«Io perdono e chiedo perdono»

6 Maggio 2024 by

Lipa, 30 aprile 2024, anniversario della strage
di Giovanni Giovannetti

Lipa 2024
Lipa 2024 Lipa 2024
Lipa 2024 Lipa 2024
Lipa 2024 Lipa 2024

Non so una parola di croato, ma a Lipa non importa, perché in questo villaggio istriano parlano anche le pietre. E raccontano le atroci sofferenze patite dai suoi trecento abitanti in un molto vicino 30 aprile 1944, quando vennero uccisi, tutti, per rappresaglia, dai nazisti tedeschi e dalle camicie nere italiane. A Lipa i nazisti e i fascisti non trovarono uomini, solo donne vecchi e bambini e li sterminarono senza pietà.
Questa è una storia che in Italia non si racconta, eppure ci riguarda: già il triste elenco dei numeri pone Lipa al quarto posto tra i cinquemila eccidi compiuti nel nostro Paese dai nazifascisti (Lipa viene subito dopo quelli di Marzabotto, Sant’Anna di Stazzema e delle Fosse Ardeatine). Ma ci riguarda anche perché mostra il lato oscuro, razzista e criminale, del fascismo italiano del ventennio, di quel loro modo spiccio di trattare gli “allogeni”, gli “sc’iavi”, come se fossero una “razza inferiore”, dei “non umani”. Ci riguarda anche il rancore deflagrato, a fine guerra, nella resa dei conti degli “allogeni” contro chi, tra gli italiani d’Istria, la classe dominante, aveva indossato una qualche divisa o era stato partecipe di una qualsiasi funzione pubblica. E ci riguarda perché tutto questo è anche storia di oggi: di come la destra italiana (e non solo la destra) guarda agli immigrati, o di come in Cisgiordania i coloni estremisti israeliani trattano gli “allogeni” palestinesi (anche loro “razza inferiore”, anche loro “non umani”).
Il 30 aprile scorso a Lipa era il giorno del ricordo, ottant’anni dopo la strage. C’era molta gente, e c’era il presidente della Croazia Zoran Milanović. Chiudo gli occhi e per un momento vedo Milanović in controluce, mano nella mano con Sergio Mattarella. Vedo il presidente italiano inginocchiarsi davanti all’ultima casa del paese, quella del massacro più feroce: «io perdono e chiedo perdono», lo sento dire sottovoce.
Riapro gli occhi e Mattarella non c’e più: forse era un sogno.

Quel rogo

6 Maggio 2024 by

di Giovanni Giovannetti

Jugoslawien Polizeieinsatz

Trecento donne e bambini, arsi vivi a Lipa. La storia dimenticata di una crudele strage nazifascista

Lipa è un piccolo borgo istriano poco distante da Fiume. Ora è Croazia, ma dal 1920 al 1947 (è l’anno del Trattato di Parigi, che consegnò buona parte dell’Istria alla Jugoslavia) era una frazione del comune Italiano di Elsane, oggi Slovenia.
Domenica 30 aprile 1944, ottant’anni fa, in questo villaggio si compì uno dei drammi meno avvicinabili e avvicinati della storia criminale dell’ultimo conflitto mondiale: 287 civili inermi, quasi solamente donne, vecchi e bambini, tutti cittadini italiani, furono passati per le armi o arsi vivi in replica terroristica a un attacco partigiano al vicino presidio fascista di Rupa e a un convoglio militare tedesco in transito lungo la strada che da Fiume porta a Trieste (due le vittime).
La strage di Lipa è tra le più crudeli compiute dai nazifascisti nell’Italia di allora, senza dubbio equiparabile ai massacri di Monte Sole in Emilia, di Sant’Anna di Stazzema in Toscana, o delle romane Fosse Ardeatine; eppure mai un’autorità pubblica italiana ha inteso ricordarla. Cancellata. Polvere tra le pieghe della storia.

Le ceneri rimosse

Dopo lo sbarco alleato in Sicilia, l’arresto di Mussolini e l’armistizio dell’8 settembre 1943, nell’incalzante susseguirsi degli eventi il 12 settembre Adolf Hitler firmò il decreto costitutivo dell’Alpenvorland (Alto Adige, comprendente le provincie di Trento, Bolzano e Belluno) e dell’Adriatisches Küstenland (Litorale adriatico), una vasta zona che sommava le provincie di Trieste, Udine, Gorizia, Pordenone, Lubiana, Istria, Quarnaro e le zone incorporate di Sussak, Buccari, Concanera, Castua e Veglia. Sono territori che fino a vent’anni prima appartenevano all’impero austriaco; ora vengono sottratti all’amministrazione della Repubblica sociale e affidati all’ex Gauleiter di Klagenfurt, l’austriaco Friedrich Rainer (i Gau erano i distretti amministrativi del Terzo Reich) di stanza a Trieste e si prospettava, a fine guerra, se vinta dai tedeschi, un qualche accomodamento del Triveneto e dell’Alto Adige nella futuribile Grande Germania. Lo stesso Rainer, in una lettera del 15 novembre 1943 a Martin Bormann (era il segretario personale di Hitler), ha modo di ribadire che «per nessun motivo il governo italiano potrà esercitare in queste zone la sua sovranità». Con buona pace dei fascisti repubblichini, sodali dei tedeschi.
Temendo uno sbarco anglio-americano in Istria o in Friuli, da subito i nazisti si riaffacciarono aggressivi lungo la Pontebbana in Friuli e sul litorale adriatico. L’11 settembre 1943 una colonna motorizzata venne affrontata dagli insorti e da alcuni reparti di soldati italiani in una sanguinosa battaglia al bivio di Tizzano a sud del fiume Quieto, e di nuovo al canale di Leme e presso la zona carbonifera dell’Arsia. E sin qui la possiamo ritenere guerra fra combattenti. Ma il 2 ottobre, guidati da “ascari” fascisti del posto, colonne tedesche partite da Trieste, Fiume e Pola sciamarono impietose nei villaggi dell’interno massacrando e bruciando (è la cosiddetta operazione Istrien o Wolkenbruch, Nubifragio, guidata dal generale delle SS Paul Hausser).
Villanova del Quieto, Grisignana, Pisino, Salambati, Albona, Gimino, Cresini… a Cresini (una frazione di Gimino) il 7 ottobre questi criminali in divisa rinchiusero in una casa tre madri con cinque bambini, poi gettarono una bomba dalla finestra e appiccarono il fuoco. Davanti al villaggio, due sorelle furono uccise e i loro corpi gettati su una pila di paglia e bruciati.
In un crudo documento del 28 gennaio 1944 di penna Ustaša (sono i fascisti croati amici di Hitler e di Mussolini), la narrazione dell’orrore non è da meno: si legge infatti che a Gimino i tedeschi «hanno ucciso 15 bambini al di sotto dei sette anni, 197 adulti e 29 sono morti sotto i bombardamenti, in totale 241 persone. Nella vicina Coppellania di Cere, che conta 1.300 abitanti, hanno ucciso due donne e sessantadue uomini. Non si sono mai preoccupati di accertare se qualcuno fosse partigiano o no, ma hanno fucilato a casaccio come a loro piaceva. In molte case hanno mangiato e bevuto abbondantemente e poi, andandosene, hanno ammazzato uno o due castigliani». Non mancano le cronache di violenze a donne e ragazzine, e l’annotazione che nel villaggio di Parizi gli unici sopravvissuti sono «due maschi, ottantenni».
Insomma, la sola operazione Wolkenbruch costò la vita ad almeno tremila persone. E diversi partigiani fucilati dai tedeschi poi gettati in foiba passeranno per vittime della “violenza slava”.

A Lipa come a Sant’Anna di Stazzema

A Lipa come a Sant’Anna e a Monte Sole: in Toscana e in Emilia i nazisti prima ammazzarono con bombe e mitraglia e poi bruciarono i cadaveri con i lanciafiamme; a Lipa i terroristi del battaglione Karstwehr (una unità antiguerriglia delle Waffen SS) hanno stipato gli abitanti in una casa del paese e poi le hanno dato fuoco. Gli unici due sopravvissuti (Ivan Ivancich – un anziano che, pur ferito, si era finto morto – e Maria Africh, che si salverà grazie all’aiuto di uno sconosciuto Carabiniere, oltre a quattro bambini che erano a  giocare o a pascolare bestiame fuori dal paese) dissero che i soldati parlavano in tedesco e in italiano. Infatti, all’eccidio di Lipa parteciparono attivamente le Camicie nere italiane della caserma di Rupa: italiani come il ventiseienne tenente Aurelio Piesz del terzo reggimento della Milizia difesa territoriale (le Camicie nere fasciste), comandante del presidio di Rupa a cui, in quel pomeriggio di fine aprile, un bambino che lo conosceva corse incontro per cercare aiuto e protezione e lui invece lo sospinse nel rogo, assieme ad altri 95 coetanei. Ma documenti scritti non ne esistono, solo il racconto dei sopravvissuti e di qualche carnefice. Come ci ricorda Claudia Cernigoi, «Piesz fu arrestato a Trieste nel maggio 1945; fu processato e condannato a morte, impiccato il 31 maggio al bivio di Rupa», ma in Italia questo delinquente passerà per infoibato dagli jugoslavi (Simona Sardi sul “Giornale” del 10 febbraio 2021) oppure meritevole di un riconoscimento alla memoria «nel nome dell’italianità, della civiltà e della libertà», come di Piesz ha scritto il deputato triestino di Alleanza nazionale Antonio Menia. Insomma, un altro italiano ucciso perché «colpevole solo di essere italiano».

Le “foto ricordo”

Sul massacro di Lipa i tedeschi non stilarono rapporti ufficiali. Ma se ne conserva una clamorosa documentazione visiva nelle foto-ricordo di un soldato che vi prende parte. Una copia di queste immagini venne infatti segretamente stampata dal fotografo a cui quel militare aveva affidato il rullino: si vedono i carnefici sorridere a chi li riprende quasi fossero turisti in visita di piacere, come se ammazzare donne vecchi e bambini inermi fosse una cosa normale. Nella loro vita civile questi soldati erano forse contadini, artigiani, bottegai, con una famiglia da mantenere; ma ora sono lì a fare quello che fanno, a eseguire puntualmente gli ordini dei superiori.
A Lipa come in Slovenia come ad Auschwitz Birkenau come in Africa: le più crude testimonianze visive degli orrori delle guerre di Hitler e Mussolini si rivelano le “foto-ricordo” degli stessi soldati di Hitler e Mussolini.
«L’orrore ha un volto», scrive Giuseppe Vergara in epigrafe a Primavera di sangue (Conti, 2017), un romanzo che trae spunto da questa orrenda strage e dalle fotografie scattate a Lipa e altrove da uno sconosciuto soldato tedesco che, nella finzione letteraria, prende il nome di Martin Halder. Ma una delle figure centrali di questo romanzo è reale, come reale è il contesto storico: si tratta di Mehdi Hüseynzade, il partigiano azero Mikhailo, un ex soldato dell’Armata rossa reduce dalla battaglia di Stalingrado che, dopo la cattura da parte dei tedeschi e l’arruolamento, diciamo fittizio, nella 162ª divisione turkmena della Wehrmacht, arrivato sul fronte italo-jugoslavo decise di unirsi ai partigiani sloveni della Terza brigata Ivan Gradnik del IX Korpus, divenendo il vice comandante del battaglione russo. Assieme al connazionale Mirdaməd Seyidov (alias Ivan Ruskj) Mikhailo farà strage di soldati tedeschi in due attentati al cinema di Opicina e alla mensa ufficiali di palazzo Rittmeyer a Trieste. Questo coraggioso partigiano cadrà a Vittuglia (ora Vitovlje in Slovenia) il 2 novembre 1944, vittima di una imboscata, e l’Azerbaigian lo ha tra i suoi eroi nazionali. Le sue intrepide gesta sono narrate in saggi come Dal Caucaso agli Appennini di Mikhail Talalay (Teti, 2013); in romanzi come Uzaq Sähillärdä (1954, Sulle rive lontane) degli azeri Imran Gasimov e Hasan Seyidbeyli; nell’omonimo film di Tofiq Tağızadənin del 1958; in documentari come Era soprannominato Mikhajlo di Tahir Aliyev del 2008. Nonché, in Italia, dal bel romanzo e in altri scritti di Vergara.
Anche dell’eccidio di Sant’Anna in Toscana si era tornati un poco a parlare, dopo decenni di oblio, grazie a un romanzo, Le ceneri rimosse di Francesco Belluomini, uscito da Newton nel 1989. E di nuovo a partire dal 1994, dopo il ritrovamento di un corposo dossier volutamente dimenticato in un armadio chiuso e con le ante rivolte verso la parete. È il cosiddetto “armadio della vergogna” di palazzo Cesi-Gaddi, contenente 2.274 dossier sulle stragi impunite compiute in Italia dai nazisti assieme ai loro sodali fascisti. Documenti che, per ragioni di opportunità, si era deciso di occultare.

