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I confini del razzismo

4 ottobre 2010
di Teo Lorini

Lo scorso 12 settembre "Il mattino della domenica", settimanale della xenofoba Lega dei ticinesi, titolava in prima pagina «Rom raus!». 
Questo fiotto di odio razziale, firmato dal direttore del giornale, nonché fondatore e presidente del partito, il pregiudicato Giuliano Bignasca, ha destato molte preoccupazioni nel paese che ha dato vita agli orrori del progetto eugenetico «Bambini di strada / Kinder der Landstrasse» grazie al quale, dal 1926 al 1973 la potente associazione «Pro Juventute» ha avuto carta bianca per rubare i bambini zingari ai genitori, cancellare tutti i legami con le famiglie d'origine cambiando loro il cognome e, in diversi casi, persino sterilizzarli. La parte sana del Canton Ticino, però, ha  risposto:  l'associazione degli insegnanti di storia della Svizzera italiana ha infatti chiesto a Marco Borradori, consigliere di Stato leghista, una presa di posizione. Per capire il valore (e il coraggio) dell'intervento dell'associazione, è come se in Italia si chiedesse al ministro degli interni Maroni di esprimersi in merito agli sproloqui di Bossi o del Trota sui "romani porci" e sul  tricolore da usare come carta igienica. 
Borradori, che della Lega incarna il viso pulito e presentabile e che alle elezioni del 2007 è stato il politico in assoluto più votato dai ticinesi, si è espresso contro l'uscita del suo compagno di partito liquidandola, proprio come fanno da anni anche i legaioli italiani, come la colorita provocazione di un politico indocile ai protocolli e alla diplomazia.
Di questa settimana è invece il lancio di un'altra campagna razzista, gli ormai celebri manifesti che rappresentano i lavoratori italiani (e un rumeno, giusto per non farsi mancare nulla) come ratti affamati. Dopo avere ostinatamente negato il proprio coinvolgimento, ieri Pierre Rusconi, presidente della sezione ticinese del partito svizzero di destra UdC (SVP in tedesco), ha finalmente ammesso di essere il committente dell'iniziativa.
In conferenza stampa accanto a Rusconi, c'era pure il creativo che ha realizzato i manifesti, Michel Ferrise che in settimana aveva dichiarato: «Il ratto è qualcosa di spregevole. C'è il concetto di derattizzazione dietro tutto ciò». Come spesso accade quando si esaminano le paure e le pulsioni oscure celate dietro il razzismo delle persone, Ferrise, che ha per genitori due immigrati calabresi, è la prima vittima di una malvagità che gioca cinicamente sul bisogno umano di essere accettati, riconosciuti, eletti a far parte di una comunità che esiste nella misura in cui nega (o, come in questo caso, rinnega) ciò che viene sbrigativamente identificato come diverso, altro da sé, non diversamente dai meridionali che, trapiantati in Lombardia, Veneto, Piemonte, accettano come un pegno d'integrazione che la propaganda legaiola definisca di volta in volta "terroni", "ladri", "mafiosi" loro e le loro famiglie. 
La campagna pubblicitaria in cui Ferrise (forse senza neppure rendersene conto) ha assimilato la propria madre e il proprio padre a topi di fogna, è stata definita un "suicidio politico" da alcuni esponenti dell'UdC ticinese come Roberto Nava e Tiziano Broggini ma Rusconi gongola e ribadisce che i finanziatori sono numerosi e ancor più congruo è il numero dei simpatizzanti, come testimoniano l'immancabile gruppo facebook e il desolante thread di commenti non filtrati in atto sul sito creato per l'occasione.

Sollecitato dalla stampa a riflettere sulla violenza dell'immagine scelta, Rusconi ha risposto: "Bisogna colpire duro, per attirare l'attenzione su certi problemi". I "problemi" menzionati nella campagna razzista dell'UdC sono ben 45.000: il numero di italiani che attraversano la frontiera per venire a lavorare in Svizzera. 
Vediamo allora un po' di dati, verificati dall'Ufficio Federale di Statistica: nel 1900 il numero dei frontalieri italiani in svizzera, anche se allora non esisteva un vero e proprio statuto di frontaliere, erano già 40 mila. A metà 2010 sono oltre 45 mila. Definire "invasione" un incremento di 5.000 unità sull'arco di 110 anni è un'operazione che rivela istantaneamente la malafede dei promotori. 
Inoltre, se è vero che il numero di lavoratori che risiedono oltrefrontiera non è mai stato così alto come cifra assoluta, va ricordato che a inizio secolo il numero di occupati in Ticino era di 80.000 unità, mentre a fine 2009 tale cifra è salita attorno a quota 172.000. In altre parole, se  la percentuale di frontalieri nel 1900 era attorno al 50%, oggi essa si attesta al 26%. In 110 anni il mercato del lavoro è radicalmente cambiato ma i posti impegnati da frontalieri si sono in pratica ridotti della metà. 

È opportuno ancora ricordare che dall'inizio del XX secolo al dopoguerra il Canton Ticino era terra di aspra povertà e di massiccia emigrazione: verso la Svizzera interna, la Francia e gli Stati Uniti. Ne dà splendida testimonianza un classico della narrativa migrante come Il fondo del sacco del ticinese Plinio Martini (1923 – 1979). Non nutriamo soverchie speranze che Rusconi e compagni possano concepire l'idea di fondare l'orgoglio della propria ticinesitassu un'opera letteraria, ma quel libro, nelle scuole del Ticino mai abbastanza letto (e in anni recenti, sempre meno) sarebbe utile anche per capire perché mentre i ticinesi "puzzolenti, pidocchiosi, consunti dalla fame e dalle malattie, e poi imprigionati nelle miniere o nei ranch, o in giro vagabondi per sterminate praterie, senza una donna e un campanile, perduti, orfani di tutto" attraversavano le frontiere in cerca di fortuna, il loro posto veniva preso dai vicini di casa italiani (a cominciare da lombardi e piemontesi). Naturalmente quei lavoratori non pendolavano quotidianamente come accade oggi, ma settimanalmente o, più spesso, mensilmente. 
Il fenomeno ha conosciuto anche percorsi inversi, dal Ticino alla Lombardia, in misura più ampia prima della Seconda Guerra mondiale. Tale flusso si è interrotto in conseguenza dell'improvvisa floridezza e disponibilità di capitale che il Canton Ticino ha conosciuto (coincidenza curiosa) a seguito del boom economico italiano. Attualmente, a fronte dei famosi 45mila italiani che entrano quotidianamente in Ticino (ma se si tiene conto di quelli che vanno a Ginevra, in Vallese e nei Grigioni, la cifra sale a 50.000 su tutto il territorio elvetico), ci sono 1.500 ticinesi che fanno il percorso inverso; in prevalenza si tratta di quadri e dirigenti di azie
nde a capitale svizzero localizzate in Lombardia. Ampliando lo sguardo a livello nazionale la bilancia raggiunge quasi l'equilibrio – 40mila residenti in Svizzera che producono reddito in Italia a fronte di 50mila residenti italiani che producono reddito in Svizzera. (Per questi dati devo ringraziare la preziosa collaborazione di Generoso Chiaradonna, giornalista del quotidiano "La Regione Ticino"). 

Questo allargamento del punto di vista, però, è precisamente ciò che UdC e Lega non vogliono. Proprio come il partito che incarna la xenofobia in Italia, legaioli e udiccì del Ticino puntano anzi a semplificare, a parlare dritto alla pancia di un elettorato nel quale fanno breccia e creano consenso i messaggi basilari (poco importa quanto fondati). 

Le elezioni sono in vista e, proprio come nella tanto detestata Italia, à la guerre comme à la guerre: per racimolare qualche voto in più, tutto va bene: tappezzare le scuole di simboli partitici, come rispolverare il repertorio di slogan e icone del nazismo.
Troppo a lungo sono stati dati per scontati concetti come la fratellanza umana, il rispetto e la difesa degli ultimi, dei bambini, dei semplici. Oggi ricostruire quel patrimonio di valori condivisi richiede la fatica di una spiegazione e la volontà di ascolto e concentrazione. Ratti e "Raus!" invece arrivano subito: le fogne si sono spalancate e, con i ratti, tracima il liquame della cattiveria, del disprezzo del diverso, della cinica rendita sulla pelle degli ultimi.

