistema pubblico nel suo insieme  penalizzando anche gli atenei con maggiore tradizione nella ricerca e nell’insegnamento;
Considerato che il sistema universitario e di ricerca italiano esige un’analisi critica approfondita e un ampio confronto per giungere ad una vera riforma che, superando operazioni strumentali e di dubbio conio, pervenga ad una riaffermazione del fine di alta formazione e di cultura critica, dia maggior rilievo alla ricerca, premi il merito e apra talenti dei "capaci e meritevoli";
 
Rilevato che la legge 1338/2008 (conversione del DL 112/2008) condanna alla fine il sistema pubblico universitario e di ricerca prevedendo i seguenti effetti:
 
• una riduzione annuale fino al 2013 del Fondo di Finanziamento Ordinario di 467 milioni di euro (taglio del 6%)  e un taglio del 46% sulle spese di funzionamento;
• una riduzione del turn /over al 20% per l’università (su 5 che vanno in pensione uno solo verrà assunto) nel periodo 2009-2013 (in termini finanziari-64 milioni di euro nel 2009,-190 milioni di euro nel 2010,- 316 milioni di euro nel 2011, – 417 milioni di euro nel 2012,- 455 milioni di euro nel 2013);
• un taglio complessivo di quasi 4 miliardi di euro in 5 anni;
• la trasformazione delle Università pubbliche in fondazioni di diritto privato;
 
Rilevato che gli effetti combinati dell’art.49 della Legge 133/2008 (divieto di ricorrere al medesimo lavoratore con più tipologie contrattuali per periodi di servizio superiori al triennio nell’ultimo quinquennio), e del 37-bis inserito nel ddl 1441 in corso d’approvazione parlamentare, (cancellazione della procedura delle  stabilizzazioni) produrranno il blocco delle forme contrattuali a tempo determinato in enti dove la frequenza di corsi è scarsa e il licenziamento in tronco (dopo tre mesi dall’eventuale entrata in vigore del ddl 1441) di chi aveva già ricevuto garanzie dallo Stato di un percorso per andare a stabilizzare la propria attività professionale;
Ritenuto che le misure descritte mettono a rischio il normale esercizio della didattica e della ricerca nelle università e nei centri di ricerca, aggravano il problema del numero e della media anagrafica del personale, tradiscono gli accordi europei e il dettato costituzionale sulla necessità della natura pubblica dell’istruzione, compresa quella universitaria; difatti:
 
• i tagli indiscriminati senza accenni a criteri di valutazione, sono insopportabili per un settore già in grave sofferenza e sottovalutato rispetto a quanto succede nel mondo;
 
• vengono chiuse le porte ai giovani talenti, una delle risorse più pregiate del nostro Paese;
 
• il taglio indiscriminato delle risorse unito alla possibilità di trasformazione in fondazione rischia di modificare il sistema Universitario nazionale in un sistema di formazione debole e con accessi differenziati in base al censo (nessun tetto per le tasse universitarie). Inoltre, senza riferimento alla valutazione si selezioneranno le discipline e le sedi universitarie non sulla base del loro valore, ma in ragione del contesto socio economico in cui operano;
 
• lo Stato non può garantire un percorso di acquisizione di diritti e al tempo stesso  tradire quella garanzia mettendo in gioco la reputazione delle istituzioni e le basi di solidità civile dei cittadini.
 

                                   Il Consiglio della Facoltà di Lettere e Filosofia
 
Facendo propria la mozione dell’assemblea tenutasi in Piazza dei Cavalieri l’8 ottobre 2008, afferma con forza la propria contrarietà ai provvedimenti adottati dal Governo, evidenziando i gravi rischi legati ad un indebolimento del ruolo complessivo della produzione e fruizione del sapere nel nostro paese. Chiede:
• che il Governo riveda i propri orientamenti;
• che il Parlamento non approvi il ddl n. 1441;
• che, a partire dalla discussione parlamentare della Legge finanziaria, si riaffermino gli obiettivi europei  e siano corrette le norme previste dalla Legge 133/2008;
• che, dato il carattere strategico delle politiche sulla formazione universitaria e la ricerca, tale materia non venga trattata con decreti e a colpi di maggioranza, ma con un serio confronto, con il coinvolgimento degli esponenti della cultura italiana e di tutti i soggetti interessati.
• Impegna il Preside a farsi interprete in ogni sede delle posizioni espresse, a prendere contatto tempestivamente con i rappresentanti istituzionali dell’Università di Pisa e a farsi promotore di iniziative congiunte con la Provincia e la Regione.
Decide una settimana di sospensione della normale attività didattica con un impegno dei docenti strutturati e precari, del personale tecnico amministrativo e degli studenti, a discutere e ad approfondire i problemi riguardanti la programmazione didattica alla luce della situazione venutasi a creare nella Facoltà e nell’Università.