(“Il Domani”, 30 aprile 2024)

Il gallo dalle uova d’oro

27 aprile 2024 by

di Giovanni Giovannetti

Sentite questa: la Lega (al) Nord “ripudia” il generale Roberto Vannacci, e di conseguenza quella di Salvini lo candida alle Europee come capolista, sì ma indipendente, solo al Centro. Stando ai commentatori de noantri tutto questo paleserebbe una frattura interna nella Lega salviniana tra chi il Vannacci proprio non lo regge (anche in nome dell’antifascismo identitario dei Bossi e dei Maroni, alla faccia del camerata Borghezio) e chi invece, fatti due conti, lo ritiene un messianico intercettatore di altre identità: quelle machiste, razziste e piacione dell’estrema destra, di cui il Vannacci si è fatto buon tribuno. Nella Lega la lotta appare dunque dura, e senza paura il pavese Gianmarco Centinaio, “contrario” a candidarlo, rispolvera il padre «picchiato dai fascisti»: può essere, ma non lo ricordo. Ricordo invece il Gian nel 2007 fianco a fianco dei camerati di Forza Nuova in fiaccolate contro i Rom accampati alla Snia; e poi a solidarizzare con i medesimi, s’intende i medesimi nazi, anche dopo il pogrom di Pieve Porto Morone (filoleghisti e filonazisti nottetempo diedero l’assalto ai rom momentaneamente ospitati in una struttura religiosa nei pressi di Pieve Porto Morone). Insomma, l’opposizione interna al candidato Vannacci (è attualmente sotto inchiesta per peculato e per istigazione all’odio razziale) sa di gioco delle parti, una intrepida operazione per darla a bere ai leghisti “doc” e così sommare il voto di chi – leghista e antifascista – per davvero il Vannacci lo avversa con il voto di quelli che il generale, cameratescamente, lo hanno invece in simpatia. Insomma, senza più un’identità, senza più un progetto politico e parole d’ordine riconoscibili, per quanto discutibili (“Via da Roma…” “Prima il Nord…” “Roma ladrona la Lega non perdona…”), la Lega attuale, quella dell'”uomo del ponte” tra la Calabria e la Sicilia, cerca il suo “spazio vitale” a destra della destra, là dove osano le quaglie.

La sciagurata guerra demografica di Israele in Palestina

15 aprile 2024 by

di Giovanni Giovannetti

sciagurata guerra

«…Ogni innocente, ogni bambino di Gaza morto è una pietra che colpisce il cuore morale di Israele». Lo ha detto l’ex premier israeliano Ehud Olmert, a dar conto dell’impotente indignazione di molta opinione pubblica israeliana – e di quella Occidentale – sul massacro di 14mila bambini palestinesi di Gaza, ora che il numero complessivo dei morti in soli sei mesi ha di gran lunga superato i 30mila.
Ma se metà Israele si indigna come e più di Olmert, e manifesta per la pace, l’altra metà si mostra cinicamente indifferente, insensibile anche al destino degli ostaggi israeliani in mano ad Hamas, e sostiene le politiche criminali del premier Benjamin Netanyahu – tutt’altro che isolato – augurandosi lo sterminio dei gazawi, ovvero dei palestinesi attendati nel “cimitero” virtuale di Gaza Sud.

Libro e moschetto

Se ne parla poco ma, nei territori arabi occupati militarmente da Israele, da decenni si combatte una seconda “guerra”, diciamo demografica, ai palestinesi. Che significa? Significa che nel 1950 Israele aveva 1.370.000 abitanti mentre ora se ne contano quasi dieci milioni e per un quinto sono palestinesi d’Israele, ovvero cittadini di uno Stato laico e multietnico.
Riducendo la questione all’osso, in quel Medio Oriente il tasso di fertilità degli ebrei e degli arabo-israeliani è di circa tre figli per coppia (uno dei più elevati del mondo “occidentale”); sicché in Israele si hanno 411 abitanti per chilometro quadrato, ma il dato raddoppia se escludiamo le inabitabili zone desertiche. Di questo passo, sommando le nuove nascite all’arrivo degli immigrati (40mila nel solo 2023), nel 2050 lo Stato d’Israele conterà almeno 13 milioni di abitanti, stipati in un fazzoletto di terra poco più grande della Puglia.
Cresce la popolazione di Israele, e in particolare si espande esponenzialmente la componente ultra-ortodossa e ultra-forcaiola degli Haredim, dediti prevalentemente allo studio della Torah, l’Antico testamento, e del Talmud, il “grande libro” delle norme etiche, giuridiche e rituali del popolo ebraico: ebbene, tra gli Haredim siamo a sette figli per coppia, il doppio della peraltro elevata media nazionale. Fra l’altro, questi fondamentalisti religiosi (i fautori del primato etnico di Israele) sono tra i più convintamente guerrafondai; ma se molti di loro vengono esentati dalla leva militare (32 mesi per gli uomini, 24 per le donne) e quindi dal combattere, la percentuale dei cadetti al corso per allievi ufficiali educato nelle Yeshivot (il sistema scolastico sionista ortodosso), negli ultimi trent’anni è passata dal 2,5 al 40 per cento.

Lo “spazio vitale”

Dunque Israele cerca spazio e dal 1977, da quando governa la destra del Likud, lo trova incentivando la colonizzazione di territori confinanti della Cisgiordania e dell’altipiano del Golan, a spese della sempre più esigua e vessata comunità palestinese e siriana che in quelle terre ancora risiede.
Passando ai numeri, i millenovecento coloni israeliani del 1977, dieci anni dopo sono diventati cinquantamila, nel 2008 trecentomila e 417mila nel 2021, senza qui dare conto degli ebrei israeliani insediatisi a Gerusalemme est, la futuribile capitale dello Stato di Palestina.
L’anno scorso in Cisgiordania sono stati creati ventisei nuovi avamposti illegali israeliani, dieci dopo il 7 ottobre. Ma 750mila coloni ebrei vivono ormai stabilmente in trecento insediamenti oltre i confini del 1948. Sono enclave sioniste in un territorio, la Cisgordania, che ora si presenta a “macchie di leopardo”, con qualche zolla amministrata dall’Autorità palestinese ovvero da Fatah (la componente più moderata del movimento); ma ovunque comanda Israele.
Il governo di Netanyahu riconosce ai nuovi immigrati che scelgono di vivere negli insediamenti un assegno mensile di 500 euro per due anni, sconti sulle tasse e cinque anni di spese ultra-ridotte per l’affitto di una casa, nonché lo sfruttamento delle terre fertili e di altre risorse naturali, in particolare delle falde idriche (i 470mila coloni trapiantati in Cisgiordania consumano sei volte più acqua dei 3 milioni di palestinesi circostanti). Insomma, nei territori occupati i diritti degli israeliani prevalgono di gran lunga su quelli dei palestinesi ghettizzati; in una parola, è apartheid.
Divisi al loro interno, sottoposti a occupazione militare e senza più terra né acqua né mezzi di produzione, insomma senza più diritti, i palestinesi rappresentano per Israele in generale e per i coloni in particolare un flessibile bacino di manodopera a basso costo (li pagano il 35 per cento del salario minimo israeliano), da sfruttare nel settore edile oppure agricolo.

Diritto e rovescio internazionale

Il 60 per cento della Cisgiordania, la sua parte più fertile, è sotto stretto controllo israeliano (è la cosiddetta “zona C” degli accordi di Oslo sottoscritti nel 1993 e nel 1995 dal governo israeliano e dall’Organizzazione per la liberazione della Palestina). Nella regione, quasi tutte le richieste di nuove costruzioni avanzate dai palestinesi vengono artatamente respinte, e per ogni concessione edilizia si contano abbattimenti venti volte più numerosi (dal 2004 a oggi, nella sola Gerusalemme est quattromila persone hanno avuto la casa pretestuosamente abbattuta). Vietato ai palestinesi battere certe strade, vietato l’accesso agli insediamenti; nella “zona C” è loro impedito persino il pascolo del bestiame.
Queste temperie repressive (nei fatti, una “pulizia etnica”) mirano ad allontanare le popolazioni locali e a indebolire il loro legame con la terra-madre, così da narcotizzare la prospettiva di uno Stato palestinese (parrebbe questo il fine, ora che governa la destra fondamentalista). Insomma, i coloni rappresentano oggi uno dei principali ostacoli all’indipendenza della Palestina.
E il diritto internazionale? Con la risoluzione 446, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite ha denunciato l’illegalità degli insediamenti israeliani. Non da meno, all’articolo 49 comma 6 della quarta Convenzione di Ginevra – riconosciuta da Israele – leggiamo che «la potenza occupante non potrà procedere alla deportazione o al trasferimento di una parte della sua popolazione civile nel territorio da essa occupato». Sono disposizioni sacrosante, ma è ciò che da cinquant’anni, dalla Guerra dei sei giorni, Israele sistematicamente disattende.
La comunità internazionale (Paesi arabi inclusi) si mostra dunque impietosa nell’ammonire verbalmente Israele, ma poi lascia fare: per giunta gli Stati uniti e l’Europa importano i prodotti delle colonie invece di boicottarle, e così le finanziano, favorendone la proliferazione.
E poco importa se di nuovo gli israeliani ammazzano, di nuovo abbattono le case, di nuovo affamano i palestinesi per costringerli ad andarsene (a Gaza sono come in gabbia, dentro a una guerra terrorista che li vorrebbe tutti morti). Nel frattempo Gaza l’hanno rasa al suolo, e massacrati i suoi abitanti. Così, per rivederla tornare una città abitabile dovremo attendere forse la fine del secolo. Ovviamente salvo imprevisti.