http://www.ilprimoamore.com

Una giornata italiana

13 dicembre 2009
Milano, 12 dicembre 2009
di Teo Lorini

Arriviamo a Milano dopo l’una. Abbiamo quasi due ore prima dell’appuntamento con Marco e Sara e così andiamo al chiosco all’inizio di viale Monte Nero, a cui penso sempre come al "mio" giornalaio dai tempi in cui abitavo proprio qui nel 1997. Compriamo i quotidiani e anche qualche rivista che in Ticino non si trova. Oggi è sabato e così prendo anche “la Stampa”, ma scoprirò solo a casa che TTL avrei dovuto chiederlo all’edicolante; adesso andiamo all’appuntamento con giornali e settimanali fatti su in una sorta di plico, con “la Stampa” all’esterno a raccogliere tutti gli altri. 
Da che ho memoria, ogni anno, all’anniversario della Strage, ci sono diverse manifestazioni che di solito convergono sulla Piazza da percorsi differenti. Oggi ne partiranno due, una è quella per così dire istituzionale con i parenti delle vittime, l’ANPI, le autorità. L’altra, che registra una partecipazione molto maggiore, è organizzata dalle varie componenti della Milano di sinistra e antifascista e include studenti, anarchici, membri di centri sociali, persone mature che erano ragazzini quando la bomba è esplosa e adulti che, come noi, stanno tra i 30 e i 40, non hanno ricordo diretto della strage, ma ne hanno letto o sentito raccontare dai genitori, e continuano a pensare di avere l’obbligo di mantenere la memoria di quel momento e di quegli omicidi e assieme la speranza che, in un futuro, ci sia la possibilità di rivelare una volta e per sempre i nomi dei mandanti, degli esecutori, di quei pezzi dello Stato che hanno deciso, pianificato o semplicemente tollerato che gente normale, cittadini di un paese democratico fossero massacrati in maniera indistinta, repentina e vigliacca da qualche manipolo di terroristi di fede fascista.
Poco dopo le tre i nostri amici arrivano a piazza Missori e, mentre ci stiamo salutando nella folla che si prepara a far partire il corteo, Marco intercetta un signore che scruta la testata del mio quotidiano e mi guarda male. Perché è il giornale del padronato FIAT? ci chiediamo con un po’ di bonaria ironia. O perché il suo direttore è il figlio di quel commissario Calabresi dal cui ufficio precipitò nella notte tra il 15 e il 16 dicembre 1969 il ferroviere anarchico Pinelli? In ogni caso, quell’occhiataccia ci pare di cattivo auspicio rispetto alla riconciliazione che si auspica e per cui quest’anno il Presidente della Repubblica ha fatto tanto, invitando al Quirinale anche la vedova di Pinelli, accanto a quella del commissario Calabresi che lo stava interrogando e che fu assassinato neanche tre anni dopo, e riconoscendo la necessità di rendere a Pinelli l’omaggio e il rispetto che si devono «a un innocente che fu vittima due volte».
Il nostro corteo parte e mi chiedo quante volte sono stato qui, a sfilare per le strade del centro il 12 dicembre, oppure ho mostrato a un amico in visita a Milano per la prima volta, o a qualche studente in gita, la facciata della banca provando a immaginare quel venerdì sera di freddo, confusione e terrore, e tentando poi di riassumere a quell’amico, a quello studente, o magari a una ragazza che mi piaceva, la vicenda della Strage di Stato. E altrettante volte ho anche consigliato qualcuno dei libri su cui, a mia volta, mi ero informato riguardo alla bomba di cui mi parlava, da piccolo, mia madre. Che in quel giorno era proprio a Milano, anzi ci viveva già da qualche anno e aveva sentito il botto fin da Piazza S. Ambrogio dove lavorava, capendo subito che era successo qualcosa di terribile e così si era messa al volante, per tornare a Como, dai suoi (che peraltro non le avevano risparmiato critiche su quella scelta di vivere, giovane donna sola, a Milano). Molte volte mi aveva descritto il batticuore di quel viaggio di notte, nella nebbia, con la polizia e i carabinieri che si affrettavano a organizzare posti di blocco sulle tangenziali e sulle strade in uscita da Milano, specialmente a nord, verso i valichi e la frontiera svizzera. Da quello che lei raccontava, era stata lasciata passare giusto perché quella 30enne minuta, con i capelli tagliati corti corti, su una 500 grigia non faceva paura a nessuno.
Mentre camminiamo mi ricordo il corteo del venticinquennale che ho fatto da universitario tra gli studenti delle superiori e che era partito da piazza Cairoli o la notte gelida del 2002 in cui, passeggiando con un amico che ora non so più dove sia finito, siamo capitati in piazza Fontana proprio in coincidenza con l’arrivo di un piccolo gruppo di persone che portavano bandiere nere e candele e un radiolone a pile mezzo esausto. Solo quando ho visto le "A" cerchiate mi sono reso conto che era quasi mezzanotte del 15 e che quel piccolo drappello era lì per l’anniversario della morte di Pinelli. Ci siamo avvicinati nel freddo, i respiri che formavano sbuffi di vapore bianco e gli sguardi che ci soppesavano, fino a che dal gruppo è emersa, seminascosta da uno sciarpone e un berretto calato fino quasi sugli occhi Marcella, che ci ha abbracciato in quella maniera senza filtri che ha lei, ci ha presentato il suo ragazzo e poi siamo rimasti lì un’ora a parlare nel freddo e ad ascoltare un vecchio anarchico del Ponte della Ghisolfa che ricordava Pietro Valpreda, ucciso da un cancro sei mesi prima. Mi intenerisco un po’ a ripensare alla brina che gelava e ricopriva la piazza come una coltre di neve e così mando un messaggino a Marcella che oggi non abita più a Milano.
Ma manca un quarto d’ora all’inizio della commemorazione e il serpentone del Corteo supera Largo Augusto. Ci sembra inverosimile riuscire a arrivare in piazza per le 16.37, l’ora dello scoppio, così ci consultiamo e decidiamo di sganciarci e tornare sui nostri passi attraverso via Cavallotti per essere in tempo davanti alla Banca. Nel momento in cui sbuchiamo da via Beccaria, l’altro corteo ha già raggiunto la piazza che però è ancora semivuota e così non facciamo fatica a disporci vicino al piccolo palco su cui salgono molto frettolosamente le autorità: il sindaco Moratti, il presidente della provincia, un ras del PdL lombardo che ha fatto tutta la sua carriera in Forza Italia e Formigoni, quella specie di satrapo che, grazie al sostegno compatto e militarizzato di CL, ha oramai trasformato la Regione Lombardia in una sorta di dominio personale. Vola qualche fischio, qualche: «Vergogna», poi si fa avanti Paolo Silva, si presenta e dice: Mio papà è morto in quella banca.
Allora la piazza fa silenzio e tutti ascoltano l’introduzione di Fortunato Zinni, impiegato alla BNA e superstite della strage, che oggi è sindaco a Bresso. Zinni dice una di quelle cose di buonsenso che da anni non mi capitava più di udire o di leggere nei giornali e cioè che in democrazia, quando si fa un comizio, ci può essere dissenso e perciò è lecito che ci siano anche i fischi. Poi aggiunge di soppesare bene questi fischi perché quest’anno per la primissima volta in quattro decenni, il Presidente della Repubblica è stato a Milano espressamente per ricordare la strage e incontrare i parenti delle vittime. Napolitano inoltre ha indirizzato a tutti un messaggio che Zinni legge e dopo il quale prende la parola il sindaco Moratti. 
A questo punto torna qualche fischio, qualche urlo, ma soprattutto uno slogan, che ci sforziamo di capire. Da via Larga e dall’angolo di via Santa Tecla stanno gridando: Aprite la piazza. Sara e Marco ricevono un paio di sms e poi capiamo. La piazza è stata sbarrata dalle forze dell’ordine con transenne e agenti in tenuta antisommossa. Chi ha sfilato nell’altro corteo non potrà entrare, in modo da ridurre il rischio di contestazioni e di portare a termine rapidamente una commemorazione che sembra di minuto in minuto più retorica. Letizia Moratti è l’unica a parlare di «giustizia negata per quarant’anni», e a dichiarare comprensioni per le ragioni di chi fischia. Non ho idea di dove fosse la ventenne Letizia Moratti mentre la città che lei adesso governa veniva squarciata dalla ferita che ora stiamo ricordando e per cui stiamo chiedendo ancora giustizia, non so, né verosimilmente saprò mai se a dettarle il rammarico e la mortificazione che oggi esprime nel suo atteggiamento composto e nelle sue parole sobrie sia il ricordo di quel pomeriggio o semplicemente un senso delle istituzioni che, comunque, le farebbe onore. L’impressione favorevole suscitata dal brevissimo discorso del sindaco è presto cancellata dagli altri due oratori.
Mentre la folla esclusa dalla commemorazione rumoreggia sempre più forte, prendono la parola prima Podestà, poi Formigoni. I loro discorsi ondeggiano tra la retorica e il desiderio di rimozione. Della strage non parlano quasi, limitandosi alla retorica del periodo cupo della nostra storia e delle tensioni da superare con una conciliazione che non si capisce bene su che basi dovrebbe essere costruita. Nessuno dei due menziona Pinelli. La parola "fascista", nel luogo in cui i fascisti hanno ammazzato 17 innocenti, non risuona neanche una volta.
E a me viene in mente un’altra storia. Stavolta a raccontarmela è stato mio padre, ginnasiale al liceo di Lecco quando Formigoni si preparava alla maturità ed era già un astro nascente di GS, la futura Comunione e Liberazione. Mio padre, che a sua volta è stato membro di GS e poi di CL per quasi tutta la vita, mi raccontava che in una cittadina piccola come Lecco ci si ricordava bene (anche se non pareva educato parlarne) che il padre di Formigoni era stato un comandante delle Brigate Nere repubblichine e che in quel ruolo, nel 1944, aveva ordinato l’esecuzione di quattro partigiani ventenni dopo aver scatenato i suoi uomini nel saccheggio di una cascina a Valaperta di Casatenovo.
Intanto la protesta degli esclusi cresce, Formigoni conclude il discorso che aveva aperto con la solita boria. Io rappresento dieci milioni di lombardi, dice, e a farmi tacere non saranno pochi contestatori.
Anche perché gli altri (decisamente più numerosi) non sono solo tenuti fuori dalla piazza ma, come scopriremo da altri sms, vengono anche caricati da una polizia che in Italia sembra di mese in mese sempre più pronta a ricorrere ai manganelli di fronte a qualsiasi manifestazione di dissenso.
La commemorazione blindata si conclude con Carlo Arnoldi, vicepresidente dell’associazione dei familiari delle vittime, che menziona finalmente Pinelli e, tra gli applausi, ricorda che il gesto di Napolitano ha di fatto restituito al ferroviere anarchico morto innocente, la dignità di diciottesima vittima della strage.
A quel punto se ne va anche Formigoni che scende dal palco levando le braccia tese verso il pubblico e sfoggiando lo stesso sorriso tronfio che aveva alla manifestazione dello scorso 25 aprile. Di fianco a me c’è una signora anziana, minuta, con un cappottino scuro che lo vede e sbotta: «Ma cussa l’ gh’a da sorridere, quel pirla? Venti morti ammazzati e l’ ride lù. Pirla!»
Alle 18.30, ancora frastornati da questa commemorazione a metà, camminiamo fino a via Rovello. Al Piccolo appena restaurato è prevista la proiezione di "Vittime", un documentario di Giovanna Gagliardo realizzato col contributo della Direzione generale per il cinema del Ministero dei Beni culturali presieduto da Sandro Bondi e la collaborazione dell’archivio "Teche RAI". 
Il film, se così si può chiamare, consiste in 95 minuti di interviste ad alcuni parenti delle vittime di atti di terrorismo, intervallati da frammenti di Tg rai (quasi solo il Tg2, la regista non ha fatto nemmeno la fatica di cercare nelle altre testate) e da surreali inserti con la stessa funzione delle cornicette che si facevano sui quaderni delle elementari tra un dettato e l’altro. Negli intermezzi di "Vittime" c’è una bambina, filmata con una camera a mano, che scatta delle foto. Quale sia il senso di questa apparizione resta oscuro: non solo un bambino, ma persino un adulto che vedesse questo sedicente "documentario" senza sapere nulla degli anni di piombo, uscirebbe con le idee, se possibile, ancora più confuse. 
I parenti delle persone uccise si susseguono in interviste rapidissime e senza alcun filo logico, anzi, a impedire ulteriormente la comprensione delle dinamiche e a ingarbugliare ancora di più il quadro complessivo, mistificando contesti, cause, effetti, azioni, reazioni, snodi, passaggi, epoche, si parte dagli omicidi più recenti, Biagi (2002) e D’Antona (1999), attraversando poi altri delitti di matrice rossa (sequestri, omicidi, gambizzazioni) ai danni delle persone più disparate. Dopo venti minuti è chiaro che, secondo la Gagliardo, il sequestro di un dirigente d’azienda rilasciato vivo o l’omicidio di un agente penitenziario poco più che ventenne sembrano essere reati di pari crudeltà, così come appaiono identiche (ammesso che uno spettatore ignaro capisca questa sigla) le Brigate Rosse di Curcio e Franceschini (arrestati nel ’74) e le Nuove BR di Lioce, Galesi, Mezzasalma e degli altri che compirono i loro dissennati omicidi venticinque anni dopo
Il documentario prosegue su questo registro sino alla fine, passando con indifferenza dalla gambizzazione di un docente universitario alle immagini della strage di Bologna. Su tutto si stende il velo dell’umanissimo, del comprensibilissimo dolore ma intanto scompaiono secoli di riflessione giuridica necessariamente articolata, necessariamente elaborata. Ma allora, sbotto io, l’omicidio di un poliziotto in un confronto a fuoco contro delinquenti armati oppure un ragazzino sventrato da una bomba o una bambina divorata dalle fiamme in una stazione sono delitti della stessa gravità? 
Peggio, risponde Sara, diventano uguali perfino il poliziotto ucciso nell’esercizio delle sue funzioni e il cittadino innocente e ignaro, vittima di una strage condotta con le complicità di Apparati dello Stato. 
Anche nel documentario, come nei discorsi di Penati e Formigoni, la parola "fascista" non compare mai, neanche parlando di Piazza Fontana, per cui si nominano en passant solo gli "ordinovisti veneti", sigla – ancora una volta – muta per chiunque non possegga già vasta e dettagliata conoscenza delle dinamiche di quegli anni.
Uscendo dalla proiezione, Paolo Silva, il cui padre è morto nel salone della Banca Nazionale dell’Agricoltura, si definisce senza mezzi termini "indignato". Alla strage di Piazza Fontana il documentario dedica un minuto su 95′, e per di più sul finale, come se non fosse stato proprio quell’atto vigliacco ad aprire la stagione della violenza folle che travolse l’Italia per oltre un decennio.
Nel foyer del teatro restaurato Marco scuote la testa. Non c’è più speranza, dice: Ecco la ‘pacificazione’ che si cerca, questa omologazione in cui tutto diventa uguale, nulla deve essere spiegato, chiarito, approfondito, interpretato. In cui tutto è empatia e ragione e memoria non hanno, non devono avere più un ruolo.
Davanti all’ingresso sostano le auto blu per caricare le autorità venute a presenziare all’anteprima.
I vetri oscurati nascondono i volti di chi ci sta dietro.