Lettera da una professoressa

11 ottobre 2008
di Irene Campari

Caro Ministro Gelmini,

di stronzate in tutti questi anni di insegnamento ne ho sentite tante, ma quella sua dei giorni scorsi è insuperabile. Tanto da allentare i miei freni inibitori, anche quelli del linguaggio. Già la categoria «insegnanti meridionali» è annoverabile tra gli stupidari d’eccellenza. A quando i «mezzi meridionali» o i «trequarti meridionali»? E sono meridionali solo quelli che insegnano al Sud, poiché quelli trasferitisi al Nord sono nobilitati d’amblé? Guardi Ministro c’è poco da girare intorno. Lei è stata messa lì perché di scuola non capisce nulla, come del resto tutti i suoi predecessori, di destra o sinistra che fossero. Non solo di scuola non ne capisce ma neppure di varia umanità, il che sarebbe per lo meno di conforto. Tutti coloro i quali si sono seduti sulla sua poltrona hanno avuto almeno un sentimento in comune: il disprezzo per gli insegnanti, sempre malcelato. Spocchiosi, partite lancia in resta contro i docenti sicuri di colpire nel segno. Non è difficile sentirsi superiori ad un insegnante. E ciò aggiunge l’immancabile nota di sottile vigliaccheria. Con l’aria che tira, essere laureato e guadagnare 1.200 euro al mese è da poveracci senza alternativa, senza palle. Starsene poi 18 ore la settimana a trattare con chi ci insulta e sbeffeggia rende ancor di più la nostra condizione oltraggiabile, ma dagli adolescenti non dagli adulti. Questo non lo permetto. Se ne faccia una ragione Ministro Gelmini, la scuola è affare ormai troppo complicato per chi intenda usarla per fare carriera politica. Mi ero ripromessa di non parlarne, o farlo poco. Preferisco parlare d’altro che mi fa meno male, ma ora non mi posso sottrarre. Lei si scaglia discriminatoriamente contro gli insegnanti del Sud. Ne conosco molti, ne ho conosciuti tanti. E li ho sempre guardati con ammirazione. Lasciano spesso figli piccoli per garantirsi una carriera, che carriera non è, ma sussistenza. Lei, con le sue uscite, ha leso l’unica qualità che ancora rimane all’insegnante da rivendicare al di là di tutte le scemenze che ci avete propinato in questi anni: la preparazione personale. Ci avete umiliati per anni costringendoci a corsi di aggiornamento tenuti da raccomandati che ne sapevano meno del loro pubblico. Bastava far punti. Perché così ci considerate, accumulatori di punti. Punti per i figli, punti per la mamma e la nonna invalide, punti per il Comune di residenza e quello di domicilio. La mamma invalida vale più di una laurea. E invece di rafforzare i servizi sociali, ci solleticate la pelosa solidarietà familiare con i punti carità. Lavoriamo in aule gelide d’inverno perchè le amministrazioni stipulano contratti global service con multinazionali sia per il riscaldamento che per la manutenzione degli impianti. E loro vogliono il profitto non una scuola agibile e godibile. Non la doveva fare caro Ministro quell’uscita, perchè mi sollecita gli istinti peggiori trattenuti per tutto questo tempo. Lavoro in un Liceo artistico; gli allievi sono belli, nel senso vero del termine: lavorano, scrivono, disegnano. Do loro quello che io ritengo debba dare e debbano apprendere, fregandomene dei suoi programmi ministeriali e delle circolari insulse e incomprensibili che Lei emette, come hanno fatto tutti quelli venuti prima di lei, con la complicità dei dirigenti scolastici pagati a peso d’oro. Trasmetto tutto ciò che so, senza risparmiarmi. Me ne frego del perbenismo, del consenso dei Colleghi, benché mi abbiano spesso richiamato a «fare come tutti gli altri». E di fronte a un giovane che mi dice «Ti spacco la testa», non