Due Stati sovrani

Nei mesi scorsi il presidente di Pax Christi Italia mons. Giovanni Ricchiuti sul conflitto in corso a Gaza ha usato toni forti: ha parlato di genocidio, dicendosi «felice che il Sud Africa abbia avanzato la richiesta di portare Benjamin Netanyahu al tribunale internazionale dell’Aja. Durante la seconda guerra mondiale» ha detto l’emerito arcivescovo «i tedeschi in Italia dicevano che per ogni loro soldato ucciso ne avrebbero ammazzati dieci. Qual è l’obbiettivo, se non eliminare questo popolo, farlo fuori tutto?» osserva Ricchiuti, concludendo che questa guerra è «accompagnata da un’informazione allineatissima in difesa di Israele».
Tanto allineata che la storia di Tal Mitnik – un diciottenne israeliano che si è rifiutato di combattere – ha trovato spazio su alcuni media israeliani e poco o punto in Italia. Secondo questo ragazzino «Non c’è soluzione militare a un problema politico» e «l’attacco criminale su Gaza non riparerà il massacro che Hamas ha compiuto il 7 ottobre». Dice poi che bombardare indiscriminatamente la striscia, compresi gli ospedali, produce solo ulteriore odio. Mitnik ha ragione. Ma come uscire dal caos attuale?
La soluzione è nota da molto tempo: quella di “due popoli, due stati” preconizzata nel 1993 a Oslo. Tutti la invocano, ma nessuno davvero la vuole. Nel settembre 2008 si era ormai a un passo dall’accordo, questo: il 93,5 per cento della Cisgiordania ai palestinesi con l’eccezione delle aree più densamente colonizzate (quel 6,5 per cento da compensare con altri territori); lo smantellamento delle altre colonie in territorio palestinese; fare di Gerusalemme una “città aperta”, con la parte ovest ebraica capitale di Israele e la parte est araba capitale della Palestina. Lo aveva proposto il capo del governo Ehud Olmert in gran segreto ad Abu Mazen, ma questo accordo il presidente della Palestina non si sentì di sottoscriverlo. Lo stallo sembra quindi fare comodo a molti, a partire da Netanyahu e Hamas, ma non a chi muore, israeliano o palestinese che sia.
Quanto al senso della reazione “esagerata” di Israele all’attacco di Hamas, concludo con un ricordo personale. Anni fa, in Israele, chiesi a due ragazzi con la divisa e un binocolo che stessero facendo su quell’altura, di fronte a un quartiere arabo di Gerusalemme est. Mi risposero così: «Siccome non li possiamo ammazzare tutti, allora li teniamo d’occhio». Che dire.

Questo dipinto è di Leonardo

16 gennaio 2024 by

Sullo sfondo, in abbozzo, le “cattedrali gemelle” di Pavia
di Giovanni Giovannetti

uomo con cane Leonardo

I dipinti accreditabili senza tentennamenti a Leonardo da Vinci non arrivano a venti. Ma se ne contano altri che un poco per volta gli vengono, diciamo, restituiti. La storica tedesca Maike Vogt-Lüerssen porta l’esempio dell’«autoritratto di Leonardo» esposto alla National Gallery of Art di Washington, un quadro tuttora attribuito a Giovanni Busi detto il Cariani «nonostante le caratteristiche dell’abbigliamento della persona siano tipiche degli anni Settanta e Ottanta del quindicesimo secolo». E a quel tempo il bergamasco Cariani doveva ancora nascere.
Perché ne parliamo? Perché sullo sfondo di questo dipinto si vede un abitato in riva a un fiume, e tra le case il profilo di due chiese romaniche una accanto all’altra. È sorprendente la somiglianza tra i luoghi di culto abbozzati nel quadro e le perdute chiese pavesi di Santo Stefano e Santa Maria del Popolo (progressivamente abbattute per fare posto al Duomo) affiancate l’una all’altra, come le vediamo nel famoso disegno trecentesco di Opicino de Canistris.

dettaglio cattedrali affiancate
opicino cattedrali affiancate

Un azzardo? Poniamo anche solo per un momento che il quadro sia per davvero un autoritratto di Leonardo. Sappiamo che il Vinci era di casa a Pavia, la capitale culturale del Ducato sforzesco presso cui operava: in riva al Ticino lui può consultare i preziosi codici della biblioteca Viscontea, una delle più fornite d’Europa; rimira l’antico monumento equestre del Regisole («di quel di Pavia si loda più il movimento che nessuna altra cosa. L’imitazione delle cose antiche è più lodevole che le moderne», scrive Leonardo del Regisole), prendendolo infine a modello per il mai concluso «gran cavallo» in onore di Francesco Sforza; e quando appunta la sua avveniristica “città ideale” prende spunto da una piacevole città «vissino a uno fiume», disegnandola attraversata da canali a convergere nel «Tesino».
Nel mondo universitario pavese, fra gli altri Leonardo si lega a Fazio Cardano – che lo appassiona alla matematica – e poco dopo all’anatomista Marc’Antonio della Torre. Sono di questo periodo alcuni tra i più brillanti disegni vinciani di anatomia, tanto da immaginarlo col Della Torre all’hospitale magnum Sancti Mathei, nottetempo, in odore di eresia, a squartar cadaveri in decomposizione alla fioca luce delle candele.
Nel dipinto ora a Washington si vede anche un cagnolino, emblema di fedeltà. E poi uno scaffale con dei libri; a simboleggiare la personale biblioteca di un autore che, verosimilmente, tiene ad accreditarsi in veste di affidabile sapiente. E già lo ha fatto in una missiva al Moro.

Caro amico le scrivo…

Nell’autunno 1482 Leonardo giunge a Milano in veste di ambasciatore culturale di Lorenzo de’ Medici detto il Magnifico, accompagnato dal musico Atalante Migliorotti e dal meccanico Tommaso Masini da Peretola detto Zoroastro; con loro è forse il faccendiere e poligrafo fiorentino Benedetto Dei, buon conoscitore dell’Oriente nonché collaudato spione. Trova una città da tre anni nelle mani di Ludovico Sforza detto il Moro (uomo di «natura varia e mutabile», come acutamente lo ha definito il nunzio apostolico Jacopo Gherardi), tre volte più popolosa di Firenze, un ambiente ricco e stimolante, una Corte aperta ad arti e scienze. Leonardo, spiega Augusto Marinoni in Sulle orme di Leonardo (1982), «si trovò in mezzo a tecnici anche più abili di lui, eredi di quella tecnologia lombarda che per esempio aveva creato, dal secolo XII in poi, una mirabile rete di canali che irrigavano la pianura e conducevano i marmi da Candoglia nell’Ossola fino ai piedi del Duomo».
Più numerosi di tecnici, artisti e banchieri erano però i soldati: il Ducato di Milano infatti tende ad affermarsi come potenza militare prima che economica (il 70 per cento delle spese). Leonardo se ne rende conto, e dismessi i panni di musico (era un eccellente suonatore di “lira all’improvviso”), forse su consiglio di Bernardo Rucellai, cognato del Magnifico e oratore mediceo a Milano, nel 1485 scrive al Moro una meditata lettera nella quale «Havendo, Signor mio Illustrissimo, visto et considerato horamai ad sufficientia le prove di tutti quelli che si reputono maestri et compositori de instrumenti bellici…», in dieci paragrafi, elenca «li secreti» suoi di ingegnere militare, di pittore e di scultore.
In questa lettera, la cui minuta è entrata a far parte del Codice Atlantico (1082 recto) Leonardo nulla millanta poiché le sue conoscenze sono indubbie. E il Moro ne converrà, tanto che nel dipinto a Washington, sul piedistallo a sinistra compare una scritta su quattro righe, e la prima riga è di certo interpretabile come “Ludovico”, un possibile riferimento al nome del suo signore nonché generoso datore di lavoro.

Leonardo e le “cattedrali affiancate”

Ma veniamo al punto, poiché il Vinci concorre con Giovanni Antonio Amadeo, Cristoforo Rocchi, Gian Giacomo Dolcebuono e Donato Bramante al primo progetto del Duomo pavese, da edificare proprio in luogo delle due “cattedrali affiancate” forse raffigurate nel dipinto. E anzi, Edmondo Solmi (storico della filosofia e appassionato studioso vinciano) in Leonardo da Vinci. Il Duomo, il Castello e l’Università di Pavia (1911) scriveva che il modello definitivo del Duomo di Pavia «venne fatto quasi esclusivamente sui disegni di Leonardo, tanto che nell’architettura della cattedrale pavese veniamo a possedere l’unico saggio compiuto dell’arte di costruzione chiesastica del Vinci». Sono parole audaci, ma forse di qualche senso.
Fra l’altro Carlo Pedretti (è stato il maggiore studioso di Leonardo) retrodata a quegli anni il Manoscritto B (uno dei suoi quaderni per appunti, il più pavese di tutti) e i relativi disegni vinciani a croce greca riferiti al Duomo pavese (lo ha stabilito l’esame delle carte ai raggi ultravioletti); così come daterebbero al 1487-1488 due schizzi architettonici contenuti nel Codice Atlantico «che avevano già fatto pensare a una idea per la cattedrale di Pavia», rendendo almeno ipotizzabile un coinvolgimento di Leonardo fin da subito (il primo progetto è del 1487 e la posa della prima pietra nell’anno successivo): «Si prospetterebbe così di riprendere la vecchia tesi del Solmi, o per lo meno qualche aspetto di essa» scrive Pedretti in Leonardo architetto (1979), «tanto più che la data del Manoscritto B si è potuta accertare essere compresa tra il 1487 e il 1490. Si tratta di un periodo che corrisponde a quello degli inizi degli studi anatomici di Leonardo, e infatti alcuni fogli di anatomia a Windsor contengono studi anatomici che sono in diretto rapporto con il contenuto del Manoscritto B – e del resto sui primi fogli del Manoscritto B, si hanno annotazioni sulla proporzione degli arti che riflettono quelli di tutta la serie di fogli anatomici a Windsor».
Secondo Pedretti, «è dunque probabile che Leonardo si trovasse a Pavia il 29 giugno 1488 quando fu posta la prima pietra della nuova cattedrale, oppure il 22 agosto dello stesso anno, quando un comitato di esperti con a capo il Bramante si riuniva per esaminare “certa disegna et certos modellos” preparati dal Rocchi e dall’Amadeo».
Comunque sia, è documentata la presenza di Leonardo in riva al “Tesino” nel giugno 1490, assieme al grande architetto ingegnere e artista senese Francesco di Giorgio Martini per una visita al cantiere inaugurato due anni prima dal cardinale Ascanio Sforza, vescovo di Pavia dal 1476 e fratello di Ludovico il Moro (i due toscani e il loro seguito alloggiarono alla locanda del Saracino, accanto alla chiesa di Santa Maria Gualtieri).

Leonardo disegna il Duomo

Ne I manoscritti e disegni di Leonardo da Vinci (1939), Adolfo Venturi annota simmetrie tra la veduta prospettica di una chiesa, abbozzata sul foglio veneziano n. 238, e la facciata del Duomo pavese (anche secondo Pedretti quel disegno «echeggia le articolazioni volumetriche del Duomo di Pavia»). Si confronti poi il disegno a Venezia – e lo stesso modello ligneo del Duomo pavese (ai Civici musei di Pavia) – con la chiesa riconoscibile nell’incompiuto dipinto del San Girolamo, databile tra il 1485 e il 1490, ossia i primi anni di Leonardo presso il Moro, la cui committenza pavese è quanto meno presumibile (nel 1481 i monaci geronimiti erano tornati a Pavia, al monastero di San Marino). Ne consegue un deciso sostegno all’ipotesi che anche nel San Girolamo si tratti del Duomo di Pavia al cui progetto Leonardo concorre forse da subito (ma per quanto intrigato dalle cose antiche, non sta a chi scrive decretarlo).
Piede sul freno anche nell’intrepido azzardo sulle “cattedrali gemelle”, ipotizzabili (e non certificabili) nel coevo dipinto a Washington. Ma è un fatto che in Lombardia e dintorni due chiese romaniche edificate una al fianco dell’altra in una turrita città di fiume erano un unicum, suggestivo e distintivo, di Pavia.