Videocracy

20 settembre 2009
di Teo Lorini

Proprio mentre nel Duomo di Milano e sul suo vasto sagrato si stipavano le circa 10.000 persone convenute per assistere alle solenni esequie di Stato di Mike Bongiorno, io mi trovavo a un paio di chilometri di distanza, in fila alla cassa di un cinema che proiettava un film proibito.
Benché si apra con le immagini in bianco e nero di un patetico spogliarello, ripreso 30 anni fa in un bar dell'hinterland milanese e poi trasmesso a notte fonda, la pellicola a cui stavo per assistere non appartiene al genere pornografico, né l'aggettivo "proibito" si riferisce ai divieti di una commissione che ne abbia inibito la visione a un pubblico minorenne. Ciò che fa di Videocracy un film proibito è la sostanza stessa della trasformazione sociale per cui lo Stato italiano ha celebrato, con gli onori destinati ai suoi cittadini più insigni, un conduttore di quiz televisivi noto per la sua bonomia distratta, per le sue gaffes e per la mediocrità totale e rassicurante che lo hanno reso oggetto di un celebre – e profetico – trattatello di Umberto Eco (Fenomenologia di Mike Bongiorno, 1961) pubblicato quasi mezzo secolo fa e rispetto alle cui conclusioni Mike non era minimamente mutato.
Realizzato dal regista italo-svedese Erik Gandini, Videocracy è un film sulla televisione che Mike Bongiorno ha contribuito a creare e che, simbioticamente, ha a sua volta reso Mike Bongiorno, nella sua sublime, archetipica mediocrità, un'icona che l'Italia ha ritenuto opportuno celebrare al pari di quegli statisti, di quelle vittime, di quei geni che Carla Benedetti ha ricordato qui.
Anche per questo del film di Gandini non si parla, non si deve parlare né sulle televisioni del Presidente del Consiglio né su quella Rai che ne rifiuta persino gli spot dicendo che «servirebbe un contraddittorio».
Partiamo allora proprio da questi spot, i quali altro non sono se non la sintesi dei primi 5 minuti del film. In essi si vede il bar già citato, una sorta di conduttore in smoking con antiquati baffoni e un marcato accento lombardo e una casalinga col viso coperto da una mascherina con veletta che ancheggia goffamente in reggicalze e inverosimili collant opachi. Le immagini sono alternate a scritte su fondo nero che dicono: «Trent'anni fa in Italia un piccolo esperimento televisivo crea una rivoluzione culturale». Ciò che segue è un montaggio progressivamente accelerato in cui Gandini condensa un minuscolo campione della quantità di nudi femminili che rendono la televisione italiana qualcosa di unico rispetto a tutti gli altri paesi del mondo.
Al termine di questo rapido susseguirsi di abiti sempre più ridotti che si sbottonano, che vengono lasciati cadere o strappati ad arte, l'infilata di seni, cosce, glutei inquadrati sempre più da vicino lascia il posto all'immagine di una parata militare a cui assiste, battendo le mani, il presidente del Consiglio, che, come tutti sanno, è anche il presidente delle televisioni italiane.
Che sia proprio qui il problema? E forse questo ciò che non si deve dire?
Sebbene Veltroni, D'Alema e i vari rappresentanti di quel partito che dovrebbe rappresentare l'opposizione da anni non facciano che ripetere che il possesso di metà della tv nazionale e il controllo dell'altra metà da parte di un solo uomo, un uomo politico, non costituisca un problema, sia un argomento superato, non cambi né orienti il voto degli italiani, nonostante questo la semplice giustapposizione dell'immagine di Berlusconi nel suo ruolo istituzionale e delle immagini di programmi trasmessi nella tv italiana si configura come un'affermazione scandalosa, un tabù, che non deve essere mostrato né tantomeno visto, neppure pensato. Qualcosa per cui è necessario addirittura «un contraddittorio».
Ma a cosa esattamente si dovrebbe contraddire? Qual è l'affermazione che va ribattuta, confutata? Il fatto che la televisione abbia un ruolo nella carriere dell'uomo che 15 anni fa è entrato in politica e che oggi è (parole sue) «il miglior premier che l'Italia abbia potuto avere in 150 anni di storia»?
Si dovrebbe forse negare che Berlusconi un tycoon televisivo?
Si può negarlo?
O il problema sono i nudi e l'immagine femminile che la tv italiana proietta e che è stata efficacemente analizzata nel documentario di Lorella Zanardo Il corpo delle donne?
Ma anche qui: si può forse negare che la televisione italiana abbia raggiunto e stia costantemente proiettando dagli schermi anno dopo anno, giorno dopo giorno, un tale livello di esposizione, di sfruttamento, di mercificazione, di umiliazione della donna ridotta alla mera funzione di corpo da mostrare, spogliare, commentare, migliorare chirurgicamente? Non mi viene in mente un singolo altro paese nel mondo in cui questo avvenga e si sia persino normalizzato in una weltanschauung mediatica in cui ogni nuovo palinsesto si spinge un gradino più avanti lungo questo percorso.
Forse allora quello che rende il trailer di Videocracy meritevole di essere bandito è il collegamento tra questa corsa all'abisso, frutto di una precisa strategia comunicativa, non certo casuale né legata a un singolo episodio o incidente (come, che so?, il citatissimo episodio del Superbowl 2004 in cui Justin Timberlake aveva – non si sa quanto incidentalmente – scoperto un seno della collega Janet Jackson in diretta tv) e quanto in Italia sta emergendo da mesi: l'ormai inequivocabile rapporto fra gli appetiti sessuali del padrone delle televisioni (quelle televisioni su cui la corsa al corpo della donna è iniziata) nonché presidente del Consiglio e l'assegnazione di posti nelle liste elettorali o di nomine istituzionali. È questo il collegamento che non si può, che non si deve neppure formulare? E che agli italiani non deve essere mostrato sulle televisioni da cui tracima quotidianamente quell'immagine di donna che ha informato di sé l'immaginario di una nazione?

A giugno, quando ancora le dimensioni dell'affaire Berlusconi-prostituzione-ricattabilità-nomine politiche, sembravano circoscrivibili all'incidente di percorso di un povero anziano, ricco e bavoso in egual misura, Tiziano Scarpa ha compiuto una riflessione sull'universo televisivo italiano che si concludeva così: «Quello che avevo sempre pensato, riguardo alla televisione, e in particolare la televisione privata, le reti berlusconiane, la loro irresistibile ascesa, la loro conquista del predominio dei gusti del pubblico, era che fossero il frutto di una competenza specialistica, di oculate strategie di mercato, sondaggi sulle preferenze e le debolezze profonde della gente. Archetipi condivisi, esperienza commerciale, estetica dei media…
Stangone, bellezza, gioventù, culi, sorrisoni, femmine, grandi tette, dentature smaglianti, cosce in movimento: marketing. Nient'altro che marketing. O, se si vuole, populismo: assecondare i gusti triviali della maggioranza, colpire al basso ventre con una carezza vellicata. Dare alla gente robaccia, spettacoli triviali, perché, ahimé, è quello che in fin dei conti la gente vuole, anche se il padrone avrebbe ben altri gusti e desidererebbe offrire tutt'altra qualità. Doppia verità. Doppia estetica.
Quello che è venuto fuori in queste settimane è molto più semplice. Molto più umano. Le feste di Capodanno in Sardegna, i dopocena a palazzo Grazioli, le vacanze circondato da belle ragazze, il gelato gratis per gli ospiti, le donne fresche, sorridenti, dappertutto, la caricatura scadente della canzone napoletana, le barzellette in ogni occasione…
Lo spettacolo televisivo che ci ha proposto Berlusconi, da trent'anni a questa parte, il sogno in cui ci ha risucchiati, non era una strategia di marketing. Era quello che piace veramente a lui. Era il suo sogno. Quello che, appena può, lui allestisce scenicamente per sé stesso, dal vivo, intorno a sé, a casa sua, a palazzo, nelle sue ville, facendolo recitare in carne e ossa dalle sue giovani invitate, i suoi suonatori di chitarra, gli ascoltatori delle sue barzellette.
La tivù con cui ha conquistato l'Italia è esattamente la realtà che allestisce per sé. Nessuna discrepanza fra lo spettacolo riservato al principe e quello offerto ai sudditi. A ridosso della scena, dentro casa, con la tivù che ci recita in bocca, imbevuti dalla sua luce, siamo stati risucchiati dentro il sogno del padrone».

Videocracy non si limita a confermare queste considerazioni, ma lo fa entrando nella tv del padrone e facendolo raccontare alle stesse creature (collaboratori, dipendenti, partner in affari) che lui ha selezionato e collocato a controllare questa macchina.
Come il regista che sceglie le inquadrature del "Grande fratello" in un ambiente che gli addetti ai lavori chiamano «acquario», perché i corpi dei concorrenti si muovono dietro lastre di vetro, prigionieri degli stessi percorsi obbligati ed esposti dei pesci nelle vasche illuminate degli zoo.
È proprio Fabio, il regista del primo fra tutti i reality-show, di uno dei più grandi successi di share della televisione berlusconiana, a spiegare che la scelta del flusso di immagini femminili è direttamente connessa alla personalità del presidente, che è nutrita del suo immaginario, dei suoi sogni, delle sue visioni: ragazze prosperose, abiti succinti, glamour, colori sgargianti… Fabio arriva ad affermare che è molto forte la compenetrazione tra l'uomo Berlusconi e la televisione che quell'uomo ha prodotto.
Il regista rivela poi un retroscena che ancora una volta conferma il legame di cui non si deve parlare, il collegamento che non si deve fare.
Fabio spiega a Gandini che quando Berlusconi deve comparire a "Porta a porta", nelle vesti istituzionali di presidente del Consiglio, "Grande fratello" il programma di maggiore ascolto della rete ammiraglia del gruppo Mediaset, quello cioè che raccoglie più pubblicità, più denaro per le televisioni di Berlusconi, deve concludersi prima del solito, affinché gli spettatori, scientemente o magari facendo zapping, passino tutti sul canale dove appare Berlusconi, il quale ufficialmente da dodici anni non si occupa più della propria azienda televisiva (e tantomeno di quella statale).

È qui, anche qui, che il documentario aiuta a delineare e precisare una sensazione che confusamente attraversa le giornate e i mesi in cui io, umilmente, provo a riflettere e ad articolare un pensiero compiuto sulla società italiana e sulle impressioni che di essa mi trasmette la televisione: quella di un paese all'incontrario, un Mundus Alter, come nel titolo di un bel libro di Marcella Farioli sulla commedia greca del V sec.
Nella commedia archaia piove vino e scorrono fiumi di latte o di brodo, i sassi sono gustose polpette e le montagne polenta fumante, le bestie governano gli uomini e i bambini dettano legge agli adulti, in un immaginario che attraversa tutto il folklore europeo, innervando oltre alla letteratura il mondo della favola, l'arte figurativa, il cinema e che dà vita a due topoi, che si rispecchiano l'uno nell'altro: il Paese di Cuccagna e il Mondo all'incontrario.
Ecco: l'Italia della Videocrazia è una Cuccagna ininterrotta che nutre il Mondo rovesciato e ne nega il carattere paradossale e dis-topico, quello cioè di una utopia all'incontrario, fondata sul sovvertimento dei valori condivisi.
È il mondo dove l'appellativo di eroe non va ai servitori dello stato ma agli emissari della mafia; dove la scelta dei candidati alla cosa pubblica si basa sui criteri estetici e sulla disponibilità sessuale, non sulle competenze; dove ci si difende dai processi e non nei processi; dove il magistrato è un criminale, un pazzo che non deve permettersi di prendere la parola o di partecipare alla vita civile del Paese e sul giornale (sul Giornale?) scrivono invece i condannati per i reati più vari; dove la guerra è una missione di pace; dove l'oppresso che fugge dalla morte e dalla persecuzione è un clandestino, un ladro, uno stupratore; dove l'abbandono di miserabili, donne incinta, bambini, lasciati morire di fame o di febbre in mare diventa una «procedura di respingimento»; dove il naturale senso di fratellanza umana è disprezzato e schernito come "buonismo" e la cattiveria è invece celebrata come un valore finalmente riconquistato; dove si tagliano i fondi alla polizia per elargirli invece invece alla giustizia privata delle ronde; dove il giornalista non deve fare domande basandosi sui documenti ma invece può mandare avvertimenti, compiere intimidazioni e character assassinations sull'unica base di dossier dalla provenienza oscura, senza nulla provare ma solo in virtù di una "potenza di fuoco" senza pari; dove viene bandito dalla televisione questo film che dovrebbe invece essere mostrato in tutte le scuole (esattamente come Il corpo delle donne), per offrire una sia pur minima risorsa argomentativa alle generazioni di adolescenti cui ogni pomeriggio la televisione propone come modello unico l'esposizione di corpi mercificati, svuotati, sfruttati che affollano "Uomini e donne", "Grande fratello" e tutti gli infiniti cloni di questa televisione.
E invece, nel Mondo alla rovescia in cui si è trasformata l'Italia, ad avere bisogno di contraddittorio non è quello spaventoso tritacarne in cui si riducono in brandelli l'intelligenza, la dignità, il rispetto di sé e dell'altro, bensì un piccolo film indipendente che si permette di proporre un altro punto di vista, di operare una connessione fra le cose che sono sotto gli occhi di tutti e che pure devono ad ogni costo essere considerate distanti, separate, irrilevanti.

Tanti anni fa leggevo molta fantascienza e, in una strepitosa antologia curata da Fruttero e Lucentini per Einaudi, avevo incontrato un racconto di Robert A. Heinlein intitolato L'anno del diagramma.
Il protagonista si chiama Brian Breen ed è un matematico e astronomo dilettante che, dopo aver notato un'innaturale diffusione di notizie curiose, eventi inspiegabili, comportamenti apparentemente folli da parte degli individui più disparati, prende l'abitudine di codificare queste circostanze e riportarne i cicli su un enorme rotolo di carta millimetrata, accanto ai trend delle borse finanziarie, dei fenomeni naturali, degli incidenti automobilistici, delle correnti magnetiche ecc. A ciascuno di questi fatti Breen assegna un colore, tracciando un diagramma che rappresenti l'andamento di ogni singola categoria, come le curve, che nei film americani, si vedono appesi dietro la scrivania degli imprenditori: «Piene del Mississippi, animali da pelliccia catturati nel Canadà, indici di borsa, matrimoni, epidemie, merci trasportate dalle ferrovie, invasioni di cavallette, divorzi, raccolti di frutta, guerre, piogge … Basta chiedermi: qui dentro c'è tutto».
«Lei vuol dire che persino il tipo che ha cercato di vendere il Polo nord è segnato su una di queste linee?»
«Contribuisce anche lui. E poi gli arceri Zen, i neotachisti che dipingono con acqua distillata, i fondatori della prima Chiesa Subacquea, i maniaci del matrimonio in paracadute, l'uomo che ha spinto col naso una nocciolina da New York a Philadelphia e i membri della setta Mitridate che prendono ogni giorno il caffè con una punta di veleno…»
Quando la sua interlocutrice nota che tutte le curve covergono decisamente verso un singolo punto del diagramma, Breen cita i lemmings e la periodica marcia della morte al termine della quale i topi migratori vanno a gettarsi in mare a milioni. Alla fine del racconto, le strambe misurazioni di Brian Breen si dimostrano azzeccate e una catastrofe attende l'umanità.
Quando penso all'Italia all'incontrario di questi anni, L'anno del diagramma mi torna in mente sempre più spesso.