piango e non ululo alla luna, ma aspetto, insisto, conto fino a dieci. E alla fine, spossata, il risultato lo ottengo. Che sia un sorriso, un pentimento, la voglia di continuare a studiare. Dico loro di non mollare mai; di non ascoltare le sirene; di aiutarsi. Lo faccio con la letteratura, la poesia e la storia. Con Rimbaud, caro Ministro. Non mi servono né Marx né Gramsci. Né gli psicologi di cui ci avete riempito le aule, considerandoci inadeguati a comprendere le menti giovani. Bella trovata questa. E poi dite che non abbiamo più autorità e autorevolezza e ci mettete in mano il 5 in condotta per rimediare. Tenetevelo per le vostre linde e calde scuole private. Io mi tengo il mio mettermi in gioco sempre, anche alle otto di mattina. Anche quando mi dicono che le mie lauree e le lingue servono «per il mio orgoglio personale» perché la scuola non sa cosa farsene e qui «siamo tutti uguali». Non me lo hanno detto un secolo fa a Siracusa, ma due mesi fa a Pavia al termine dell’ultimo anno scolastico. Un dirigente è stato, come voi li chiamate. Le ho risposto di dire la stessa cosa al suo dentista quando le avrebbe presentato la parcella da migliaia di euro. Tuttavia non demordo. Non c’è soddisfazione più grande che vedere una classe rapita da ciò che stai dicendo loro, dall’emozione che non riescono a trattenere, della stanchezza che provo quando esco da aule scalcinate con il pavimento e le porte divelte. Ma posso andare avanti solo se sono in grado di fregarmene di ciò che Lei dice, fa, e decide e di chi esegue i suoi ordini. I soggetti sono altri, i referenti pure. Non Lei e chi per Lei, ma la dimensione profonda del sapere, la sollecitazione dell’intelligenza, l’orgoglio dell’indipendenza di giudizio, l’eguaglianza nella conoscenza, le relazioni della vita sociale e intellettuale, l’autenticità. Ai ragazzi non ricchi rimane solo questo per esistere come cittadini. E io quello cerco di dare. Li avete già rovinati con le borsette firmate, le scarpe griffate, le imitazioni umilianti di oggetti di valore che non si possono permettere, le mutande con l’indirizzo, i ferri per la messinpiega, la bigiotteria da retailer d’autostrada, l’aggressività competitiva che sapete non portare a nulla se non alla solitudine, ma non glielo dite. Dissimulate con gli sponsor e i translucidi programmi di Walt Disney; le macchiette da non imitare, come gli insegnanti. E a volte sono tornata a casa piangendo. Per come li stavate fregando e loro si lasciavano fregare. Per come fuori di lì sarebbe valsa la scaltrezza, la furbizia, l’inautenticità, il fasullo, la paura. Ho visto ragazzine cinesi bravissime lasciare la scuola perchè non riuscivano a sostenere l’immagine di ricchezza ostentata che le loro compagne imponevano. Ho visto ragazzini peruviani intelligentissimi abbandonare perché avevano solo dieci in matematica ma in altro erano scarsini e quell’anno non ce l’avevano messa tutta. Ho visto la tristezza negli occhi di ragazzine che non potevano vantare un fisico da vallettina e che non erano mai state in centro città. Ma ho visto anche omofobia, razzismo e ottusità in coloro che dovrebbero ridare un ordine alle priorità esistenziali. Tutto giocato sulla pelle dei ragazzi: la nostra ignoranza e il nostro perbenismo, la nostra docilità e la “mancanza di opinione pubblica”. Ma tutti a pretendere da loro serietà e legalità. Piuttosto dica agli insegnanti che la scuola è il luogo dove si trasmette la cultura dei diritti e del rispetto. Dica agli insegnanti di ribellarsi alle idiotesche ingiunzioni di Dirigenti che voglion solo essere ubbiditi. Dica agli insegnanti che darà loro aumenti di stipendio