Ciao Filo

7 gennaio 2024 by

di Giovanni Giovannetti

Filini Rivera calciatori

Cazzeggiando su Facebook intercetto questa fotografia in cui si vede un sedicenne Gianni Rivera con la maglia dell’Alessandria esordiente in serie A, e nessun’altra indicazione su chi è ripreso accanto a lui. Fatico anch’io, ma alla sinistra di Rivera riconosco un ventenne Giancarlo Filini da Ceranova, paese della provincia di Pavia, lo stesso di Enrico Muzzio, altro “eroe” sportivo degli anni Sessanta, uno capace di fare gol a grappoli in serie A nella Spal.
Anni dopo Filini l’ho avuto come allenatore nelle giovanili dei borghigiani Aquilotti; con lui in panca vincemmo il campionato provinciale juniores, io all’ala, un buon sinistro e niente più (ero un lungagnone scarso di fisico, di destro e di testa). Eppure, quell’anno, di reti ne ho segnate una decina. Mi allenavo molto e forse per questo motivo ogni settimana il “Filo” mi mandava in campo: «Il giorno che tu farai un goal di testa» era solito dirmi «prometto di fare il campo a capriole…». E sai la soddisfazione quando a Gropello Cairoli, con la squadra locale appaiata a noi in cima alla classifica, nella partita decisiva la misi in rete non so dire se di testa o di spalla, ma tant’è… e così il “Filo” dovette farsi il campo per il lungo a capriole.
Leggo che il 1° gennaio lui se n’è andato. Gli ho voluto bene, e tanto mi piaceva ascoltarlo narrare le sue imprese sportive in quell’Alessandria fucina di campioni come Rivera, accanto a “vecchie glorie” come il mitico Benito Lorenzi detto “Veleno”. Come quella volta nel 1959 a Roma, stadio Olimpico: «Entrare lì dentro mi faceva paura, così grande, avevo vent’anni e mi tremavano le gambe. Poi feci gol e Lorenzi passò il resto della partita a sbeffeggiare il loro portiere: “ma come, ti fai fare gol da un ragazzino…”» Ciao ragazzino.

L’altra Gioconda di Leonardo. Capolavoro o falso?

11 dicembre 2023 by

di Giovanni Giovannetti

Isleworth Mona lisa Isabella Aragona Raffaello

Per Vittorio Sgarbi la Isleworth Mona Lisa (immagine a sinistra) ora in mostra a Torino «è una patacca»; per il compianto Adolfo Venturi (un gigante della storia dell’arte, fu il maestro di Roberto Longhi) era invece «più bella di quella di Parigi». Insomma, questo incompiuto dipinto che molti accreditano a Leonardo da Vinci non smette di animare le più accese polemiche tra chi la vede come Sgarbi e chi in altro modo.

Isabella d’Aragona, la Gioconda “pavese”

Ma chi è davvero Monna Lisa? Per la biologa e storica tedesca Maike Vogt-Lüerssen quell’enigmatico sorriso apparterrebbe a Isabella d’Aragona, la moglie e cugina di Gian Galeazzo Sforza, il giovanissimo duca di Milano marginalizzato a Pavia dal duca reggente Ludovico il Moro, zio di entrambi. Secondo Vogt-Lüerssen, Leonardo ritrae Isabella nel 1489 al Castello Visconteo pavese – la dorata “prigione” di Isabella e Gian Galeazzo – tra due colonne solo in abbozzo nell’incompiuto quadro al Louvre ma ben visibili, ad esempio, nella Vernon Gioconda (è negli Stati Uniti) e nell’Isleworth Mona Lisa ora in mostra a Torino. Queste versioni sembrano precedere la ben più famosa Gioconda parigina.
Che sia il ritratto di una Sforza alla studiosa lo suggeriscono elementi alquanto concreti come il velo sul capo e soprattutto l’abito a lutto di colore verde scuro e maniche in velluto nero decorato, in scollatura, da una catena di anelli interconnessi: e la simbologia della casata. Vogt-Lüerssen ritiene anche possibile stabilire con buona approssimazione la datazione del dipinto. Come è presto detto: Ippolita Maria Sforza, madre di Isabella e sorella del Moro, morì il 19 agosto 1488 e per nove mesi la giovane figlia portò l’abito nero per il lutto grave; poi, nei tre mesi a seguire, indossò quello verde scuro del lutto blando, senza alcun gioiello. Come nel dipinto. Dunque, secondo Vogt-Lüerssen, «Leonardo dipinge il primo ritratto ufficiale della duchessa tra il 19 maggio e il 19 agosto 1489» (Wer ist Mona Lisa?, 2003). Molto probabilmente è l’Isleworth Mona Lisa (dal nome del sobborgo londinese in cui viveva il mercante d’arte Hugh Blaker, che l’aveva acquistata nel 1913). Ma per altri esperti questo quadro è solo una delle tante copie o varianti dell’«originale» al Louvre.
Si tratta dunque di una prima versione del più celebre quadro di Leonardo, come ritiene Vogt-Lüerssen? Oppure di «una copia tarda della Gioconda, probabilmente neanche della sua bottega», come sostiene Sgarbi? Un dipinto di «dui suoi garzoni» cui Leonardo era solito servirsi «et lui a le volte in alcuno mette mano», come scrisse nel 1501 fra’ Pietro da Novellara a Isabella, marchesa di Mantova e cugina dell’aragonese?
A complicare concorre quindi la compresenza di più versioni dello stesso dipinto (quelle accreditate sommano a una dozzina). Come orientarsi allora nel ginepraio dei presunti originali opposti a «copie», «versioni» o «varianti»?

Pollice verso

Secondo lo storico dell’arte britannico Martin Kemp il punto focale rimane l’attribuzione, e irrilevante il resto poiché all’epoca, come scrive in Lezioni dell’occhio (Vita e Pensiero, 2004), «una seconda (o una terza) versione di una composizione molto ammirata non era necessariamente considerata di seconda scelta»; e l’indicazione dell’autore nel contratto con il committente «era intesa a evitare i subappalti, più che a impedire il lavoro di squadra che era pratica comune nelle grandi botteghe».
Ma sulla paternità vinciana dell’Isleworth Mona Lisa lo studioso inglese manifesta ampi dubbi: ammette che il dipinto mostra analogie «come il velo sul capo, i capelli, le trasparenze del vestito, la struttura delle mani» e tuttavia «il paesaggio è privo di peculiarità atmosferiche; il volto, come in ogni altra copia, non cattura la profonda inafferrabilità dell’originale». Ma l’incongruenza più eclatante parrebbe di ordine tecnico poiché l’Isleworth «è un dipinto ad olio su tela mentre, è noto, Leonardo dipingeva quasi esclusivamente su pannelli in legno». Legno di noce, mentre il quadro al Louvre, singolarmente, è in pioppo.
Non da meno, lo storico dell’arte tedesco Frank Zöllner, elusivo e lapidario, in Leonardo. Tutti i dipinti (Taschen, 2011) sancisce che «finora, nel caso della Monna Lisa, nessuna argomentazione basata sull’abbigliamento è stata particolarmente convincente». Null’altro.
Insomma, intorno al più famoso dipinto al mondo, tuttora si giocano le fortune accademiche di studiosi tanto acclamati quanto poco inclini a cambiare idea. Ma piaccia o meno, l’esistenza di più Gioconde o versioni di Gioconde, la loro attribuzione a Leonardo o a un assistente o a entrambi, rimane una questione aperta così come dubbia rimane la primogenitura della Gioconda al Louvre, anche se “certificata” da alcuni tra i suoi maggiori esegeti.
Tornando al soggetto, anziché Lisa Gherardini del Giocondo, di volta in volta illustri umanisti e studiosi vi hanno visto Costanza d’Avalos duchessa d’Altavilla (Benedetto Croce, Adolfo Venturi e Henry Pulitzer); Pacifica Brandano, “favorita” di Giuliano de’ Medici (Antonio Forcellino, Carlo Pedretti e Roberto Zapperi); l’altra “favorita” Isabella Gualanda (Pedretti e Carlo Vecce); la stessa Isabella d’Este, cugina di Isabella d’Aragona (Hidemichi Tanaka); la battagliera Caterina Sforza, figlia illegittima di Galeazzo Maria Sforza e madre di Giovanni dalle Bande Nere (Magdalena Soest); oppure Bianca Giovanna Sforza, figlia di Ludovico il Moro e della sua amante Bernardina de Corradis, data in sposa quattordicenne a Gian Galeazzo Sanseverino, signore di Bobbio e comandante dell’esercito sforzesco nonché mecenate e protettore di Leonardo (Carla Glori). Ma nessuna tra le ipotesi avanzate sembra vantare concreti riscontri come quelli offerti da Maike Vogt-Lüerssen per Isabella d’Aragona.

Pollice recto

Si confronti allora il dipinto di Leonardo con il ritratto che Raffaello fece a Isabella molti anni dopo (immagine a destra): la somiglianza è impressionante.
All’alba del Cinquecento, il poeta parmense Enea Irpino, dall’isola di Ischia dedicò il suo Canzoniere ad una “Isabella”, «una giovane vedova nata a Napoli» (Vecce), declamando anche il ritratto fattole da Leonardo, «Quel bon pittor egregio, che dipinse / tanta beltà sotto il pudico velo, / superò l’arte e se medesimo vinse».
Come si è visto, Carlo Vecce opta per Isabella Gualanda, e nel suo Trattato dell’arte de la Pittura (1584) Giovanni Paolo Lomazzo accenna a un «ritratto di Monna Lisa napoletana»: che significa «napoletana»? La pisana Gualanda era originaria di Napoli; ma lo stesso si può dire dell’aragonese Isabella, nata a Napoli e tornata a Ischia nel 1500, prima di trasferirsi a Bari l’anno successivo. Altri indizi emergono poi da un testo ottocentesco: «…pare che d’Isabella duchessa di Milano fosse il ritratto dipinto dal Vinci, a cui mirano le Ballate ed un Sonetto dell’Irpino», come scrisse Angelo Pezzana nel 1827, rileggendo Notizia delle Pitture di Francesco Bartoli, pubblicato a Venezia nel 1776.
Quindi a chi dar credito? Forse al professor Robert Langdon, tra i romanzeschi personaggi del Codice da Vinci di Dan Brown, lui che vedeva il mondo ramificato in una rete di storie ed eventi profondamente intrecciati tra loro; un intreccio come i ricami sull’abito di Monna Lisa oppure per dirla con Martin Kemp, un «intreccio analogo a quello che lega insieme gli amanti».
O forse potremmo ascoltare May Margareth Heaton, che «chiamando in causa una possibile relazione tra Leonardo e la sua modella» (Antonio Forcellino), intravvedendo in Monna Lisa il sorriso del pittore, già nel 1874 allusivamente si domandava: «il pittore era innamorato della bellezza che dipingeva?»
Sembra risponderle Irpino, dal suo petrarchesco Canzoniere: «Se ’l sommo pregio il Vincio or ha di questo, / l’ha con Amor, ché prima Amor ritrasse / il volto e sì begli occhi, et egli il resto». E forse è per questo motivo che Leonardo ha tenuto per sé il quadro ora al Louvre.
Intervenendo a Firenze nel 2012, Vogt-Lüerssen ha fra l’altro lamentato la delega in bianco ai soli storici dell’arte di ogni certificazione su pittura e pittori di Medioevo e Rinascimento, come se «la valutazione stilistica di un’opera fosse sufficiente a ricostruire l’identità del soggetto dipinto o la sua datazione». Ricordando che sulla Gioconda fino ad ora si è dato per storicamente accertato ciò che in realtà è ipotetico, Vogt-Lüerssen ha esortato a una più attenta frequentazione delle scienze antropologiche così da leggere correttamente tradizioni, simboli, costumi, comportamenti, cultura materiale di un dato tempo e luogo.
Al dunque, nonostante le autorevoli perplessità, provando a separare i pochi fatti dalle molte opinioni, l’ipotesi avanzata dalla egualmente autorevole studiosa tedesca, ai nostri occhi rimane parecchio seducente. Ma prenderne atto porterebbe a delegittimare i tanti “certificatori” ignari del valore della storia dell’abbigliamento, nonché a condurre al macero più d’una delle loro fortunate opere. In definitiva, porterebbe a riscrivere nel profondo interi segmenti della storia dell’arte.