La nostra fragile memoria

20 luglio 2009
Dimenticare la valigia (di cartone)
di Teo Lorini

Da qualche anno Il fondo del sacco era nella mia libreria, sempre più impolverato, prossimo ormai ad essere relegato nel dimenticatoio dell’ultima fila. Quando mi capitava di intravederlo, mentre collocavo sul ripiano un altro volume, mi tornava in mente Il barilotto di Ammontillado e il personaggio di Fortunato, costretto ad assistere inerme mentre, uno dopo l’altro, si chiudono gli strati di mattoni che lo sigillano nel suo sepolcro. A differenza di Montresor, però, io non ero contento e anzi mi sentivo tremendamente in colpa perché quel libro è stato un dono, il pensiero di un caro amico per il mio primo Natale da emigrato.
Dopo averlo recuperato, ho poi trovato, infilato tra le pagine a mo’ di segnalibro, una cartolina e adesso mi piace pensare che questa stessa copia, che ora si è conquistata un posto sulla mia scrivania, sia stata già regalata tante altre volte e, chissà, forse tra un po’ sarà il mio turno di passarla al prossimo lettore…
Apparso nel 1970, il romanzo del poeta e maestro elementare Plinio Martini (1923-1979) è una fra le opere più celebri del panorama – in verità non vasto – della letteratura svizzera di lingua italiana. Anche per Martini però e anche per un’area come il Ticino, così attaccata alle proprie tradizioni e alla propria specificità, vale l’inesorabile sentenza evangelica sull’impossibilità di essere profeti in patria. In anni di insegnamento nelle scuole della Svizzera italiana, infatti, mi è successo di rado d’imbattermi in studenti che avessero affrontato Il fondo del sacco, testo quasi scomparso – poche e meritorie le eccezioni – dal novero delle letture canoniche. Peccato, perché tra i pregi di questo romanzo c’è anche quello di fornire una fotografia dolente e sincera di una regione passata in pochi decenni dalla povertà più aspra alla cospicua prosperità di oggi.
La fragilità della memoria storica non è prerogativa solo italiana: mentre entravo nel racconto di Gori, giunto fino alla California rurale per scappare dalla miseria e dalla fame nel paesino natale in Valle Maggia, mi venivano in mente le facce, i nomi, l’energia fervida di tanti allievi ticinesi che snocciolano, con tutta l’ingenuità della loro adolescenza, gli slogan xenofobi dei movimenti che in Ticino – proprio come in Italia – proliferano sulla rendita della paura e dell’insicurezza, «professionisti di questa sola professionalità, di tirare fuori il peggio dalle persone pescando nel torbido dell’inimicizia tra i gruppi umani». E che, in Ticino proprio come in Italia, lo fanno battendo sul tasto della presunta diversità ontologica ed etica fra i popoli dei paesi ricchi e quelli che invece arrivano spinti dal bisogno, a sbattere in faccia a noi – italiani, svizzeri, francesi ecc. – «le loro antiche facce da poveri, la loro disperazione e la loro puzza».
Il fondo del sacco è un romanzo molto influenzato dal neorealismo italiano a cavallo tra gli anni Quaranta e i Cinquanta, da Fenoglio in primo luogo. È un retaggio che, soprattutto nelle prime pagine, si fa sentire e strappa qualche moto di irritazione per le locuzioni più affettate («asciugarsi l’acqua dagli occhi», «scioglier le cigne della gerla» ecc.). Ma questo sentimento scompare presto di fronte all’urgenza e alla forza della materia narrata, ma anche perché Martini riesce quasi sempre a sbrigliare il suo stile dalle pastoie stilistiche, a osare fino in fondo, da narratore di razza. Come nel terzo capitolo dove passa in rassegna le innumerevoli morti che funestano la piccola comunità («i poveretti che se n’andavano in quattro e quattr’otto di grippe polmonite tisi galoppante appendicite in case di miseria col medico che stentava sempre ad arrivare… c’erano le frane e le valanghe… parenti nostri caduti travolti annegati e gente che non s’è trovata più… l’agonia di quel poveretto che dentro sopra Frodone dovette morire trentacinque ore dopo che era stato schiacciato fino all’inguine da un masso che non si poté smuovere…») e poi scioglie al cielo il memorabile Te Deum di Gori: «ti lodiamo signore per l’annata buona che è una grazia, o per l’annata grama che è una grazia non averla ricevuta peggiore; ti lodiamo per le castagne le rape l’acqua bollita [brodo di farina, sale e cipolle arrostite, tanto diluito da parere acqua sporca], e chi gli è caduta la vacca dal dirupo ti loda che non gli sia caduta la vitella in più. Tutti in fondo avevamo una ragione di lodare, i sani gli orfani i malati e quelli che saltavano i pasti, perché erano ancora vivi per tirare avanti con le tribolazioni di quelli che erano passati al numero dei più».
Il tema della morte attraversa tutto il libro, che si apre nel ricordo di Maddalena, promessa sposa di Gori portata via da una banale polmonite prima di poterlo raggiungere in California, e prosegue passando in rassegna i lutti di intere famiglie ostaggio di una precarietà e un’indigenza atavica. Ecco ed esempio come Martini racconta la sorte di Vittorina, sorella maggiore di Gori, morta a sette anni: «Nostra madre di Vittorina si fidava, anzi le aveva detto di badare al piccolo e al latte che era sul fuoco. Successe che a Vittorina, intanto che staccava il paiolo dalla catena cominciarono a bruciare le vesti; non se ne sarà accorta subito, quando si vide in fiamme uscí fuori di corsa gridando incontro a sua madre, e all’aria aperta divampò come una torcia; cadde poverina, e si alzò ancora per finire tra le braccia di sua madre che le correva incontro ma che ormai arrivava troppo tardi».
Sembra una descrizione presa di peso dalle cronache che raccontano le morti di bambini zingari bruciati nei loro carrozzoni: è impressionante pensare che invece questi fatti fossero all’ordine del giorno in una regione che, mentre scrivo queste righe, è in allarme per i miliardi di euro che giacciono nelle banche di Lugano e che il ministro Tremonti vuole riassorbire con il più spudorato dei condoni. Anche Gori, ormai adulto e anzi sulla via della vecchiaia constaterà come le cose siano rapidamente cambiate mentre lui era lontano, a faticare nei ranch californiani, e intanto l’onda lunga della "favorevole congiuntura economica" si diffondeva dalla Svizzera tedesca a far prospere le piccole città e infine anche le valli del Ticino: «Ne profittarono tutti, i bottegai, il prestinaio; gli osti cominciarono ad alzare la cresta e i prezzi; e i capretti, che una volta erano venduti a due franchi l’uno, e ancora a trovare il compratore, nel giro di pochi anni ebbero il prezzo cinque volte tanto, anche perché adesso c’era del lavoro pagato, i caprai, preferivano vendere il branco e cambiare mestiere», lasciandolo verosimilmente a quegli stranieri accusati spesso di rubare il lavoro, tollerati a fatica, bollati come facinorosi, violenti, rissosi, prima gli italiani, poi portoghesi e spagnoli, turchi, slavi, africani nella progressiva successione delle ondate di migrazione che sempre hanno spinto l’essere umano a muoversi per sopravvivere e cercare rifugio, calore, cibo, prosperità: «Emigriamo da sempre, siamo nati per quello, per farci svaligiare nelle strade d’Italia, per arrivare malvestiti a Parigi, per finire in Olanda a marcire di tisi e in Germania a morire di crepacuore. Anche Napoleone se l’è presa con noi, e con la scusa di averci liberati dai balivi ha portato la nostra più bella gioventù ad affogare nella Beresina… E dopo, l’Australia e la California, mesi di mare ammucchiati nelle stive, puzzolenti, pidocchiosi, consunt
i dalla fame e dalle malattie, e poi imprigionati nelle miniere o nei ranch, o in giro vagabondi per sterminate praterie, senza una donna e un campanile, perduti, orfani di tutto».
Le riflessioni più profonde e dolorose sono allora affidate al Giudice Venanzio. È questo personaggio borghese e istruito che si lascia andare a definire il Ticino con una onestà e una profondità dolorosa e senza filtri: «Chiuso a nord alle Alpi e a sud dal confine, il Ticino è come una forma di formaggio che non prende aria e fa i vermi; i vermi sono gli avvocati, i consiglieri, i galoppini dei consiglieri, i galoppini dei galoppini, e dietro i capimafia; che vuol farsi strada deve rinunciare in partenza alla propria dignità; i pochi onesti, quelli che capiscono, lasciano cascar le braccia e si tirano in disparte, mentre il popolo -ma siamo un popolo?- continua a votare per i medesimi partiti, come se in quel caso la fedeltà fosse una virtù; i nostri professionisti studiano nella Svizzera tedesca e se non si fermano là dentro portano fuori la moglie e ragionano in lingua mancina, da non sapere nemmeno più scrivere italiano…»
Se il Giudice Venanzio è la voce razionale del libro, il suo cuore pulsante sta tutto nell’intensità sentimentale con cui Gori rievoca la storia di una comunità prostrata e inerme, capace di gesti caparbi, come quello di Giuseppe Zan Zanini, l’artigiano semianalfabeta che strappa alle rocce più impervie il percorso di una «STRADA PER PASARE LE BESTIE BOVINE / FINO SULALPE LANO 1833», ma condannata dalla povertà, dall’ignoranza, dal bisogno all’oscillazione perenne nella zona d’ombra tra sopravvivenza e sopraffazione: il razionamento del cibo, le violenze fra le mura domestiche, l’alcolismo endemico, la scoperta del sesso che un amico di Gori descrive in una delle pagine più toccanti, appassionate e abrasive del libro:
«Io volevo bene a mia sorella; lei è sempre stata così buona con me: da piccolo mi aspettava, mi dava la mano quando andavamo a scuola, che pazienza aveva, e in chiesa mi aveva insegnato a stare con divozione e adesso la trovavo lì a far quel che faceva. Rimasi incollato alla porta; c’era il sole e faceva caldo; quando li sentii alzarsi ebbi appena la forza di sedermi sul prato cinque metri distante. Uscirono e non mi voltai nemmeno. Michele scantonò, ma mia sorella sentii che mi veniva vicino e mi guardava fisso; io la sbirciai appena, era ancora spettinata. «Hai guardato dentro nel fienile» disse con voce dolce, e io non risposi; lei per un po’ mi girò intorno e seguitava a guardarmi, mi pare ancora di veder le cavallette volar via dai suoi passi. Infine decise che avrebbe preparato il caffè. Scese in cascina e io la seguii; cominciò a canterellare in fondo alla gola; rifece il fuoco e mise l’acqua nel paiolo; l’appese; si moveva adagio, sopra pensiero; e poi prese un asciugamano: «Vado a lavarmi alla fontana» disse con la medesima voce di prima e uscí; dalla cucina c’è un finestrino che inquadra la fontana. E così potei guardarla com’era fatta alla luce del sole; era la prima volta che vedevo una donna nuda; Dio com’era bella; e intanto che la guardavo mi venne in mente che lo sapeva anche lei del finestrino. […] L’ho guardata tutta; c’era da diventar matto a vederle tremare i senti intanto che si asciugava; poi si rivesti, la veste cadde giù a nasconderla; ritornò in cucina, canterellava ancora, e io la guardai negli occhi, la guardai finché smise e voltò via. Allora cominciò a girare per la cucina, toccava ora una cosa ora un’altra e io le guardavo le mani sfiorare quegli oggetti…
– Rocco – lo pregai questa volta – perché mi racconti queste cose? –
– A qualcuno devo dirle, no? – gridò e si alzò come se volesse picchiarmi, ma poi tornò a sedersi voltandomi le spalle. E così cominciò a descrivere quel che successe dopo; come sua sorella fosse uscita a scaldarsi al sole; si era buttata sul prato e aveva tirato su la sottana dalla quale erano uscite le gambe, Rocco, incollato alla finestra; e poi come fosse salita nella stanza senza nemmeno chiudere la porta. Rocco aveva aspettato un certo tempo ed era entrato. «Soprattutto non credere che sono stata io a chiamarti» si era contentata di dire; e poi: «Adesso non andrai più a raccontarlo a nostra madre».
Sono cose che a raccontarle al galoppo come faccio ora è già troppo. Ma Rocco per me non l’ha avuto quel riguardo; la sua voce usciva dalla nebbia come una stregoneria e mi teneva; pareva non dovesse finire più; passo per passo mi raccontò una passione che li aveva avvinghiati, fratello e sorella, in un prato dannato dove non c’era che lo stridere delle cavallette sotto il sole, dove potevano essere sicuri che non sarebbe mai arrivata un’anima cristiana a sorprenderli, soli col loro desiderio sotto la volta del cielo».

