“Le case delle new towns a L’Aquila cadono a pezzi. “Jaromil” lo ha scoperto nel 2010″.
di Marco Bonacossa
E’ brutto dire “l’avevamo detto”. Ma è vero e ci dispiace. Non per essere stati tra i primi in Italia, non per averlo scritto sul numero sette della nostra rivista e sulla nostra pagine facebook ma per il contenuto dello scoop.
Nell’ottobre 2010 io e gli altri redattori di “Jaromil”, periodico dell’Università degli studi di Pavia, Marco Magnani, Federico Rossi, Alessandro Civardi e Tommaso Marano, ci siamo recati a L’Aquila.
Lo abbiamo fatto spinti dalla volontà di scoprire, di scoperchiare la verità con quella dose di incoscienza e spirito di avventura che i nostri 23 anni ci suggerivano.
La città sembrava il risultato di un bombardamento di guerra: edifici sventrati, centro storico distrutto, transennato, chiuso e presidiato dai militari. Le voci dei giovani nei pochissimi locali aperti erano quelle dei sopravvissuti: ogni discorso era incentrato sul “prima” e sul “post” terremoto: “prima del 6 aprile ci trovavamo in quel bar là”, “il miglior aperitivo era in quel posto ma ora non c’è più”, quando c’era l’università qua era pieno”.
Siamo andati ad Onna e abbiamo visto la devastazione, abbiamo parlato con anziani e famiglie che tornavano in paese per recuperare qualcosa che il terremoto aveva loro sottratto: la vita.
Siamo andati a vedere le famose newtown del progetto C.A.S.E. (Complessi Antisismici Sostenibili ed Ecocompatibili). Gli aquilani che abbiamo incontrato le chiamavano “le case di Berlusconi”, ma nel loro tono la sottolineatura della paternità di quegli edifici non rappresentava nulla di positivo.
Diciannove complessi dislocati attorno al capoluogo e come prima tappa del nostro tour scegliemmo Bazzano 5. Quelle erano le case che il governo Berlusconi fece vedere al mondo il 29 settembre 2009, il giorno del suo sessantatreesimo compleanno. Se fossimo stati in una dittatura avremmo potuto pensare che quella data non era casuale. Quando arrivarono le telecamere delle televisioni di Berlusconi v’erano le bandiere tricolori attaccate ai balconcini, la torta e lo spumante nel frigorifero. Quando arrivammo noi le bandiere erano sparite e le telecamere, pure. La prima impressione che ho avuto è quella delle case che da bambini si costruivano con il lego: colorate, finte.
Gli unici presenti in quei complessi dormitorio erano alcuni anziani che vagavano senza meta nella newtown: negozi, edicole, bar…tutto scomparso. Soltanto un paio di panchine per sedersi. Alle nostre domande su come si vivesse in quelle case ci raccontavano dei primi problemi: dell’acqua corrente che non sempre c’era, delle prime infiltrazioni sui muri, degli spifferi. Nelle loro parole percepivamo la loro consapevolezza di essere stati strumentalizzati dalla propaganda di governo e l’insicurezza, il disagio di vivere in quelle strutture che rivelavano, soltanto dopo un anno di vita, i primi problemi.
Il Piano C.A.S.E. non nasce dopo il terremoto abruzzese ma prima, deposto in qualche cassetto e tirato fuori in occasione dell’emergenza aquilana. Una vera manna per i costruttori: i prezzi al metro quadro delle new towns valevano circa il triplo del prezzo medio di zona di prima del sisma.
Prima di tornare a casa abbiamo visitato altre new towns: stessi problemi, stesse prime avvisaglie di un crollo imminente, non soltanto strutturale ma umano. Una signora ci disse: “non stanno facendo niente”. Sono passati quattro anni, si sono susseguiti quattro governi e le new towns sono ancora lì, non è stato ancora fatto niente Nei giorni scorsi la notizia del crollo del balcone di una casa della new town è stata trasmessa da tutti i media nazionali. Siamo stati tra i primi a raccontare questa storia. Ma non avevamo meriti speciali o capacità particolari, non c’erano Biagi e Montanelli fra di noi, ma abbiamo soltanto deciso di usare i nostri occhi per vedere se quello che ci raccontavano era vero e abbiamo preso carta e penna per intervistare chi in quelle case ci abitava e affrontava i problemi di ogni singolo giorno. Abbiamo semplicemente deciso di dare ascolto alla gente, al popolo e meno a quei politici, a quei dirigenti che dal terremoto hanno tratto guadagni economici e/o mediatici.
Ancora una volta torna il nome di un cittadino pavese ovvero l’ing. Gian Michele Calvi, membro nel 2009 della Commissione Grandi rischi, che ha presieduto il Consorzio ForCase, a sua volta fautore del “Progetto C.a.s.e.”, composto dalla pavese Fondazione Eucentre – che fa capo alla Protezione civile ed è diretta dallo stesso Calvi – oltre a due imprese di costruzioni, la Icop (la ricordiamo a Pavia nel precario restauro del ponte della Becca) e Damiani costruzioni, la stessa che ha costruito il Green Campus al Cravino, a cui era demandato l’acquisto dei materiali e il coordinamento dell’attività di cantiere in Abruzzo. Progettazione e direzione lavori sono rimaste ben salde sotto la guida di Gian Michele Calvi (contemporaneamente controllato e controllore). A L’Aquila Calvi è stato condannato a 6 anni di reclusione in primo grado insieme ad altri componenti la Commissione grandi rischi colpevoli di omicidio colposo plurimo e lesioni colpose. Provammo ad intervistarlo, nel 2010, ma non ci riuscimmo. Forse stavolta potrebbe essere lui il primo a parlare e magari a chiedere scusa agli aquilani. Lo ascolteremmo volentieri.