* * *

La prima Monna Lisa, Torino, galleria Promotrice delle belle arti al parco del Valentino. Fino al 26 maggio.

Bella pugnalata

7 novembre 2023 by

Lettera a Antonio Moresco su Come una santa nuda di Alessandra Saugo
di Giovanni Giovannetti

Caro Antonio,
ho letto Come una santa nuda di Alessandra Saugo. Ero mosso da curiosità per l’ultima opera di questa autrice che proprio tu, tanto tempo fa, quando era al suo primo libro, mi sollecitasti a pubblicare.
Ero, lo confesso, anche un poco indispettito perché questo suo ultimo libro l’hai dato ad altri e non a me. In fin dei conti vent’anni prima l’ho pubblicata quando ancora nessuno la conosceva, e voleva. Poi, adesso, il nuovo libro l’ho letto e ho capito, purtroppo. Vado subito al dunque: le inaccettabili menzogne su di me e su altri che vi si leggono hanno avuto il tuo avallo, e questo mi ferisce ben più di quanto Saugo ha scritto.
E mi ferisce perché, al netto della voce«piena di céliniano furore» (come hai scritto nella tua recensione su “Tuttolibri” del 23 settembre scorso) e di qualche buona pagina, Come una santa nuda è un libro ingeneroso, falso e ignorante. Ingeneroso perché offende persone che l’hanno invece aiutata. Falso perché su di me ha mentito pur sapendo di mentire. Ignorante perché l’autrice avanza fantasiosi commenti sul mondo dell’editoria pur essendo digiuna di tutto ciò che pertiene al mondo del libro e dell’editoria.
Nondimeno, sul “Primo amore” l’incolpevole Giulia Della Cioppa lo recensisce spacciandola per «un’analisi di una lucidità impietosa, un testo che non risparmia nessuno e non dimentica niente»; un libro che «svela il rovescio della medaglia» di un mondo che «si presenta in tutto il suo livore, vaniloquente e remissivo» proponendo «una disamina critica dell’editoria che ovunque fa acqua, ovunque perde. Ovunque colpisce e punisce chi non sa stare nei canoni, punisce l’illeggibile, il difficile». Vedi, Antonio, che lettura può darne chi lo legge senza conoscere la verità? Senza cioè sapere – e ora parlo di me – che la «disamina critica dell’editoria» prende di mira unicamente il sottoscritto, ovvero colui che più di vent’anni fa l’aveva pubblicata, non rifiutata.
Scrive Saugo che il suo «primo e unico editore era indifferente, aveva lì un pezzo di ragazza, una trentenne in piena polpa, con questa lingua messa giù, con questa forza soul», e lui che fa? Lui, l’editore «resta indifferente a tutto. Non si accorgeva e non gli interessava niente», forse in attesa, butta lì Saugo, che il testo venisse ravvivato da qualche punta di erotismo. Del resto, il suo «psicologo dinamico lo dice sempre. Tutto sarebbe andato diversamente se ci fosse stato da qualche parte intorno al mio libro, davanti, di fianco, di sopra, di sotto, per dentro, per fuori, anche per dietro casomai, un grammo di erotismo. Con i passaggi freddi fanno poca strada le cantanti mute come me. Ero una giovane piacente cantante mummia. Non incontravo l’erotismo lungo la via. Ero l’epoca vittoriana con le gambe dei tavoli ricoperte dalla tovaglia perché non si accendano quei pensieri».
“Sarebbe andato diversamente” cosa? Quali “pensieri”? Io pubblico libri e non ho mai proposto a nessuno di intarsiare un’opera con inutili imbellettamenti. Ho avuto quel suo testo dalle tue mani, Antonio, l’ho letto e inserito così com’era nel piano editoriale. L’ho poi messo in pagina, salvo ricevere dall’autrice continue richieste di modifiche: voleva correggerlo e ricorreggerlo, anche dopo l’impaginazione definitiva, allungando i tempi di uscita in libreria.
Poi l’affondo si fa personale, con l’editore «sempre in affanno con quel pallore. E con quella dolcezza irrelata, sfasata, con quella sbadataggine di copertura all’insofferenza».
Eh sì, perché il suo psicologo, come «il fondatore della psicoterapia dinamica, aveva scritto che i cosiddetti filantropi o benefattori o Robin Hood», cioè io, l’editore, «erano in realtà i sadici autentici. E di controprove ce n’è purtroppo. E questo editore era proprio un filantropo. Tutte giuste cause edificanti, anche estreme. Cosa puoi dirgli. Tutte le ingiustizie soverchiavano le forze del bene dell’editore, le aizzavano. Tutto pieno di cattiverie intorno all’editore che doveva contestarle e doveva denunciarle. Come una carta moschicida era l’editore, e come le mosche erano le ingiustizie intorno a lui. Era romantico e pieno di ideali militanti, come un Che albino. Era avventuroso, era intrepido, era dalla parte del giusto. Chissà come mai però, in certe circostanze, come ad esempio le mie circostanze, invece cambiava del tutto, l’editore. E si trasformava in un’altra persona. E faceva come se un ecologista osservante, dentro a un bosco vergine, getta le sue lattine, getta i suoi rifiuti, sfregia il bosco vergine. E poi butta anche la tanica di benzina del suo gommone nell’indifeso azzurro mare».
Interrompo la citazione di Saugo solo per dire che colei che tracciava questo mio toccante ritratto io l’ho incontrata una sola volta, per pochi minuti, alla Palazzina Liberty di Milano a una lettura di poesie di Tomaso Kemeny. Ricordi, Antonio? Quella sera tu mi portasti da lei, seduta in sala. Un saluto e via. E dopo credo d’averle parlato qualche volta per telefono, con lei o con il marito.
Ma torniamo al «sadico autentico» avvertito da Alessandra Saugo e colto in castagna dal suo psicologo: «Gli psicologi dinamici chiamano questi misteri dell’animo umano degli editori e degli ecologisti manifestazioni residue. Esse tralignano sempre ogni animabellismo. A questo servono gli psicologi dinamici, a smascherare la bontà».
Caro Antonio, non hai nulla da dire sul «sadico autentico» qui dipinto? Sono così, io? Sai, quando a dire cose simili o a trinciare profili psicologici a distanza è una persona con qualche disagio, potrei anche soprassedere; ma da te che mi sei stato amico e sodale, da te che mi conosci e sai come stanno le cose, l’avallo della menzogna proprio no, non lo accetto.
Proseguiamo. Scrive Saugo di avere cercato le impronte digitali della mia bontà nella sua «cornetta del telefono sempre tumefatta dai suoi [dell’editore] schiaffi d’assenza». Più passava il tempo e più «le sue promesse da marinaio girovagavano orribilmente nella mia nave affondata come spettri, allora io avevo solo la sensazione che neanche un negriero era così sfacciatamente maleducato, privo di rispetto e impenitente. La pletora degli ideali umanitari di certa sinistra. Ma perché mai devo essere proprio io il precipitato di questa umanità dell’editore. Perché deve precipitare proprio nella mia vita la manifestazione residua di tutte di tutte quante le manifestazioni di estrema (bontà e solidarietà) sinistra. Perché devo vederne il volto capovolto, in particolare. Ma non voglio vederlo! Non voglio subirlo!, l’ho subito invece, e per tre lunghi anni».
Alessandra Saugo punta l’indice non sui tanti che il suo libro hanno cestinato, ma sull’unico editore che invece lo ha accettato e pubblicato, spendendovi tempo, soldi, energie. Dice poi di avere atteso la pubblicazione per tre lunghi anni. Non è vero. E comunque io fatico a pubblicare dieci libri l’anno, perché un piccolo editore ha forze limitate. Faccio quello che posso, ma ho molte opere in attesa e poche disponibilità economiche; di conseguenza capita, a turno, di dover aspettare, specie quando un autore è al primo libro.
«È stato un lavaggio del cervello subliminale. E mi sentivo indegna, piena di sensi di colpa verso l’editore, verso la sua ideologia e verso la sua militanza nel bene» perché, scrive Saugo, «io non sono una di loro, sono una casalinga figlia di un industriale tessile, con la rendita mensile come nell’800. La rendita mensile, capisci» [il corsivo è dell’autrice].
Per la verità io nulla sapevo della sua collocazione sociale o della sua situazione economica (solo ora, da questo libro, ho saputo che l’autrice era di famiglia altolocata e benestante); e comunque erano fatti suoi, estranei alla pubblicazione. Non di meno, secondo lei l’editore «mi punisce, mi disprezza magari, gli sono completamente indifferente. Dovrebbe occuparmi la casa il prima possibile, se fosse ancora tempo di moti. Se sapessi suscitargli un minimo di rabbia, di interesse, ma sono una che non interessa affatto, all’editore, una da preferirle un intero campo nomadi, piuttosto che la sua ignava buona educazione, che richiama, non richiamata. Una che non dovrebbe chiamare e che non dovrebbe richiamare, non dovrebbe mai telefonare e mai presentarsi da nessuna parte, a nessun appuntamento, per nessun motivo. E con qualcosa in mano mai e poi mai. Qualcosa di mantenuto. Quel manoscritto mantenuto non può essere lotta, corteo, bomba in bottiglia, urlo, denuncia, femminicidio, emarginazione, violenza, patriarcato, frode, sforzo sfegatato per non soccombere, per contestare, o contrastare, e vendicare e per proteggere, per custodire, restituire, risarcire, voler bene».
Ma come? Pur con forze limitate, pubblico il suo libro, ma il risultato è che vengo ricacciato nel solito stereotipo dell’editore di sinistra che, in quanto tale, boicotta tutto ciò che non è dichiaratamente “movimentista”? Alessandra Saugo conosceva l’articolato catalogo dell’editore di Effigie, presso cui ha pubblicato? Solo libri “militanti” e “di sinistra”? A questo punto domando: era il libro in ostaggio dall’editore, o era l’editore ostaggio di un libro, con la sua autrice che pretendeva corsie preferenziali?
«Ma posso dire tutto quello che voglio, tanto l’editore subodora, inconsciamente, pensando ad altro sempre e solo sorvolando, una oblomova. Che passa la sua giovinezza a non fare la rivoluzione, a non abbracciare nessuna ideologia, nessuna utopia, nessun fanatismo, neanche nessuna tossicodipendenza, neanche nessun adulterio, e neanche rave party, una senza storia, che non sa giusto niente. Ma no, no, all’editore non interessa neanche criticare, non interessa proprio niente, non legge neanche, non sente niente mentre gli parlo al telefono, non vede niente quando sono lì davanti a lui, non vede nessuno, non c’è nessun dialogo, nessun ascolto, è distratto fuori da ogni misura. Iuhuhu?!»
Caro Antonio, ero il suo editore, non suo marito, e tanto meno il suo confessore o il suo psicoanalista. Ma, dimmi, come ci si “difende” da autrici che, appena firmato il contratto, vorrebbero subito vedere il loro romanzo in libreria? E quando finalmente il libro esce, ecco Saugo lamentarsi perché questo suo romanzo «non c’è in nessuna libreria, l’editore non lo distribuisce, non c’è da nessuna parte».
Ah, «l’editore non lo distribuisce…» Secondo lei io spendevo tempo e quattrini nel fare libri per poi non distribuirli? Ecco, quando prima ho accennato all’ingenerosità e all’ignoranza del mondo editoriale e librario mi riferivo proprio a questo. E poi non sono io a distribuire i libri: non sono Mondadori, non dispongo di una autonoma rete distributiva; più del 50 per cento del prezzo di copertina se lo dividono la promozione e la distribuzione, esterne alla casa editrice. Ma stringi stringi è poi il libraio a decidere se tenere un libro oppure no: se i librai non ordinano un libro, l’editore non glielo può imporre. All’editore non resta che sostenere gli onerosi costi della promozione e della distribuzione pur sapendo che i libri intransigenti e diversi, come quello mio di Alessandra Saugo, faticheranno a farsi largo sugli scaffali. Ma vallo a spiegare a chi è digiuno di cose editoriali.
Caro Antonio, quando nacquero le edizioni Effigie tu mi fosti accanto, un generoso e prestigioso consulente che per noi distillava gli autori esordienti di valore: Toni Fachini, Paolo Mastroianni e Alessandra Saugo fra gli altri. A loro altri editori, ben più facoltosi, avevano detto no; io invece li ho pubblicati, mettendomi in gioco e mettendo un poco a rischio anche la casa editrice (gli esordienti sono una incognita, e possono recare affanno economico). Ma volevo dare voce a chi – prosatori, poeti e saggisti – aveva cose da dire e una forma per dirlo. E come editore, perché no, crescere con loro.
Antonio, tu c’eri. E poiché c’eri, come hai potuto avallare una così tracimante schiuma menzognera senza alcun commento, senza dotare il libro di una prefazione o di una postfazione? Perché licenziare Come una santa nuda senza uno straccio di contestualizzazione da parte tua? Proprio tu che nella vita e nell’opera hai tenuto il principio di verità come solido punto fermo.
Recensendola su “Tuttolibri” in forma di lettera, alla «Cara Alessandra» scrivi giustamente che questo suo “ardimento linguistico” «è uno scherzo pesante, pesantissimo» pieno di dolore e risentimento, un «tritacarne» in cui hai visto cadere anche alcuni tuoi «amici scrittori, che non meritavano tanto sarcasmo». Sono puntualizzazioni sacrosante, necessarie, che però avrei preferito leggere non su un giornale, ma da qualche parte nel libro.
Non lo hai fatto. E mi dispiace.