Assunzione di responsabilità

23 marzo 2009
di Teo Lorini

Qualche settimana fa su Vibrisse, Giulio Mozzi proponeva una riflessione sulla chiesa odierna e sul suo rapporto con il mondo della politica attiva, soprattutto italiana, e di quelle che Mozzi chiama le "organizzazioni politiche" contemporanee. La conclusione cui arriva l’articolo (alla cui lettura rinvio, scusandomi sin d’ora per quel tanto d’inevitabile grossièreté che ogni sintesi comporta) dice in sostanza che "la chiesa è stata fregata", intrappolandosi in un gioco che queste organizzazioni politiche, in particolare quelle di destra, "sanno fare molto meglio di lei, e possono giocare con molta più destrezza in quanto non hanno alcuna remora a barare. O, più esattamente, barano per esigenza di sopravvivenza, barano strategicamente: tra barare e giocare non conoscono differenza". Una conclusione che a me pare assai vicina dall’analisi che il Pasolini ‘corsaro’ faceva 35 anni fa in articoli come la celebre Analisi linguistica di uno slogan o il Discorsetto di Castelgandolfo.
Più interessante appare invece la distinzione operata da Mozzi quando puntualizza che con la parola "chiesa" egli si riferisce "alla gerarchia della chiesa cattolica (papa, vescovi, conferenze episcopali e via dicendo)". Se infatti viene chiarito che una cosa è la "chiesa" nel senso mozziano di gerarchia e delle azioni che essa approva, ratifica o sottoscrive e altro sono le infinite sfaccettature del pensiero o dei pronunciamenti dei singoli che si professano cattolici, risulta più facile disinnescare il meccanismo, tanto interminabile quanto sterile, in cui si smarriscono sia gli apologeti sia i critici di pensieri, parole, opere e omissioni in qualche modo riconducibili a un generico e confuso concetto di chiesa o di cattolicesimo.
Da qui si può allora partire per sgombrare il campo da equivoci e semplificazioni grossolane come quelle di chi trae linfa per polemiche anticlericali da gesta, scellerate ma pur sempre espressione di un singolo, come quelle del sacerdote fascista don Giulio Tam, candidatosi a sindaco di Bologna nelle fila del partito di estrema destra Forza Nuova.
Allo stesso modo, la precisazione di Mozzi svuota l’argomentazione, speculare e altrettanto inane, in cui capita spesso di imbattersi discutendo con amici cattolici. Di fronte a espressioni di perplessità su questa o quella posizione di autorevoli personaggi, membri a tutti gli effetti di ciò che con Mozzi si può lecitamente identificare col termine "chiesa" (le esternazioni dei vari Ruini, Bagnasco, Betori in materia di omosessualità, diritti, testamento biologico, privilegi fiscali ecc.; l’opportunità di intralciare la giustizia penale in materia di pedofilia o di spalancare le porte della riconciliazione anche agli antisemiti negazionisti come il famigerato vescovo Williamson) ecco, in questi casi da numerosi interlocutori cattolici mi viene risposto che la chiesa non è solo questo (e ci mancherebbe), ma anche l’assistenza ai poveri, il lavoro in prima linea contro analfabetismo e miseria, lo sforzo di tanti coraggiosi parroci di frontiera o missionari che spendono ogni oncia di energia a favore degli ultimi.
Naturalmente questo escamotage retorico, ancorché applicato in buona fede – e mi si passi il bisticcio – è un paradigma moltiplicabile all’infinito grazie al quale si può rispondere anche alle critiche verso le "organizzazioni politiche" (quale di esse non conta al suo interno decine di militanti sinceri, appassionati o intelligentemente critici verso molte scelte della nomenklatura?) e persino verso quelle criminali (come escludere che la mafia, la camorra, le triadi eccetera annoverino fra gli affiliati e la manovalanza membri che, a modo loro e sia pur nella distorta visione di chi si muove nell’illegalità, si attengono a qualche forma di rettitudine e a un personale codice d’onore?).
Sarebbe bello e auspicabile allora ripartire dall’intelligente distinzione formulata da Giulio Mozzi e che alla sua definizione di "chiesa" ci si attenesse ad esempio nel valutare le esternazioni a cui si è abbandonato Benedetto XVI all’inizio del suo viaggio in Africa.
Al di là delle numerose reazioni che esse hanno suscitato nelle sedi più autorevoli e delle rettifiche (in verità alquanto tartufesche) che l’apparato vaticano si è affrettato a mettere in atto, martedì 17 marzo dall’alto della sua autorità il Pontefice ha espresso la posizione ufficiale della chiesa.
Quella condanna del profilattico, quell’espressione radicale (incisa dai reporter così come pronunciata dalla viva voce del pontefice) secondo cui esso «aumenta il problema», sono a tutti gli effetti un’assunzione di responsabilità da parte di un’istituzione che, proprio grazie al radicamento e all’estensione della presenza missionaria nel territorio, può svolgere un ruolo importantissimo nella lotta alla malattia in un’area, l’Africa sub-sahariana, dove si concentrano circa 22.000.000 di malati, più del 65% delle persone affette dal virus HIV nel mondo.
Ci sono, certo, moltissimi missionari che, con lucida, orgogliosa indipendenza, hanno sinora distribuito profilattici ai cittadini dei paesi africani in cui essi svolgono la propria opera pastorale, ma il loro luminoso esempio non muta in nulla la realtà dei fatti: la chiesa cattolica condanna in termini inappellabili e inequivocabili l’adozione del principale strumento contro la trasmissione del virus HIV.
Di più, il discorso di sposta dalla logica (il lavoro dei missionari di cui sopra non può più costituire un’obiezione alla critica verso le posizioni della chiesa) alla prassi. Se infatti, come ricordava il presidente della Pontificia accademia per la vita, mons. Rino Fisichella, esistono scomuniche e sanzioni che giungono in via automatica, con l’esplicita condanna papale del 17 marzo quei valorosi sacerdoti, che io ammiro (e ci mancherebbe) proprio come i miei amici cattolici, si trovano di fatto in condizione di infrazione rispetto ai precetti della chiesa.
Il sommo Pontefice Benedetto XVI, ribadendo con tanta determinata chiarezza la condanna oscurantista, incomprensibile, micidiale al principale strumento di prevenzione del contagio, non impiega un atteggiamento "irresponsabile" o "sconsiderato" (come li ha definiti il circolo di cultura omosessuale Mario Mieli, poi ripreso da Franco Buffoni su Nazione indiana), ma al contrario compie una precisa assunzione di responsabilità rispetto a quella tragedia, ricordando esplicitamente ai cattolici tutti che tale è la posizione ortodossa e inequivocabile della chiesa cattolica e che chi da essa prende le distanze, lo fa allontanandosi proprio da quella chiesa a cui professa fedeltà ogni volta che recita il Credo.

In quale Stato?

2 febbraio 2009

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di Teo Lorini



È più desolante che ministri e sottosegretari confondano la diplomazia con la partecipazione a una partita di pallone o che la redditizia macchina del business calcistico si produca lambiccati equilibrismi per giustificare la suddetta partecipazione senza contraddire il Governo di cui beatamente s’impipa?
È più fuorviante che in Brasile Cesare Battisti rilasci a una rivista l’ennesima intervista inopportuna e confusa o che gli articolisti italiani la confondano ulteriormente? Sono più inappropriate le parentesi d’espunzione – […]
dall’arcano sapore d’omissis con cui il Corriere dissemina ogni singola citazione di Battisti o i salti mortali con cui il Giornale ricava al solito una frase mai detta per darci pure oggi il pane quotidiano di un titolone («Battisti spara sull’Italia: Mafiosi») che avveleni gli animi dal parrucchiere e scateni le discussioni sull’autobus?
È più doveroso ricordare che il povero Alberto Torregiani, brandito e strumentalizzato da giornalisti di ogni colore, è stato reso invalido da una colpo esploso dal padre, e che quest’ultimo è stato ucciso da un commando in cui Battisti non c’era e i cui quattro membri sono stati identificati, catturati, processati e hanno scontato le rispettive condanne? O magari segnalare l’incongruenza per cui a suon di inesattezze e distorsioni della realtà si sollecita la collera dell’Italia intera contro il "mostro" Battisti e si tralasciano invece i motivi per cui la Francia approvò un protocollo politico (ribattezzato popolarmente e impropriamente "dottrina Mitterrand") in un’epoca di processi sommari e confessioni estorte con la tortura?
È accettabile sorvolare sul criterio dei due pesi e delle due misure adottato da un’intera classe politica? Accogliere senza una piega la disinvoltura con cui il ministro degli esteri Frattini resta in costumino alle Maldive durante il vertice internazionale sul conflitto armato Russia-Georgia, in tutina da slalom gigante in piena crisi di Gaza, ma s’affretta a indossare il doppiopetto per parlare dell’ambasciatore italiano richiamato da Brasilia? Glissare sulla sproporzione per cui su Battisti si martella da anni mentre il neofascista Delfo Zorzi, membro di Ordine Nuovo ai tempi di Piazza Fontana, attualmente imputato nel processo per la strage di Piazza della Loggia, da decenni riparato in Giappone (paese con cui l’Italia non ha trattato di estradizione) con tanto di passaporto farlocco fornito dai servizi segreti italiani, non solo non si disturba a intervenire alle udienze ma si può permettere di acquisire cittadinanza nipponica con l’accusa di strage che gli pende sul capo, e diventare in più miliardario col commercio di capi d’haute couture e persino proprietario della lussuosa boutique Oxus in Galleria Vittorio Emanuele?
È scortese menzionare il fatto che il rifiuto di chiudere i conti con la propria storia moltiplica a cascata le iniquità, paralizza l’evoluzione della dialettica e impedisce al Paese di addivenire a una parvenza sia pur minima di omogeneità e condivisione che non sia basata su calcoli di opportunità? -le mie intercettazioni in cambio del tuo sbarramento elettorale? il mio federalismo per il tuo aeroporto? e così via ad nauseam

O non è forse necessario porre con lucidità il problema del contesto in cui è maturata la vicenda di Battisti e di un’intera generazione che ha violato leggi, rapinato, sparato perché coinvolta in una dinamica e in una dimensione di scontro che è stato anzitutto e sopra ogni altra fattispecie politico e storico?

Battisti non riscuote le simpatie di chi scrive e, con buona probabilità, si aliena quelle di chiunque provi a comprendere la complessità della sua vicenda, ogni volta che apre bocca per rilasciare l’ennesima dichiarazione in cui si fondono faciloneria e disprezzo, boria e superficialità. Ma questo non giustifica che si calpestino i fatti, la memoria, la capacità critica, la ragione e il diritto che di quella ragione dovrebbe essere espressione. Né che si taccia sul fatto che su di lui, si combatte ora l’ennesima, cinica battaglia d’immagine e di rendite politiche.

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21 dicembre 2008

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Ci sono molti modi per entrare nel volume L’America e gli americani in cui Alet ha raccolto 34 scritti brevi, perlopiù di carattere giornalistico e inediti in Italia, di John Steinbeck. Il percorso che sembra più interessante rispetto al tema di questo numero passa attraverso la rievocazione intitolata “Bigino degli anni Trenta” (da “Esquire” del giugno 1960) ma soprattutto attraverso i reportage con cui, a partire dal 1936, Steinbeck indagò la condizione dei contadini poveri o abusivi della California natìa. Sono pagine di una profondità sorprendente, che si impongono all’attenzione per due ordini di motivi.