per comprarsi i libri quando avranno dimostrato di sapersi ribellare, giorno dopo giorno, alle insulsaggini e al degrado devastante ai quali han portato la scuola. Solo ribellandosi ogni giorno al paradosso e all’assurdità alle quali siamo costretti si salva la dignità dell’istituzione pubblica o quel poco che rimane. Se vuol fare sul serio non le resta che fare così. Ma non lo farà; saranno ancora una volta i mansueti ad essere apprezzati per l’ordine con il quale impartiscono lezioncine; e saranno ancora una volta chiamati eroi. Ho fatto una settimana di malattia da quando lavoro, tanto da non sapere come fare per avere il certificato medico. E non lo sapevo la prima volta che mi ammalai. Non si sono fatti scrupolo di inviarmi una lettera di richiamo. Ne ho un po’. Pensi che in una sede precedente a quella attuale mi avevano messo alle calcagna qualcuno per seguirmi, dopo che avevo parlato di pace e contro la guerra in Iraq e di giornata della memoria e di civiltà. Aspettavano il momento di cogliermi in fallo. E il fallo era entrare in ritardo. Sa, avendolo scoperto ho cominciato a seguire chi mi seguiva. A questo ci costringete non sapendo più cosa farvene né della scuola, né della cultura né del sapere. Volete finalizzarlo e strumentalizzarlo ma non sapete più nemmeno per cosa. Agite su di una massa che tenacemente volete mantenere poltiglia. Il merito? Ma Ministro Gelmini, come possiamo credere che la baracca ministeriale che è stata messa in piedi possa degnamente costruire valutazioni di merito? O state già pensando a criteri da customer’s satisfaction? State già predisponendo un fondo di un po’ di milioni di euro da conferire a qualche società privata? Qualche anno fa ho visitato una scuola superiore a Salo in Finlandia. La sala docenti aveva i divani e piante grasse. Un Collega mi disse che dopo la laurea era incerto se proseguire la carriera universitaria o darsi all’insegnamento. Ha optato per quest’ultimo perchè l’autorevolezza e il prestigio, nonché lo stipendio, erano gli stessi. La scuola italiana mi aveva mandato lì e dormivo in un hotel che più diroccato non poteva essere. E avendo in precedenza provato i comfort del ricercatore pubblico in trasferta mi chiedevo come fosse possibile che all’insegnante non potesse toccare nemmeno un materasso decente. E me lo sto chiedendo ancora ora, quando entro nel mio istituto al quarto piano di un condominio con le antenne della “Vodafone” a venti centimetri dalla testa. È tutto a posto dicono, e rispondo vedremo tra dieci anni. Venite a farci le analisi del sangue tra dieci anni. Ma che importa, mica siamo cittadini la cui salute sia da tutelare. Allora ti possono mettere le aule che danno su di un terrazzo a tetto senza balaustre. E tu hai la responsabilità di settanta ragazzi, magari depressi o esibizionisti. Non siamo né preziosi né ricchi. Né audaci o coraggiosi. Allora i laboratori dove si usano solventi possono anche essere senza finestre. I giovani hanno la pelle dura, non si ammalano facilmente e poi se lo fanno sarà anche colpa dei genitori che a quella scuola li hanno mandati. Ma cosa mi viene a dire Ministro Gelmini degli insegnanti meridionali: rischiano la pelle come me. E non è forse la cosa più importante. Il 46 per cento delle domande di aspettativa nel pubblico impiego per ragioni di salute mentale provengono dagli insegnanti e dal personale della scuola. E capisco, capisco. Tener duro è quasi impossibile. Ne deve però valere la pena. Non per i suoi scatti di carriera e i meriti, se li tenga, ma per quegli occhi che mi guardano tutti i giorni e si aspettano da me che dica loro qualcosa che abbia senso.