Ostruzionismo scientifico: che cos’è?

15 ottobre 2023 by

di Lidia Pelis

Su “La Provincia Pavese” del 7 Ottobre, a pagina 1 e poi a pagina 9, campeggia il titolo Ostruzionismo scientifico contro il Pgt, come dichiarano il sindaco Fabrizio Fracassi e l’ assessore Massimiliano Koch.
Essi mostrano di non saper dare alcun valore alle parole che usano. Non c’è stato né “ostruzionismo” né “scientifico”, ma semplicemente diffusa volontà dei cittadini di partecipare, pure condividendo (copiando tra loro) le osservazioni e presentandole in gran numero, anche tante uguali.
Scambiare partecipazione per ostruzionismo è segno di pura stupidità, e chiamarlo “scientifico” significa proprio non sapere, né aver ancora capito, cosa sia la scienza e cosa siano i numeri.
Che il quotidiano riporti nel titolo senza commento alcuno le sciocchezze dette da Sindaco e Assessore è un triste segno dei tempi. Il giornalismo allora non ha alcuna funzione critica e non sa leggere né spiegare la vuotezza del linguaggio di simili amministratori. Pazienza!
Speriamo soltanto che tutta la vicenda del PGT in corso di svolgimento nel 2023 sia di buon auspicio per Pavia nel 2024, con una giusta sconfitta elettorale di questi maldestri personaggi che ancora sono in sella al governo della pacifica città.
Però purtroppo per ora non si vedono brillanti candidati condivisi tra le file degli oppositori: ma forse è meglio. Basta che emergano un po’ prima delle prossime elezioni amministrative. Chi vivrà, vedrà.

La transumanza lombarda

30 settembre 2023 by

di Giovanni Giovannetti

transumanza

Fino alla metà del secolo scorso ogni anno, tra settembre e ottobre, si poteva ancora assistere a un ben strano corteo: era la transumanza dei bovini, ovvero la migrazione stagionale delle mandrie che, dagli alpeggi bergamaschi e bresciani, venivano a svernare nelle cascine della Bassa lombarda.
Questi abili allevatori seminomadi, specializzati nella lavorazione del latte, facevano quindi la spola tra le Alpi e il Po con il bestiame e le famiglie, e frequentemente non avevano una dimora fissa neppure nel paese natale.
Della loro spettacolare migrazione (sette-otto tappe, ciascuna di venti chilometri) si conserva il ricordo anche in provincia di Pavia e anzi in molti paesi vivono tuttora famiglie che appartengono a quella tradizione ma che oggi fanno altro: i Manzoni a Bascapè, Landriano e Santa Cristina; i Pretali a Landriano; gli Invernizzi a Marzano, Bascapè e Landriano. Ma anche in Lomellina. Come ricorda Antonia Maria Manzoni, classe 1938, in una testimonianza conservata al Centro studi Valle Imagna, «nel Quarantanove siamo andati nel Pavese, in una cascina situata alla periferia della città di Pavia, sulla strada per Broni. In seguito siamo stati a Carbonara Ticino, sempre alla periferia di Pavia, quindi in un’altra cascina del Pavese. Dal Cinquanta al Cinquantaquattro abbiamo vissuto a Ferrera Erbognone, pure in provincia di Pavia, e l’estate salivamo sempre a Monterone», prealpi orobiche, un paese che oggi, con i suoi 31 abitanti, è il comune più piccolo d’Italia: «siamo stati anche in provincia di Novara: dapprima in una cascina della frazione Fisrengo, poi alla periferia di quella città, vicino a Robbio. Con la nostra mandria (circa un centinaio di vacche e una quarantina di manze) non era sempre facile trovare una cascina così capiente da ospitarci per l’intera stagione invernale».

I bergamì

Li chiamavano bergamì, proprio come i mungitori provenienti quasi tutti dalle montagne e impiegati come ubligà nelle grandi cascine a corte lombarde. Trascorrevano l’inverno nelle piane presso Rovato, Cremona, Crema, Lodi, Pavia o Milano, percorrendo le valli alpine con i loro carri e il loro bestiame. A Ovest scendevano nel Vigevanasco e nel Novarese, passando però da Lecco.
Prima di svernare con i bovini al piano, scrive l’etnografo e linguista svizzero Paul Scheuermeier, «il capo, regiúr, scende a stipulare il contratto col proprietario del terreno sul quale intende svernare. Compra poi il fieno che si trova nei fienili, sotto le tettoie o ammucchiato in cumuli all’aperto, acquistando così il diritto a far pascolare gli animali per tutto l’inverno sui terreni dai quali proviene il fieno comprato. Il padrone dell’appezzamento, padrú, mette a disposizione del pastore le stalle per il bestiame, gli alloggi per i pastori, la cucina per fare il formaggio e inoltre, per ogni quintale di fieno comprato, 10 kg di mais per la polenta. A lui rimane invece tutto il letame» un concime biologico che vale oro, «però deve provvedere lui stesso a portarlo fuori dalla stalla e a rinnovare le lettiere».
Qualche bergamì si è poi risolto ad acquistare una cascina in pianura, rinunciando nel tempo all’alpeggio e divenendo agricoltore stanziale. A motivo del loro radicamento in alcuni paesi della Bassa lombarda.

Western padano

Questo affascinante tassello di storia sociale lombarda – che parte dagli altipiani del Resegone e arriva lungo l’asse del Po, dal Bresciano al Pavese e a volte sino a Cuneo e verso sud nell’Emilia – ci viene felicemente restituito in alcuni eccellenti approfondimenti locali. Ad esempio, in Monterone (2007, un ricco volume edito dal Centro Studi Valle Imagna), Luigi Formigoni, uno zootecnico, racconta che «gli uomini, con le loro famiglie dormivano sui carri come quelli del West americano», gli stessi che vediamo nelle foto scattate da Scheuermeier a Sant’Omobono, in Valle Imagna, il 27 settembre 1927. Sono carri, scrive Formigoni, «tirati da cavalle fattrici di tipo mesomorfo, atte anche al servizio a basto (esse erano infatti adibite anche al trasporto dei taleggi freschi, dalle casere dei pascoli a quelle di stagionatura), vi erano le caldaie per la coagulazione del latte, le forme dei taleggi lo spersore per lo spurgo ed i cassoni per il trasporto a dorso di cavallo dei taleggi freschi». Guidava la mandria «il giovane più sveglio della famiglia, che conosceva bene la strada, sapeva risolvere le questioni e le difficoltà che potevano insorgere lungo la strada e regolava la velocità della marcia. Egli portava il caratteristico camiciotto dei bergamini, gli zoccoli ferrati dalle larghe cinghie ed il bastone ricurvo per respingere nelle file le bovine più ardenti che volevano superare la magiùra, che portava la squillante campana di bronzo e guidava la colonna. Dietro di questi, in ordine, dovevano marciare le vacche, davanti le più vecchie, poi le giovenche, le manzette, le vitelle, i torelli; il toro adulto era tenuto a mano dal figlio più robusto, sotto la sorveglianza del padre che stava presso i carri, dove c’erano la moglie ed i bambini e chiudeva la colonna, assolvendo il difficile compito della retroguardia, che deve raccogliere i dispersi e incitare gli stanchi. Se c’erano ragazze, ed in genere non mancavano, marciavano a fianco della colonna aiutando il lavoro dei fratelli, perché le donne dei bergamini valgono come gli uomini. Un paio di cani da pastore di razza bergamasca di media taglia fiancheggiavano la colonna, tenendo riunite le bestie e sui pascoli aiutavano a custodire le mandrie delle vacche da latte e quella del manzolame, che pascolavano sempre separate. La mandria partiva al mattino presto, ma non tanto presto perché si doveva provvedere alla mungitura ed alla lavorazione del latte», ovvero a onorare con latte e formaggi quanto era dovuto per l’accoglienza e il foraggio nelle soste lungo il tragitto.