In primo luogo è necessario affrontare il tema del fortissimo americanismo di Steinbeck, che L’America e gli americani testimonia con testi radicali come la celebre lettera aperta a Evtušenko, in cui l’autore di Furore rifiuta l’esortazione del poeta russo a prendere posizione contro la guerra in Vietnam, oppure il racconto di un viaggio nell’Italia degli anni Cinquanta e del “Duello senza pistole” con un corsivista dell’Unità. Colpisce allora come la tensione patriottica non giunga mai a ottundere lo sguardo o a ridurre l’onestà di Steinbeck. Ne fanno fede non soltanto la difesa di Arthur Miller, inchiodato dal Congresso nel pieno del furore maccartista, ma anche le pagine degli articoli sugli “Zingari del raccolto”. In esse lo scrittore è implacabile nell’analisi e nella denuncia dello sfruttamento capitalista sul migrante, sul povero, sul bracciante. In breve, sul proletariato, termine quasi desueto e pressoché bandito dall’analisi sociologico-finanziaria, e recuperato invece in tutta la sua evocativa potenza nell’ambito poetico, come ad esempio in Workingman’s Blues #2, recentissima – e sorprendente – riflessione operaista di un altro pensatore americano come Bob Dylan.

Le descrizioni delle baracche in cartone e delle tende lacere nei campi abusivi che popolano la California rurale aggiungono all’interesse per la lucidissima onestà di Steinbeck, il richiamo a un’attualità ustionante. I bambini che giocano nei fossi, vicino alle buche piene della merda di un’intera famiglia, spesso ammalati, sempre denutriti, mal tollerati se non addirittura respinti dalle scuole dove gli insegnanti non vogliono responsabilità e i genitori di ragazzini puliti, «carini», educati non vogliono «deficienti» o «portatori di malattie»: sono immagini che l’Italia di questi anni conosce sin troppo bene, ma il dato allarmante è che questi braccianti abbandonati dalle istituzioni non sono schiere di poveri arrivati da lontano. A quegli immigrati, reclutati in tempo di prosperità e ora inutili, la spietatezza della macchina capitalista avevano già pensato, espellendoli all’esplodere della crisi economica. Gli “Zingari” dei campi abusivi sono tutti cittadini americani, che negli anni Trenta furono scacciati dalle pianure di Middle e Southwest dal Dust Bowl, autentica catastrofe ambientale causata da una combinazione di siccità, tempeste di sabbia, erosione, impoverimento del suolo dovuto a uno sfruttamento dissennato. Famiglie intere viaggiarono verso ovest strette sull’automobile che diventava la loro casa, con qualche pollo e qualche misero bene, barattato in cambio di benzina. Li attendeva una California dove anche chi godeva del diritto di cittadinanza era destinato a scivolare verso e oltre il margine estremo della società.

Crisi economica, emergenza ambientale, collasso delle strutture sociali, migrazioni e nuove povertà: serve aggiungere parole per far capire quanto questa cronaca di ieri parli all’oggi? È proprio qui che L’America e gli americani si rivela ricco di spunti e riflessioni utili a riconsiderare l’insegnamento che il passato può offrire al nostro presente. Non sovrapponendo meccanicamente percorsi e immagini (anche se le notizie quotidiane sull’erosione del potere d’acquisto dei salari e sulla stretta con cui la povertà soffoca un numero sempre maggiore di famiglie italiane non incoraggiano grandi speranze), ma affrontando riflessioni e prospettive archiviate troppo frettolosamente.

Cade in taglio allora la riproposizione adelphiana del saggio che John M. Keynes compose all’indomani del Trattato di Versailles, dopo essersi dimesso da rappresentante del Tesoro britannico. Oltre alle riflessioni di carattere più prettamente economico, Le conseguenze economiche della pace nasconde alcune sorprese, specie per coloro che (come chi scrive) si attendevano un testo imperniato esclusivamente su riflessioni politico-finanziarie. La prosa di Keynes ha la felice ricchezza che si ritrova spesso negli eruditi di primo Novecento sommata a una rara capacità critica ed interpretativa. Da questo punto di vista sono godibilissimi i capitoli dedicati alla Conferenza di pace e in particolare i ritratti fisici e psicologici dei partecipanti: le giubbe di panno e le scarpe «di foggia campagnola» di Clemenceau che pensa della Francia «quello che Pericle pensava di Atene […], un valore senza pari» a fronte del quale null’altro importa; Woodrow Wilson che appare «più saggio da seduto» e risulta «inetto» e pressoché inerme di fronte agli scaltrissimi diplomatici europei e infine Lloyd George che «osserva gli astanti con sei o sette sensi non disponibili ai comuni mortali».

Il pregio maggiore di questo volume è l’ampiezza con cui vengono analizzati in parallelo i processi demografici, quelli economici fino a toccare quelli psicologici dei popoli e delle nazioni. Keynes racconta un mondo e una società organizzata per l’accumulazione virtuosa di capitale, che lavora compatta «non per i piccoli piaceri dell’oggi, ma per la futura sicurezza e miglioramento della specie». Un’immagine che soprende per la potenza del contrasto fra questa immagine e la dissennata euforia da ballo sulla tolda del Titanic in cui la crisi finanziaria attuale è cresciuta, indifferente a qualsiasi segnale d’allarme.

La lungimiranza e la profondità di questo splendido libro sono tali che quasi ogni pagina meriterebbe almeno una citazione. Accontentiamoci almeno di ricordare l’accento posto sul fattore della sovrappopolazione, un elemento di allarme in termini di capacità produttive del pianeta che Keynes segnala sin dal primo capitolo del suo lavoro e che oggi, a un secolo di distanza, incombe in modo ancora più minaccioso. Tanto più che negli ultimi decenni, proprio come allora, si è assistito a una pesantissima rimozione collettiva di questo dato e -quindi- delle strategie per porre rimedio ai problemi e alle reazioni a catena che da lì scaturiscono: «L’Europa è uno dei più densi aggregati di popolazione della storia del mondo. Questa popolazione è inoltre abituata a un tenore di vita relativamente alto, nel quale alcuni settori di essa si aspettano anche adesso un miglioramento anziché un declino». Da tale lucida valutazione nasce una delle più profetiche (e giustamente celebri) intuizioni di Keynes: «Il pericolo che ci sovrasta è il rapido calo del tenore di vita delle popolazioni europee, fino al punto che alcuni saranno ridotti a morire semplicemente di fame. Gli uomini non sempre sono disposti a morire tranquillamente […]. L’efficienza fisica e la resistenza alle malattie lentamente diminuiscono, sino a quando si giunge infine al limite della sopportazione umana e propositi folli e disperati destano i sofferenti dal letargo che precede la crisi. Allora l’uomo si scuote e i vincoli consueti si allentano. La forza delle idee è sovrana ed egli dà ascolto a qualsiasi parola di speranza, di illusione e di vendetta gli porti il vento […]. Chi può dire qual è la misura del sopportabile, e in quale direzione gli uomini cercheranno infine di sfuggire alle loro sventure?».

Con pari onestà intellettuale, senza indorare pillole né sminuire la portata della crisi che, come previsto, sarebbe esplosa con violenza lacerante nel giro di un decennio, Keynes propone anche un novero di soluzioni che non tutelano uno status quo ante ormai irrecuperabile (si pensi alle pesantissime e di fatto inesigibili sanzioni che gettarono la Germania nella peggiore spirale inflattiva dell’Europa moderna), ma si sforzano di andare in un’altra direzione, di «promuovere il ristabilimento della prosperità e dell’ordine, invece di aggravare sempre più il malessere». Tutti i suggerimenti dell’economista britannico furono accolti con scetticismo se non con derisione. Fu così per le proposte percorribili, come la creazione di un’unione di libero scambio che estendesse all’intera Europa il modello dello Zollverein tedesco; per quelle decisamente controcorrente, come la cancellazione dei debiti di guerra; o per quelle radicali come la richiesta di un prestito internazionale di cui, per forza di cose, avrebbero dovuto farsi carico in gran parte gli Stati Uniti. In una pagina toccante per intensità Keynes auspica che il governo statunitense accolga il suo suggerimento, non in nome di una generica «salvezza dell’Europa da se stessa», ma in uno slancio in cui dispiegano tutta la loro potenza idee come l’internazionalismo, l’irenismo, l’aspirazione a un progresso umano ottenuto tramite la sconfitta dei rapporti fondati esclusivamente sulla sopraffazione.

Ovviamente Keynes avverte l’esigenza di fissare precise regole sulla forma che l’aiuto economico dovrebbe assumere e sui controlli che gli Stati Uniti e, di conseguenza, i vari governi aderenti dovrebbero mettere in atto. Proprio l’idea di rafforzare l’intervento centrale, subordinando nel contempo il rilancio della produzione e degli investimenti a un controllo dello Stato è stato di recente oggetto di critiche: sul Corriere della Sera dell’11 novembre 2008 l’economista premio Nobel statunitense Edmund Phelps ricordava che «la teoria del capitalismo si basa sulla diversità delle fonti da cui possono scaturire nuove idee commerciali, sulla varietà dei gruppi di imprenditori disposti a investire e delle risorse finanziarie […] e sul presupposto che i proprietari di imprese non debbano render conto a nessuno (se non alla propria coscienza) e siano quindi liberi di usare il loro intuito, in una condizione molto diversa da quella di rigido controllo a cui devono giustamente sottostare i funzionari dello Stato». Una così autorevole esortazione alla prudenza e alla valutazione è condivisibilissima, tanto più in un momento in cui si corre a riempirsi la bocca del nome di Keynes come di un portafortuna, specie tra coloro che fino a ieri teorizzavano la più totale deregulation del Moloch finanziario. Risulta tuttavia arduo, fra le macerie causate dagli smottamenti di quel Mercato misura di se stesso, confidare nella “coscienza” di proprietari d’imprese e finanzieri. Se la prospettiva di Keynes, come è in buona misura verosimile, può risultare inadeguata o non più congruente con un mondo così vertiginosamente mutato, la (ri)lettura delle Conseguenze economiche della pace porta con sé almeno uno stimolo che non possiamo permetterci di ignorare, ovvero l’idea rinnovatrice di un approccio socio-economico in cui la salvezza, lo spiraglio di uscita dalla crisi stia nell’obbiettivo di un benessere in grado di ricadere sulla maggior parte possibile della collettività, al di là delle frontiere geografiche, delle divisioni in classi, dei differenti paradigmi culturali.

Un appello per salvare la vita sulla Terra

15 dicembre 2008
di Teo Lorini

Edward O. Wilson è un entomologo di fama planetaria e, con Bert Hölldobler, è autore di Formiche (Adelphi, 1997) un libro affascinante in cui si esploravano le colonie, gli habitat, il sistema di comunicazione basato su segnali chimici, le strategie belliche, l’organizzazione sociale di una delle creature più antiche e perfezionate della Terra.

La creazione (Adelphi, 2008) non è però una versione aggiornata di quel volume e neppure un manuale scientifico rigoroso ma iperspecialistico. Wilson adotta invece la forma, di sapore illuminista, della “Lettera aperta” per fare il punto sullo stato della specie più tenace e insieme dannosa di tutta la biosfera, l’homo sapiens. Il mirmicologo americano sceglie come interlocutore un ipotetico pastore della Chiesa Battista del Sud, non per un intento polemico verso le istituzioni confessionali ma per la consapevolezza che un ipotetico dialogo fra Scienza e Religione potrebbe essere il punto di svolta per invertire la rotta di sterminio ambientale e di estinzione intrapresa dall’umanità. La superficiale sottovalutazione di questo rischio può partire da premesse secolari («non cambiamo rotta: il genio umano troverà un rimedio») o fideistiche («non cambiamo rotta: Dio troverà un rimedio») ma il risultato è identico: la corsa cieca verso la catastrofe.

L’analisi di Wilson profonde un’enorme quantità di dati e documentazione a riprova di tale pericolosa parabola ed è impressionante che le uniche confutazioni siano di tipo “esenzionalistico”. L’homo sapiens, si dice, è assurto al ruolo di specie dominante e quindi gode di una sorta di status privilegiato.

La scienza ha abbondantemente dimostrato che la Terra ha conosciuto cinque estinzioni di massa nell’arco degli ultimi 500 milioni di anni (l’ultima, 65 milioni di anni fa, concluse l’Era dei Rettili aprendo la strada al dominio dei mammiferi). Il sesto processo di estinzione è in atto ora e si articola tra due fuochi altrettanto esiziali: da una parte abbiamo infatti innescato una sovrappopolazione fuori da ogni controllo. È stimato che la popolazione mondiale potrebbe arrivare a nove miliardi entro fine secolo, con una crescita del 50 per cento in soli 100 anni. Dall’altra assistiamo indifferenti a una riduzione esponenziale delle specie che popolano la biosfera: «Nel corso delle ere geologiche», illustra Wilson: «il tasso annuo di estinzione è stato di una specie su un milione ed era compensato da un uguale tasso di formazione di nuove specie. L’attuale ritmo di estinzione – considerate anche le specie ormai prossime a estinguersi – è almeno 100 volte superiore al tasso di comparsa di specie nuove» e accelererà col definitivo annichilimento di molti ecosistemi già irreparabilmente compromessi (si pensi solo al prosciugamento delle riserve d’acqua dolce del pianeta: nei prossimi venti anni il 40 per cento dell’umanità rischia di vivere in paesi in condizione di cronica penuria d’acqua). Oltre alla distruzione degli habitat, i fattori che congiurano a distruggere la biodiversità della terra sono, ovviamente, l’inquinamento, lo sfruttamento eccessivo e, soprattutto, la sovrappopolazione planetaria.