http://www.circolopasolini.splinder.com

L’Italia che verrà

10 ottobre 2008
di Giovanni Giovannetti

Giovedì 11 settembre per Andrea è stato il primo giorno di scuola. Per una qualsiasi bambina di 6 anni è una cosa normale, ma per questa piccola zingara Rom è stato un evento straordinario, perché Andrea proviene da una comunità e da un Paese – la Romania – dove le percentuali di analfabetismo tra le donne sfiorano il 100 per cento. Andrea rappresenta la voglia di riscatto di tutti i suoi coetanei, le cui famiglie, in fuga dalla miseria, sono ora tra noi alla ricerca di un futuro migliore per loro e i loro figli.

Marin ha 10 anni ed è il fratello maggiore di Andreina. Otto mesi fa era analfabeta; dopo cinque mesi in seconda elementare, un mese fa è stato inserito nella quinta, tra i suoi coetanei. È la bella favola del bambino ritrovato, una risorsa potenziale per un’Italia a corto di “cervelli”, con i migliori costretti ad emigrare; proprio come Marin. Immigrato in Italia dalla Romania, Marin un’aula scolastica l’ha vista solo nel gennaio 2008, dopo due anni passati tra le tossine della Snia di Pavia. Era uno dei 74 bambini e ragazzi della Snia per i quali la legge italiana sull’obbligo scolastico si poteva anche non applicare: 33 di loro avrebbero dovuto frequentare l’asilo, gli altri la scuola e invece, ignorati da Comune e Ufficio scolastico provinciale, sono rimasti per anni tra i ruderi e le tossine della bidonville, o al cancello di viale Montegrappa a guardare i coetanei che tornano a casa con lo zaino sulle spalle.


«Per Marin non c’è posto»

 

Quando mamma Carmen ha provato ad iscrivere Marin alla scuola, si è sentita rispondere che a Pavia per suo figlio non c’era posto. Carmen non sapeva che in Italia la scuola è un diritto sacrosanto; non sapeva nemmeno che il sindaco della città nella quale ora vive (una donna come lei) aveva decretato che «nessuno di questi bambini sarebbe stato inserito nelle scuole perché farlo avrebbe costituito un incentivo per le famiglie a radicarsi sul territorio». Queste parole non sono state pronunciate da un sindaco veterolumbàrd, ma da Piera Capitelli, membro della commissione etica del Partito democratico, sindaco di Pavia e dirigente scolastico. E dire che negare la scuola ad un bambino significa violare una legge dello Stato. All’iscrizione di Marin e di altri 40 bambini, nel giugno 2007 hanno provveduto alcuni volontari, ma invano: la Snia è stata sgomberata il 30 agosto 2007, non a caso pochi giorni prima dell’apertura dell’anno scolastico. La famiglia di Marin e Andrea è stata deportata e rinchiusa per tre mesi a Cascina Gandina di Pieve Porto Morone, dove ha subito minacce xenofobe e raid notturni, con lancio di sassi, petardi e addirittura mattoni.

Una casa in affitto non la si è trovata: troppi pregiudizi, e poi sono 9 persone. Dal dicembre 2007 sono ospiti presso una famiglia pavese. I bambini sono passati così dai cori razzisti della Gandina all’albero di Natale: dopo mesi di precarietà e traversie è arrivata finalmente la pace di una vita normale e per Marin si sono aperte le porte della scuola: una classe, la seconda b, felicemente multietnica, dove Marin ha imparato a leggere e a scrivere, e frequenta un corso d’inglese, la sua quarta lingua dopo il rumeno, il romanés e l’italiano.

In famiglia solo il padre è alfabetizzato. I due fratelli maggiori hanno frequentato il corso voluto dall’associazione pavese “Ci siamo anche noi”, tenuto con successo nella vicina Parrocchia di Sant’Alessandro dal maestro Luigi Bardone

 

«Io voglio bene a tutti»

 

La storia di Marin è simile a quella di tanti bambini rumeni ai quali è stata offerta una possibilità. Storie che i razzisti e gli xenofobi di casa nostra dovrebbero imparare a memoria, e anche i politici opportunisti, buoni solo a fare danno, quelli disposti a barattare il futuro del Paese in cambio di un pugno di voti.

Marin, ti piace la scuola? «Voglio imparare. Mi piace molto la matematica ma anche scrivere e leggere le storie della natura e degli animali. A scuola si gioca anche al pallone. La mia squadra è la Juve, ho la maglietta, e il mio idolo è Del Piero. Ho chiesto al mio papà se mi iscrive al corso di calcio della Parrocchia. Lui ha detto che vedrà, perché ora ha pochi soldi. Questo è il mio sussidiario. Ci sono gli esercizi e tante belle cose da leggere, come questa poesia di Cesare Zavattini: “Siamo tutti un po’ angeli, oggi. / Mi pare quasi di volare, / leggero come sono. / Esco di casa canticchiando. / Voglio bene a tutti”. Io voglio bene a tutti».