Patrimonio immateriale dell’umanità

Come nelle stalle padane, per questa mungitura strada facendo il bergamì stava seduto su uno sgabello a una o più gambe detto scagn, legato sulla vita con una cinghia di cuoio o una corda. Il secchio da mungitura un tempo era in legno, poi sostituito da quelli in lamiera di zinco, in latta smaltata, in alluminio oppure in rame. Erano di latta anche i recipienti per il trasporto al caseificio.
Antonio Carminati è il direttore del Centro Studi Valle Imagna. I bergamì, riferisce lo studioso, si ponevano «ai livelli più elevati della scala sociale dell’antico mondo contadino, in continuo movimento stagionale tra la montagna e la pianura, grandi camminatori di un tempo, allevatori di monte dotati di grandi aperture verso la realtà esterna, situata al di là della loro culla naturale circondata da crinali. Continue e affinate relazioni sociali hanno consentito loro di padroneggiare dovunque andassero, di cascina in cascina alla Bassa, di pascolo in pascolo sulle alture, con abilità e coraggio. Sono stati veri e propri imprenditori nel settore zoo-caseario, molti dei quali hanno dato origine a tradizioni economiche familiari di prim’ordine».
Esercitata per secoli, oggi la transumanza non è più praticata: le strade sono ormai una esclusiva degli autoveicoli, e quei pochi scendono a valle e poi tornano in alpeggio con i camion; ma dal 2019 essa è patrimonio culturale immateriale dell’umanità.

Come un confratello

23 settembre 2023 by

di Giovanni Giovannetti

Ieri sera è morto Giorgio Napolitano e stamane i giornali ne ripercorrono commossi le gesta.
Non tutte, parrebbe. Ad esempio, nessuno, proprio nessuno, ha ripreso le curiose pagine che su di lui ha scritto Gioele Magaldi in Massoni (Chiarelettere, 2014). L’autore è l’ex Maestro venerabile della loggia romana “Monte Sion” del Grande Oriente d’Italia, nonché un affiliato alla Ur-Lodge Thomas Paine (la più antica del mondo). Magaldi è ora alla guida del movimento massonico progressista Grande Oriente democratico (God) e può raccontare la Massoneria dall’interno.
Al dunque, nel 1978 il “migliorista” Giorgio Napolitano, su invito di alcune Università, può finalmente recarsi negli Stati uniti e prende accordi rimasti segreti. A quel viaggio, stando a Magaldi, parrebbe risalire l’affiliazione alla Massoneria (Ur-Lodge Three Eyes) del futuro presidente della Repubblica. Secondo Magaldi, l’affiliazione latomistica di Napolitano ha luogo a Washington. «Dopo una sorta di pre-iniziazione esperita nelle vicinanze della Yale University, a New Haven, Connecticut» Napolitano «fu cooptato dalla prestigiosa Ur-Lodge sovranazionale denominata Three Architects o Three Eyes appunto nell’aprile 1978, nel corso del suo primo viaggio negli Stati uniti».
Non è elegante rimarcarlo, ma per taluni la P2 di Licio Gelli era avviata a diventare il braccio armato in Italia proprio della Three Eyes.
Un altro storico dirigente dell’area migliorista del Partito comunista, Giorgio Amendola, sarebbe stato tra i confratelli euro-atlantici della Ur-Lodge Lux ad Orientem. Secondo Magaldi, Amendola lo avrebbe introdotto «direttamente il massone Zbigniew Brzezinski», consigliere per la sicurezza nazionale durante la presidenza Carter e uomo forte della politica americana e internazionale.
Magaldi sostiene infine che queste notizie sono contenute in «documenti delicatissimi appartenenti ad archivi privati», inaccessibili agli studiosi, messe a sua disposizione da «quattro fonti di ragguardevolissima importanza» nel firmamento massonico. L’autore avverte d’aver depositato i documenti comprovanti le affiliazioni presso alcuni studi notarili di Londra, Parigi e New York; e di essere autorizzato ad esibirli solo a fronte di contestazioni, limitatamente a ciò che servirà per sostenere l’azione di difesa.
Magaldi (e su di lui non sono piovute querele, solo minacce) aggiunge a questo elenco anche Massimo D’Alema, affiliato a suo dire alle Ur-Lodges (o club? vai a capire…) Pan Europe e Rosa-Stella Ventorum.

Sentite condoglianze.
G.

Cervelli in fuga

8 settembre 2023 by

La dipendenza dai social-network sta cambiando il nostro cervello
di Giovanni Giovannetti

Sbaglierò, ma non diversamente dalla diffusione pilotata delle droghe pesanti in Europa negli anni Settanta (è l’operazione Blue Moon) oppure dalla altrettanto concertata normalizzazione edonista e discotecara degli anni Settanta-Ottanta (il cosiddetto “riflusso”, decisamente meno odioso benché più sofisticato), nuovamente assistiamo a forme di “infantilizzazione” di larghe masse giovanili (e non solo) veicolate proprio dal linguaggio dei social-network, là dove l’attenzione è sovente catturata dal compulsivo “nulla cosmico” di certi influencer, youtuber, tiktoker

La droga del terzo millennio

Un portato involontario dei “rivoluzionari” nuovi media? Una sofisticata forma, narcotizzante, di controllo sociale? Recensendo Barbie di Greta Gerwig, Roberto Chiesi scrive che questo film «riflette le ansie, i dubbi, le angosce di quella generazione sfortunata che è nata plagiata dalla cultura della virtualità, nell’assenza di coscienza critica e di analisi, nel delirio digitale della vita autocostruita su misura nelle bolle dei social». Secondo Chiesi, «la virtualità non protegge, non aiuta, non educa», anzi rende ancora più sprovveduto, fragile, analfabeta e insicuro chi già lo è, legittimando «l’autoritarismo ottuso e pericoloso» insito nella sottocultura del cyberspazio.
Immersi in tanta schiuma, la realtà (emergenze climatiche, guerre, carestie, vecchie e nuove povertà…), che pure riguarda tutti, sembra non acchiappare più e nella comunicazione l’hanno spesso vinta gli “imbonitori” che, per quanto menzogneri, sanno ammaliare. Passino le narrazioni prosciugate – andare dritti al punto è una virtù – ma perché slegarle dai fatti?
La menzogna è ormai un’abitudine, uno scandalo che non scandalizza più nessuno né alimenta una qualche indignazione. A cosa è addebitabile una così marcata assuefazione? Intervistato da Filiberto Mayda, lo psichiatra pavese Maurizio Fea (autore fra l’altro di Le abitudini da cui piace dipendere, 2017) avverte che la dipendenza patologica dai social-network sta «cambiando il nostro cervello, in qualche modo scrivendo nuovi comportamenti nel nostro patrimonio genetico» mediante processi di semplificazione rapidi e impulsivi capaci di produrre dipendenze avvicinabili, da un punto di vista neurobiologico, a quelle indotte dalle ludopatie, dalla cocaina e dall’eroina: «Naturalmente il farmaco entra subito dentro l’organismo, ha un’azione immediata. Per la dipendenza dalle abitudini, invece, i tempi sono più lunghi. Ma alla fine il meccanismo è lo stesso, con la necessità di incrementare le dosi per mantenere la soddisfazione».

Cervelli in fuga

In iGen (2017) la sociologa statunitense Jean M. Twenge sostiene che gli smartphone e i social-media avrebbero prosciugato le capacità mentali di una generazione, quella nata tra il 1995 e il 2012 (la prima generazione iper-connessa), incentivando comportamenti quali l’individualismo, l’assenza di ribellione e ridotte interazioni sociali, anche di tipo sessuale, diventando così fonte di infelicità e disadattamento. La questione è controversa, ma c’è di che riflettere.
Si è poi rilevato che v’è chi nel cyberspazio trova un rifugio mentale transitorio, quella dimensione parallela in cui si perdono la memoria e il senso della realtà, un territorio in cui si è fuori da sé stessi e dall’ambiente circostante (in Italia riguarda il 6 per cento dei circa 36 milioni di fruitori: più di 2 milioni di persone). Tali condotte psicopatologiche, dicono gli esperti, hanno in comune la dipendenza, la depressione, trance dissociativa e fenomeni psicotici da abuso online acuto. Ebbene, i quattro quinti di costoro, i più colpiti, hanno un’età compresa tra gli 11 e i 22 anni, quasi 2 milioni di ragazze e ragazzi, ragazzine e ragazzini lì a chattare, lontani dal mondo fisico, anche per 18 ore filate al giorno!
In prefazione a Presi nella rete della psicoterapeuta statunitense Kimberly Young (2000; Young considera la Rete «la dipendenza del terzo millennio») Tonino Cantelmi scrive che «Internet non solo consente una paradisiaca fuga dalla propria realtà, ma permette anche una sorta di intensa eccitazione con la possibilità di provare nuove ed incontrollate emozioni, connesse con il superamento di ogni limite personale e spazio-temporale. Probabilmente il rischio psicopatologico connesso ad Internet deriva dalle stesse caratteristiche multimediali della Rete, che consentono al soggetto di sperimentare una sorta di condizione di onnipotenza, nonché di esplorare differenti aspetti del Sé». Questo avvitamento mentale va a gravare sulle regioni del cervello che governano le emozioni, l’attenzione e i processi decisionali. Proprio come succede a chi si fa. E difatti Cantelmi ne avvicina gli effetti «ai “viaggi” paradisiaci consentiti da alcune droghe. In questo senso la trappola seducente del cyberspazio cattura soprattutto individui insicuri, insoddisfatti o adolescenti problematici».
Per lo psichiatra rimane tuttavia aperta una questione di fondo, la più inquietante: «la psicopatologia online indotta (dipendenza, depressione, trance dissociativa) riguarda solo persone con problematiche psicopatologiche o la Rete possiede, per cosi dire, una speciale carica mutagenica, potenzialmente psicopatologica?» Secondo Cantelmi, è «possibile evidenziare una sorta di potenzialità psicopatologica propria della Rete e persino un percorso verso la retomania, costituito da una fase iniziale (attenzione ossessiva per la mail-box, periodo di lurker, polarizzazione ideo-affettiva sui temi inerenti la Rete), una fase tossicofila (progressivo incremento del tempo di permanenza in Rete, sensazione di malessere quando si è off-line, partecipazione intensa a chat ed a gruppi di discussione, collegamenti in ore notturne con perdita di sonno) ed una fase finale, sicuramente più difficile da raggiungere per ora in Italia e correlata a fenomeni psicopatologici, definibile come tossicomanica (caratterizzata da collegamenti così prolungati da determinare una sorta di compromissione della vita relazionale, sociale e professionale)».
Sono spunti che meriterebbero un qualche approfondimento, ne siamo consapevoli, ma non può essere questa la sede per una più larga analisi della realtà virtuale come anestetico delle conflittualità. Altri, è da credere, lo faranno.