Con un’immagine suggestiva ed efficace, Wilson parla del peggiore «spasmo di estinzione dalla fine del Cretaceo». Circa dieci milioni di anni è stato il tempo necessario a far ripartire la spinta evolutiva dopo ciascuna delle grandi estinzioni sulla Terra, un tempo che l’homo sapiens non si può permettere.

La creazione concede spazio anche ai critici dell’ambientalismo, coloro che, nella crisi in cui annaspa il sistema, trovano insensato preoccuparsi di qualche erbaccia o di una manciata di insetti Bastano però pochi esempi per capire per quali motivi la distruzione di specie note e di altre ancora ignote concorre a precipitare la razza umana verso l’estinzione: senza insetti impollinatori gran parte delle piante da fiore e da frutto non potrebbe riprodursi, una scomparsa che coinvolgerebbe molti uccelli. Gli insetti (non i lombrichi, come si crede comunemente) con i loro movimenti sotterranei sono responsabili ancora del rivolgimento dei terreni, della ricchezza dell’humus e dell’abbondanza dei raccolti. Tra le piante che sopravvivrebbero alla scomparsa degli insetti impollinatori ci sono quelle anemofile, che affidano cioè le possibilità di riproduzione al vento, come i cereali. Ma in un sistema di approvvigionamento così limitato e precario, basterebbero poche annate grame per innescare una spirale di carestie e furiosa lotte per le risorse…

Chi pensa che l’uomo sia esente da preoccupazioni o liquida la problematica ambientalista come l’ossessione di visionari preoccupati di animaletti la cui esistenza ci è indifferente, dimentica o, meglio, rimuove una considerazione molto semplice. Non esiste per ora, né si intravede a breve, un altro ambiente che possa contenere la specie umana e consentirle di proseguire la sua esistenza al di fuori del pianeta Terra, inteso però nella sua pienezza, nella ricchezza articolata e complessa della biomassa che la popola. Per dirla con Wilson: «solo la natura può funzionare come arca planetaria».

La biodiversità, che noi uomini non abbiamo ancora finito di esplorare, è la più preziosa delle nostre risorse e la corsa contro il tempo che dobbiamo intraprendere per salvarla e invertire la tendenza attuale, ci dà un margine ristrettissimo: nel giro di appena 50 anni rischiamo infatti di impoverire la terra di un quarto delle specie esistenti.

Rimane allora qualche spiraglio di luce in un quadro tanto fosco? Wilson ne elenca alcuni, molto concreti. A cominciare dal fatto che gli ultimi decenni di studi sulle specie e sulla biodiversità forniscono gli elementi necessari a mettere in atto piani articolati di salvataggio. Tanto che è possibile formulare dei preventivi di spesa che, contrariamente alla vulgata corrente, non prevedono stravolgimenti del sistema finanziario o colpi mortali all’economia di mercato. Per tutelare i 34 punti maggiormente a rischio del pianeta nonché i nuclei superstiti di del bacino forestale amazzonico, del bacino congolese e della Nuova Guinea servirebbe un unico finanziamento di circa 30 miliardi di dollari. Un’erogazione una tantum che, appaiata a politiche d’investimento sensate, porterebbe a tutelare il 70 per cento della flora e della fauna di tutti i continenti. È una cifra folle? Ammesso e non concesso che una somma spesa per salvare la vita della nostra specie possa essere definita “eccessiva”, questi 30 miliardi «rappresentano approssimativamente un millesimo del prodotto lordo mondiale di un anno». Questo per le terre emerse; e i mari? Anche qui è stato calcolato che una rete di riserve pari al 20-30 per cento della superficie oceanica sarebbe realizzabile con una cifra compresa tra i 5 e i 19 miliardi di dollari all’anno (si consideri che l’industria della pesca mondiale, responsabile del rischio-estinzione per numerose specie marine, riceve annualmente finanziamenti tra i 15 e i 30 miliardi di dollari).

Le possibilità dunque ci sono o, perlomeno, ci sono ancora. Serve allora un imperativo categorico, uno smottamento di valori che non può essere solo la presa di coscienza che giunge dalla lettura dei rapporti ONU o di libri stimolanti come il volume di Wilson. L’esigenza di salvaguardare la Creazione deve venire dal profondo, da quello che Jung avrebbe chiamato lo strato dell’inconscio collettivo. Per questo Wilson chiama in causa la Religione, una delle esigenze ctonie e basilari dell’essere umano, dalla quale potrebbe senz’altro arrivare l’impeto ideale e sovrarazionale a salvare il pianeta e noi con esso. È qui però che La creazione inciampa in un’aporia strutturale. Pare infatti utopico e persino un po’ facile pensare che quell’unione animista tra uomo e natura, tra il fedele e il suo ambiente, che troviamo nelle religioni primigenie e che pone sullo stesso livello di eguaglianza le creature rispetto alla prodigiosa incombenza di un Creatore possa essere rimessa a fuoco nel seno delle moderne confessioni (siano esse una le varie sfaccettature della diaspora protestante oppure il pensiero massificato del cattolicesimo contemporaneo). Servirebbe forse rileggere la junghiana Vita simbolica. (1939) per intuire come sia irrimediabilmente trasformato il rapporto dell’uomo con la spiritualità e come, nelle religioni della modernità, quel cordone ombelicale tra uomo e natura sia stato resecato, concentrando l’attenzione sull’unica creatura fatta a immagine e somiglianza di Dio e, proprio per questo, degna di signoreggiare senza limiti o cautele sul resto del creato. Oppure quel lungimirante passo di Sanare la frattura (1961) dove Jung constatava: «Le grandi religioni mondiali soffrono di una crescente anemia poiché i numina soccorrevoli hanno abbandonato boschi, fiumi, montagne e animali. […] “Abbiamo dominato la natura” non è che uno slogan e il cosiddetto dominio della natura si ritorce contro di noi, in primo luogo col fenomeno naturale della sovrappopolazione». Nume Wilson ha certamente ragione: il pianeta e la specie umana devono essere salvati dall’autodistruzione. Ma non basteranno a questa impresa immane la coscienza civica o la voglia di informarsi; è necessario andare oltre, attingere a territori inesplorati, suscitando un impulso potente, che scuota fin dal sottosuolo le nostre certezze e ci costringa a volgere irresistibilmente lo sguardo verso prospettive diverse e inesplorate. Non è tuttavia dalla religione dei pastori statunitensi o dei pontefici tedeschi che possiamo aspettarci tale rinnovamento, ma casomai da un sussulto di immaginazione, da un’idea davvero nuova in grado di sovrapporsi alle quelle visioni che hanno perso ogni traccia di numinoso e sopravvivono a sé stesse, abbarbicate in difesa delle proprie rendite di posizioni, incancrenite in mere battaglie di retroguardia.

Una goccia in azione

6 dicembre 2008
di Teo Lorini

Mentre il governo di centrodestra procede indefesso nella manovra di tagli che genera lo sfascio (anche letterale come purtroppo testimonia la tragedia di Rivoli) della scuola italiana, esce per gli eleganti tipi di Casagrande Una goccia di splendore, un volumetto che raccoglie gli articoli pubblicati nel corso di due anni dal poeta e insegnante Fabio Pusterla sul settimanale ticinese “Azione”.
Queste brevi, ma spesso fulminanti meditazioni restituiscono al lettore italiano l’immagine di una scuola su cui non incombe lo smantellamento decretato dalla coppia Tremonti-Gelmini, ma che vive però nello stesso tempo tormentato e si confronta con problemi di non minore portata, anche se (forse) di meno lacerante urgenza. Come cambia il ruolo dell’insegnante, ad esempio, in una società i cui valori condivisi non includono necessariamente il ruolo della cultura, privilegiando magari uno status sociale basato su beni materiali, sulla consistenza della busta paga? Come rispondere all’annosa questione dei ragazzi che non leggono, quando i primi a non riaprire mai i classici della letteratura (e tantomeno ad aprire un romanzo contemporaneo) sono spesso gli stessi docenti, seguiti a ruota dai pedagogisti, dai sociologi, da famiglie intere in cui il libro semplicemente non è mai un argomento di conversazione?Pure, fra i molti pregi di questo libricino c’è la capacità di trattenersi sempre al di qua della scivolosa china d’una retorica facile. La scuola che Pusterla racconta non è mai un eroico (e pomposo) baluardo contro la decadenza della società, ma un tessuto vivo che s’innerva di passione e di lucida determinazione. Non a resistere, resistere, resistere in una battaglia passatista e sterile ma a interrogarsi incessantemente per tenere allenato quello spirito critico che deve restare il più grande dei doni agli allievi di oggi e alle donne, agli uomini, in una parola ai cittadini di domani.
Gli argomenti si susseguono: le gite di istruzione (sempre più arrese alle logiche di un turismo commerciale e massificato); il bullismo (in verità più feroce in Italia rispetto al Ticino, dove i politici non sbraitano in appositi telesalotti, i ministri non mostrano il dito medio e gli ex presidenti non auspicano il massacro delle maestre “ragazzine”); il disinteresse dei giovani liceali verso le dinamiche della partecipazione politica; la responsabilità terribile e dolorosa dei giudizi e delle bocciature; l’importanza sovrana della preparazione e quella, non meno decisiva, della capacità di entrare in contatto con gli studenti; l’angoscia e l’intensità delle storie di solitudine, violenza, ingiustizia con cui il mestiere di insegnante mette tanto spesso quanto profondamente in contatto. Sono le sfide di cui si sostanzia la scuola e su cui oggi, in Italia, la brutalità dell’intervento governativo cala una cappa, spostandole in secondo piano.
Eppure la morsa asfissiante di questa strettoia non diminuisce di un grammo il peso della responsabilità e il bisogno di lucidità di ciascun insegnante. Anzi, mentre la lotta e la tempesta infuriano, è necessario mantenere la concentrazione nello sforzo di regalare ai ragazzi l’avventura vertiginosa dell’apprendimento, della lettura, dell’esercizio del proprio giudizio. È qui la Goccia di splendore che la scuola deve essere ancora in grado di regalare. E che matura attraverso un impegno e un entusiasmo che a volte paiono inspiegabili e che invece basta un istante speciale a giustificare. A chiudere queste impressioni di lettura, ecco allora uno di questi momenti teneri, imprevedibili e magici:
«A ridosso di Natale sono invitato da un’amica, Sara, nella sua II F a parlare di libri e di poesia. Classe simpaticissima, vivace, ma non necessariamente molto interessata alla letteratura; orario non facile, dalle 15.20 alle 17.00, poco prima di Natale; io stesso, come tutti in questo periodo, stanco morto. Una ragazza appoggia sopra un banco un vassoio di panettone; dalla borsa di un suo compagno spunta il collo di una bottiglia di spumante: immagino già che non parleremo molto. Invece, quando suona il campanello, sono trascorse due ore di eccezionale intensità, di domande, di curiosità, durante le quali ci siamo dimenticati della fatica e del tempo. Due ore così belle che non si possono raccontare, come non si può raccontare quasi mai la magia della scuola: che esiste, ogni tanto, che continua a esistere».

Il braccino che spunta dalla fossa

15 novembre 2008
di Teo Lorini

Più di dieci anni sono passati dal 1997 in cui Bollati Boringhieri mandò nelle librerie la prima parte delle Lettere a nessuno. In quel volume ormai raro era raccolto l’epistolario di uno scrittore totalmente e pervicacemente inedito. Un epistolario, s’è detto, «esploso e sotterraneo». Esploso perché formato d’una congerie disparatissima di materiali annotati su quaderni, agendine, risvolti di libri e perfino biglietti del tram. Ci sono abbozzi, frammenti, progetti, riflessioni e naturalmente le lettere che Antonio Moresco ha scritto nell’arco di dieci anni, dal 1981 al 1991, tanto consapevole della loro inutilità da non spedirle neppure, e nello stesso tempo, proprio per questo, incapace di astenersi dal dialogo con interlocutori muti, immaginati, a volte persino inventati. Ecco dunque la componente sotterranea: Moresco ha steso le sue Lettere durante il periodo lunghissimo in cui è rimasto del tutto inedito, sprofondato, al buio, come nell’agghiacciante favola dei Grimm in cui il braccino di un bimbo sepolto spunta ostinato dalla fossa. Allo stesso modo Moresco, che non esiste per nessuno, che viene ignorato, respinto, liquidato in fretta e furia, continua ostinato a scrivere e a farsi avanti, a proporre i suoi inediti, come dal fondo di una caverna, schiacciato sotto la pressione di tonnellate di roccia e fango ma non ancora arreso.

