di Giovanni Giovannetti
La lotta di Liberazione, ha scritto il 25 aprile scorso Marco Revelli sul “Manifesto”, «fu la vittoria dell’umano sull’inumano».
Ma quale etica pubblica e politica possiamo permetterci settant’anni dopo? Quella di chi è allegramente keynesiano con le banche e i bancarottieri e tristemente liberista con i lavoratori? Quella di una società ormai priva di mobilità sociale che vede sempre più dilatarsi la forbice delle diseguaglianze? Quella della società di ceto – cioè basata su ceti immobili – che si sta palesando all’orizzonte?
Tra le conseguenze, c’è la distruzione della società salariale e dello stato sociale, mentre s’impongono le aggressive economie delle transazioni finanziarie. Le retribuzioni italiane sono ormai di gran lunga inferiori alla media europea (nel 2000 erano di oltre 4 punti percentuali sopra). Con la precarizzazione del lavoro cresce il senso di insicurezza, la sfiducia nel futuro e nella possibilità di mantenere il proprio benessere. Negli ultimi vent’anni più di 120 miliardi di euro – l’8 per cento del Prodotto interno lordo – sono passati dai salari ai profitti, 5.200 euro in media all’anno a lavoratore, 7.000 euro se escludiamo i lavoratori autonomi (mentre i primi cinque manager nazionali continuano a guadagnare insieme circa 102 milioni di euro, equivalenti al salario lordo di 5.000 operai. Contemporaneamente, il potere d’acquisto delle pensioni è drammaticamente sceso del 33 per cento e tra i più giovani un minorenne su tre è a rischio povertà). Una montagna di denaro sottratta all’economia produttiva e ricollocata in ambito finanziario ormai al collasso: crisi annunciata, poiché da tempo in incubazione. La casta politico-economica ha pensato di spalmarla sui lavoratori, sui pensionati e sulla piccola e media borghesia impoverita, spostando su comodi capri espiatori (gli zingari, gli immigrati) l’«eccesso di paura» (Bauman) e la frustrazione di chi è povero o si vede scivolare lungo la china della povertà. È quel disagio generalizzato della cittadinanza che Alessandro Portelli sullo stesso numero del “Manifesto” ha amaramente definito degli “ammazzanani”: invece di prendersela con le élite al potere, vecchi e nuovi poveri danno addosso a chi è ancora più povero – zingari, immigrati, marginali – derubricati a non-cittadini.
Il vuoto politico e l’incapacità di incontrare chi è più toccato dalla crisi sembrano minare lo stesso principio di democrazia. Finita l’era dei partiti-chiesa, invocare l’“uomo forte” ormai non pare un tabù, e qualcuno già si dispone a occupare quello spazio. La fuga a destra del Partito democratico in un Paese dai già ridotti ammortizzatori sociali rende ancora più esplicita l’incapacità di rappresentare chi sta facendo fatica.
La forbice si allarga: aumentano i profitti per mafie e affaristi e, specularmente, calano quelli delle famiglie, dei pensionati e dei precari, sempre più numerosi. Il vero conflitto è tra i poveri senza speranza di emancipazione e questo “nuovo Potere” cattivo, aggressivo e autoreferenziale: mero prolungamento nel sociale delle lobbies economico-finanziarie, da qualche anno la politica ha chiamato l’esercito nelle strade delle principali città a tastare il polso agli italiani militarizzando l’ordine pubblico.
L’attuale radicalizzazione del conflitto sociale sembra richiamare quelle misure, degne di uno Stato autoritario, volte a impedire con ogni mezzo la saldatura tra il sempre più tangibile e frammentato arcipelago senza rappresentanza dei precari a vita (mantenuti in concorrenza fra loro), il ceto medio in difficoltà e i pensionati con la minima. Andiamo ormai verso la sospensione di alcune garanzie fondamentali, siamo alle prove generali di regime, in cammino verso un nuovo “ordine” volto a soffocare ogni forma di dissenso e a sostituire la democrazia con la democrazia apparente, la legalità apparente.
Un passo indietro mezzo secolo e risuona l’eco dell’Italia repubblicana descritta da Pasolini in romanzi, film, articoli, poesie. Un altro passo ancora ed ecco l’Italia precapitalistica descritta da Leopardi nel suo Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani (1824), l’eco dell’individualismo popolare e dell’arretratezza di una classe dirigente miope e benestante, attenta al suo tornaconto e chiusa ermeticamente alle novità socioculturali che attraversavano l’Europa. Sembra oggi.
Rispondi