Nel magma delle lettere dal sottosuolo, ora ristampate come prima parte del volume einaudiano, ribollono molti temi. C’è la dimensione autobiografica del privato (come la lettera straziante in morte della madre della sua compagna, Renata) e del collettivo, con squarci folgoranti sull’esperienza di militante politico negli anni Settanta (si pensi alla sferzante missiva ad Aldo Brandirali, narcisissimo ex leader di Servire il Popolo, ed ennesimo riciclato in Forza Italia, via CL). Ma naturalmente prevale la riflessione, non sconfitta né disperata, a tratti anzi persino velata di un sorriso amaro, sulla macchina editoriale, le sue conventicole, le sue meschinerie e soprattutto lo stato di assoluta prigionia all’idea che la letteratura sia esausta, che lo slancio e la forza creatrice di cui sono capaci gli esseri umani siano spenti o ridotti a bagliori che agonizzano senza più bruciare, nell’eterna ripetitività dei prodotti fatti in serie o delle ricombinazioni di fattori arcinoti. E a lamentarsene, con altissimi lai, sono i vari Fofi, Corti, Raboni, Pontiggia, cioè proprio i tanti Nessuno a cui per anni Moresco scrive inascoltato, a cui sottopone -sempre respinto- libri possenti, nuovi, illuminanti come Clandestinità, come Gli esordi

E poi?

La seconda, inedita parte di Lettere a Nessuno riprende dal momento in cui il cerchio finalmente si spezza e Giulio Bollati pubblica Clandestinità. Il Moresco emerso non è meno intenso di quello sotterraneo. Anzitutto perché nemmeno la pubblicazione modifica il problema della sua irriducibilità in categorie prefissate. Anzi: il destino dei suoi testi maggiori è paradossale. Sia Gli esordi, esaurito e mai ristampato da Feltrinelli, sia soprattutto Canti del caos, pubblicato a pezzi, da due editori diversi e da entrambi abbandonato, sono libri fondamentali che, a dispetto della loro ricchezza, dell’entusiasmo e del fervore critico tuttora in corso, muoiono dal punto di vista editoriale poco dopo essere apparsi, segno eloquente della prostrazione in cui è imprigionata l’industria culturale italiana.

In speculare opposizione rispetto alla prima parte, le nuove Lettere arrivano (quasi) sempre ai loro destinatari: scrittori, critici, funzionari editoriali o politici, compagni di strada. Che però rimangono Nessuno proprio perché immutato rimane il loro mutismo, il loro scantonamento rispetto all’urgenza, alla caparbia purezza dei problemi posti da Moresco. Che in queste nuove pagine racconta sé stesso e il nostro Paese attraverso dieci anni di scrittura e impegno in modo, se possibile, ancora più spericolato, vertiginoso, commovente. Ma attenzione: qui non c’è il calcolo, il rancore mascherato d’ingenuità, il candore posticcio di chi finge d’ignorare come va il mondo. Moresco lo sa, decenni di buio ed esclusione gliel’hanno insegnato. La cosa straordinaria è che quei decenni non l’abbiano piegato. Allo stesso modo in cui non ha accettato di smorzare la sua scrittura, d’immiserirla in forme codificate e accettabili, Moresco s’ostina a credere nella possibilità d’uno scarto, d’una differenza anche da parte di chi gli sta accanto. Persino la bruciante lettera a Giuseppe Genna, assunto a emblema di questo immiserimento culturale e umano, non s’esaurisce nello smascheramento puntuale (e impressionante) delle tattiche d’adulazione, del trasformismo ipocrita d’un cortigiano, ma vibra dell’autentico dolore di chi ancora si fida e s’aspetta qualcosa da parole paurose e radicali come amicizia, purezza, lealtà, coerenza. Di chi è il primo a pretenderle da sé stesso.

Sembra lecito allora evocare il nome di Leopardi per questo libro di speranza non doma il cui più grande dono, come ha giustamente detto Marco Rossari, è il coraggio che ci infonde.

La difesa della razza

19 ottobre 2008
di Teo Lorini
 
Senatore Bossi,
l’altro ieri il suo partito ha incassato il placet di Montecitorio su una mozione che istituisce classi «di integrazione» per bambini stranieri. Non è chiaro quanto a lungo dovrebbe durare questo regime di separazione né se il provvedimento si applicherà tanto ai bambini appena arrivati quanto ai figli di stranieri nati e cresciuti sul suolo italiano, ma è da vent’anni ormai che il movimento da Lei guidato ha dichiarato guerra a distinzioni e sottigliezze, preferendo invece gli slogan tosti, facili da ricordare e ottimi per guadagnare prime pagine e consensi.
Le scrivo, senatore, perché a me capita di abitare in Svizzera, e per la precisione in Canton Ticino, uno Stato di cui Lei tesse grandi lodi, tanto che, dopo l’ictus che L’ha colpita nel 2004, ha scelto di venire a farsi curare proprio qui e non in uno degli ospedali della sua amata Lombardia. Io, per buona sorte, non mi trovo qui per gli altissimi livelli degli ospedali, neppure però per motivi di vacanza. Sono solo uno dei tanti italiani all’estero.
Certo, la mia non è l’emigrazione dei carpentieri, dei gessatori, degli operai che sono arrivati qui dieci o vent’anni prima di me e i cui racconti sono stato ore ad ascoltare (mi permetterei anzi di consigliarli anche a Lei, senatore, e ai suoi compagni di partito tanto inclini a denigrare gli immigrati). Io non sono venuto a offrire muscoli e fatica fisica, ma preparazione culturale: avevo da poco passato la trentina quando è stato chiaro oltre ogni ragionevole dubbio che, per i miei anni di studio e di non disprezzabile carriera universitaria (laurea, dottorato, periodi di ricerca all’estero, specializzazioni, assegni di studio), la migliore prospettiva che lo Stato italiano era in grado, o si accontentava, d’offrire a me e a centinaia di giovani nella mia posizione era quella di aspettare fino ai 40, i 45, magari anche i 50 anni per arrivare a un vero posto di lavoro, a uno stipendio minimo ma regolare. E, constatazione ancora peggiore, solo a quel punto si sarebbe realizzata l’opportunità di insegnare davvero e non di limitarsi a improvvisare un seminario per riempire i buchi nell’orario di qualche barone. Le cose studiate (e, in taluni casi, scoperte) in anni di ricerca appassionata tra biblioteche, manoscritti, cataloghi microfilm, archivi e fondazioni, sarebbero rimaste, ben oltre il proverbiale «mezzo del cammin» delle nostre vite, lettera morta. Senza essere comunicate né condivise con classi di giovani, di studenti, di italiani di domani.
C’è il rischio di scivolare nella retorica, lo so. Come so che moltissimi in Italia fronteggiano problemi ben peggiori, specialmente adesso. Ma anche l’esperienza che ho appena raccontato è desolante: il lavoro, il sacrificio, e persino il compromesso (sgradevole, vischioso e umiliante come lo è ogni cedimento dalle proprie convinzioni), non valgono neppure a guadagnare una classe a cui trasmettere ricerche che resteranno invece seppellite all’aridità degli studi specialistici e di monografie destinate alla polvere di scaffali (o a essere tutt’al più compulsate da qualche altro eterno precario della cultura).
Andarsene, lasciare il posto dove si è cresciuti è difficile, doloroso, ma almeno un vantaggio c’è. Un adagio veneziano che forse non le sarà ignoto dice che viagiar descanta e cioè, letteralmente, dis-incastra, ci fa uscire dal cantuccio angusto dell’ignoranza e della comodità, dalla fascinazione, dall’incantamento che esercitano su di noi gli slogan e i pregiudizi. Può bastare anche un viaggio breve come la mezz’ora che ci vuole per arrivare dalla frontiera al paesino dove abito per conquistare subito un punto di vista più ampio. In Svizzera italiana, per dire, il migrante sono io.
Le confesso, senatore, che la prima volta in cui ho sentito qualche esponente del suo movimento parlare di classi differenziali perché la vicinanza con bambini stranieri «non rallenti l’apprendimento» dei piccoli italiani, ho pensato alle sparate con cui le seconde linee del partito cercano talvolta di ritagliarsi un briciolo di visibilità, di mostrarsi più realisti del re, rendendo più efficace l’adulazione servile su cui costruiscono la propria carriera. Ora leggo invece che non si tratta d’una boutade ruffiana, ma che la Lega vuole effettivamente istituzionalizzare la discriminazione, rendere legge il pregiudizio, con l’alibi dei piccoli italiani frenati nell’apprendimento da bimbi di madrelingua straniera.
In Ticino, dove vivo e insegno, la presenza di alloglotti nelle classi è realtà da sempre. E non sono necessariamente figli di stranieri venuti qui a “rallentare” l’istruzione degli studenti svizzeri, anzi! Tali allievi sono molto spesso cittadini a pieno titolo. Sì, perché questo è un paese che ha quattro lingue nazionali – con le difficoltà e le sfide che ciò può comportare – ma che non pensa di risolvere tali problemi con i muri e gli steccati nelle scuole, bensì con l’integrazione, parola assai poco presente nelle esternazioni leghiste (forse perché non conquista titoli né consensi). Nella scuola del Canton Ticino, invece, il problema non è discriminare, separare, dividere. Ma casomai integrare e valorizzare le differenze, inserendo gli alloglotti nelle classi di italofoni nella consapevolezza che dal confronto tra lingue e culture scaturisce ricchezza, non ritardo.
Quante lingue parla Lei, senatore Bossi? Basta l’infarinatura di latino e di inglese che dà un qualsiasi liceo della Repubblica per rendersi conto di quanto la comprensione delle sfumature espressive dell’italiano s’arricchisca tramite la ricerca etimologica o il parallelo con altre strutture grammaticali e sintattiche. Immagini ora la ricchezza d’un paese che sin dalle medie insegna quattro lingue e i cui allievi possono confrontarsi con coetanei della più varia provenienza. In questi anni sono stato docente sia per alunni provenienti da altri cantoni, di madrelingua francese o svizzero-tedesca, sia per i figli di persone che hanno lasciato la terra d’origine per cercare lavoro o asilo e a cui la Svizzera non ha negato né l’uno né l’altro. Mi permetta una piccola rassegna delle varie nazionalità dei bambini e ragazzi a cui ho assai proficuamente insegnato lingua e letteratura italiana in qualche anno di professione e che – basta un’occhiata al registro per verificarlo – compongono il quadro delle normali classi ticinesi: spagnoli e portoghesi, croati, macedoni, serbi e altri della diaspora jugoslava, turchi e armeni, rumeni, albanesi e kosovari, brasiliani, colombiani e dominicani, ucraini, polacchi, russi, maghrebini, cingalesi.
E italiani, naturalmente.
Lei, nato a 30 km dalla frontiera e fervido ammiratore della Confederazione, dovrebbe saperlo bene: i primi stranieri ad arrivare qui siamo stati proprio noi italiani, con la nomea poco gradevole che ci portiamo dietro. E che non sta certo migliorando adesso. Prima però che Lei scatti con la denigrazione di “terroni” e mafiosi che tante volte ho letto sui manifesti e ascoltato ai comizi leghisti del Nordest dove sono cresciuto, lasci che le dica che a peggiorare la reputazione e l’immagine dell’Italia all’estero non sono le già tristemente note mafie meridionali, quanto piuttosto lo stillicidio di casi di discriminazione e persecuzione razziale che, con cadenza quasi quotidiana, rimbalzano sui giornali di qui e, ancor peggio, le farraginose giustificazioni con cui vari esponenti del suo partito (il ministro Maroni in primis) s’affannano a negare la componente razzista di delitti come l’omicidio di Milano. Magari, da quando sono partito, l’accezione italiana del termine “razzista” sarà mutata. Qui invece è rimasta la stessa e include ancora chi ammazza un ragazzo sprangandolo in testa al grido di «sporco negro!».
Comprende poi l’idea di schedare i bambini prendendo loro le impronte, o quella di inserirli in classi-ghetto magari di trenta studenti, come si sente dire riguardo al progetto di riforma della ministra Gelmini. E soprattutto senza italofoni con cui fare amicizia, giocare e imparare la lingua, nella quotidianità di un’infanzia che è e dovrebbe restare il bene più sacro da tutelare e non l’ennesimo territorio in cui rosicchiare ciniche rendite elettorali.