4 settembre 1944. Bombe “amiche” su Pavia

31 agosto 2023 by

di Giovanni Giovannetti

pavia 4 settembre 1944

Il 4 settembre 1944 è una data che segna come poche altre la storia di Pavia. Quella mattina, ore 10:30, a ondate successive cinquanta bombardieri leggeri B-25 Mitchell degli Stati uniti, 321° Bomber Group, partiti dalla Corsica, attaccano la città: colpiti l’antico Ponte coperto, il ponte della ferrovia e il ponte dell’Impero. Altre incursioni il giorno dopo (viene attaccato anche il ponte della Becca sul Po) e il 12, il 23 e il 26 settembre, le ultime due compiute da aerei B-26 Marauder francesi.
La città è senza copertura antiaerea. Molte bombe vanno fuori bersaglio e cadono sulle case del Borgo Ticino e presso Porta Salara; le vittime sono 119, con più di tremila sinistrati in città. Il 23 agosto 1944 bombe erano cadute su Voghera (79 morti); il 14 settembre è colpito il ponte sul Ticino a Vigevano (13 morti); il 13 dicembre una incursione aerea ferisce Binasco, con oltre 20 morti. La mattina del 30 gennaio 1945, a Badile, una corriera carica di pendolari viene presa di mira dagli Alleati: i morti sono cento.
Un sedicenne destinato a fare strada, Mino Milani, assiste al bombardamento pavese e ricorda quei drammatici momenti: dagli aerei «sparavano su qualsiasi cosa si muovesse; più di un carro a cavalli venne fatto a pezzi. Era divenuto pericoloso anche andare in bicicletta e tuttavia non si riusciva ad odiare quelli che, da lassù, sparavano e uccidevano. Era la guerra, e c’era altra gente da odiare».
Come dargli torto: basti ricordare che il giorno successivo, 5 settembre, Teresio Olivelli è fra i 432 deportati del “trasporto 81” diretto a Flossenbürg e in altri campi di morte tedeschi. Il primo “trasporto” aveva varcato il Brennero il 16 settembre 1943; l’ultimo, il numero 123, il 22 marzo 1945, Dei 432 deportati con il “trasporto 81” in 320, tre su quattro, non faranno ritorno.

Fuoco amico

Ma perché bombardano Pavia? Colpite le infrastrutture così da complicare la vita alle forze nazifasciste, ma alcune bombe cadono anche 400 metri più in là. Perché non si bada alla sorte dei civili? Qualcuno obietterebbe che in fondo tedeschi e italiani (pavesi inclusi) se l’erano cercata: come dimenticare gli eccidi, criminali e terroristici, compiuti dalla Regia aeronautica italiana sulla città basca di Durango il 31 marzo 1937 (morti 289 civili) e su Barcellona in Catalogna tra il 16 e il 18 marzo 1938 (670 morti) durante la Guerra civile spagnola. A sommarsi con l’attacco italo-tedesco del 26 aprile 1937 a Guernica (quattro settimane dopo la strage di Durango), a torto ritenuto il primo atto di terrore dal cielo deliberatamente compiuto contro la popolazione civile (il primo bombardamento terroristico è francese: su Friburgo il 4 dicembre 1914; agli italiani spetta però il triste primato storico del primo bombardamento aereo, operato in Libia nel 1911).
Se dal cielo i tedeschi massacrano criminalmente uomini donne bambini (ci limiteremo qui al ricordo dei 43mila civili inglesi morti per le bombe tedesche, 20mila nella sola Londra), inglesi e americani non sono da meno e così le maggiori città tedesche verranno rase al suolo, provocando 635mila morti civili e 10 milioni di senzatetto.
In Italia gli Alleati bombardano Roma (3000 morti), Milano (2000 i morti), Napoli (più di 5000 morti), Torino (2000 le vittime), Genova, Bari, Palermo, Messina e una moltitudine di città minori, tra cui Pavia. In Italia, i civili caduti sotto le bombe Alleate sono 20mila tra il 1940 e l’armistizio del 1943, e almeno 43mila dall’8 settembre in poi. Ma sono cifre per difetto.

Crimini contro l’umanità

E se, stando all’Onu, un anno e mezzo di guerra in Ucraina ha visto morire poco meno di ottomila civili (per la precisione 7710, tanti quanti tra il 1943 e il 1945 ne uccidono i bombardieri amici nelle sole città di Roma e Napoli), il 6 e l’8 agosto 1945 in un nanosecondo due bombe atomiche made in Usa ammazzano più di 200mila giapponesi; e pure “inutilmente”, poiché il destino di quel conflitto era ormai segnato. Ma già si era in clima di “guerra fredda” e il “messaggio” non era rivolto all’imperatore giapponese Hirohito; semmai a Stalin e ai propositi sovietici di subentrare al Giappone, prima in Manciuria – vedi il caso attaccata proprio quell’8 agosto – poi chissà.
La seconda missione atomica sul Giappone ha poi del paradossale: l’aereo americano B-29 avrebbe voluto colpire la città di Kokura, ma visto il tempo avverso optano per Nagasaki, che dunque è un ripiego. Co-pilota di quella impresa era il tenente Fred Olivi, un paisà originario di Corsanico, entroterra della Versilia.

A Pavia farà più danno il dopoguerra

Ciò che non poté la guerra lo farà il dopoguerra. A Pavia gli angloamericani avevano bombardato case, civili e soprattutto infrastrutture: nodi stradali come la statale dei Giovi; fabbriche come la Necchi Campiglio; stazioni e linee ferroviarie. E quindi i ponti sul Ticino. Anche l’antico ponte coperto che stava lì dal 1354.
Era tuttavia recuperabile. Invece di ripristinarlo (mantenendolo pedonale e magari costruendone uno nuovo più a valle, dove ora passa il metanodotto), per opinabilissimi motivi economici (un finanziamento statale e altre considerazioni idrauliche e viabilistiche) verrà adottata l’attuale soluzione camionabile, che per decenni ha portato il traffico ad accalcarsi lungo il Cardo cittadino. Così che Pavia ora dispone di un ponte medievale in meno e di molti problemi alla viabilità in più.
Non di meno in quegli anni assistiamo all’assurdo sventramento del centro storico: in Strada Nuova, in piazza Grande e sul Lungoticino Visconti; e ancora: in corso Mazzini, in piazza Emanuele Filiberto, in corso Cairoli ecc. molti edifici storici cadono «come birilli». L’abbattimento del primo – disse entusiasta l’assessore ai Lavori pubblici del tempo, l’avvocato liberale e costruttore in proprio Davide Pedrazzini – «produrrà inevitabilmente la caduta degli altri».
L’assessore stava presiedendo la commissione di studio sul nuovo Prg, il cosiddetto “Piano Dodi” (dal nome dell’arch. Luigi Dodi, un consulente esterno), adottato dal Consiglio comunale nell’aprile 1956. Immaginando una improbabile città per oltre 175mila abitanti, il “Piano Dodi” annunciava 39 ettari di costruzioni semintensive (60mila metri cubi per ettaro) e 200 ettari di costruzioni residenziali estensive (30mila metri cubi per ettaro), per un totale di 8.340.000 metri cubi di edificato! oltre a 57 ettari per zone miste aperte all’edilizia residenziale e 460 ettari a destinazione industriale. Tra le folkloristiche proposte in esso contenute, desta oggi un amaro sorriso quella di trasformare i corsi d’acqua della Vernavola e del Navigliaccio in collettori fognari coperti…
All’epoca – valeva ancora il Regolamento edilizio del 1934, che in molti casi ha permesso di costruire in deroga al Piano regolatore generale – bastava accordarsi con il Comune: così venne distrutto il trecentesco edificio tra corso Cavour, via Beccaria e via Bussolaro; distrutto il medievale isolato del Demetrio; sono clandestinamente demolite le presenze coeve dell’edificio neoclassico sul lato nord di piazza Grande. Insomma, il “sacco” cittadino è devastante, ben più oneroso – vite umane a parte – dei guasti procurati dai bombardamenti “alleati” del settembre 1944.

La grande famiglia dei cantastorie pavesi

21 agosto 2023 by

di Giovanni Giovannetti

trio sax

Così Francesco Guccini ricorda Adriano Callegari e i coniugi Angelo e Vincenzina Cavallini nel Dizionario delle cose perdute (2012): «Iniziavano l’imbonimento presentando un fatto, il caso di Ermanno Lavorini, il bambino ucciso nella pineta di Viareggio nel 1969. “ma” diceva Callegari “non voglio che poi si dica che speculiamo su questa tragedia che ha commosso tante persone, non venderemo niente, lo facciamo solo per ricordare quel povero bambino”. Partivano gli strumenti, poi cominciava la canzone, ma, alla fine della prima strofa, Callegari interrompeva l’esecuzione con un gesto plateale. “Basta, ho visto tante mamme e tanti papà piangere, anch’io che sono padre (non era vero) so cosa vuol dire; basta, non possiamo continuare”. La verità è che la canzone non esisteva, esisteva soltanto la prima strofa, ma intanto la gente si era intenerita e ben disposta verso la sensibilità dei cantastorie».
E ancora: «…a un certo punto Callegari si fermava e guardando in mezzo al pubblico diceva: “no, signore (o signora), ho sentito quello che ha detto al suo bambino: ‘Vieni, andiamo via che questi sono dei ladri, degli imbroglioni’. no, è inutile che neghi, ho sentito benissimo, ma voglio dirle che noi non siamo né ladri né imbroglioni, siamo poveri e onesti lavoratori che cercano di guadagnarsi da vivere onestamente” eccetera eccetera. ma poiché buona parte della gente aveva effettivamente pensato che fossero ladri o imbroglioni, lui era riuscito a ribaltare la frittata e a instillare nel pubblico il senso di colpa».

In famiglia tutti cantastorie

Ho incontrato Adriano Callegari nel 1982, Abitava in una villetta monofamiliare nei pressi della stazione di Pavia: «Mio padre Agostino faceva il cantastorie anche lui. Era nato a San martino Siccomario, a due passi da Pavia, e ha quasi sempre fatto il cantastorie solista, ha sempre lavorato da solo. mia madre, Martinelli Oliva, era nata a Casale Monferrato in Piemonte, e per i cantastorie era qualcosa di grande, e tutti la conoscevano almeno di nome. Mio padre era figlio di contadini e faceva il mungitore. Il mestiere di cantastorie lo ha imparato da un certo Montagna di Pavia, subito dopo la prima Guerra mondiale. Con lui è stato solo qualche mese, due o tre, e poi si è messo a girare in tutta l’Italia del nord, diventando molto famoso, tanto che poi lo hanno definito “il Fausto Coppi dei cantastorie”.
«Una volta i cantastorie vendevano solo il foglio volante con su stampato il testo di una canzone, che raccontava un fatto, una storia veramente accaduta. Il primo giornalismo è nato con i cantastorie. mettiamo che nel Cinquecento o nel Seicento a Pavia ci fosse un’acqua miracolosa che faceva guarire i ciechi. Il cantastorie partiva col suo asinello – che se aveva un asino era già attrezzatissimo – e magari un anno dopo arrivava in Sicilia e portava la notizia dell’acqua miracolosa. I cantastorie sono stati i primi giornalisti del mondo; e questa è la pura verità, perché noi non abbiamo ingannato mai nessuno – imbrogliati tanti, ma ingannati mai».

A Pavia c’era il Tenti

Chi altro a Pavia praticava il mestiere del cantastorie ai tempi di suo padre? «A Pavia c’era Pietro Tenti di Pavia, che è morto nel 1982 a novantadue anni. Questo Tenti era un bravissimo cantastorie anche lui. Era emigrato in Francia, faceva uno spettacolo sul tipo dei café chantant. Parlava molto bene due lingue: il francese e il tedesco; suonava bene, un bel musicista. Poi è rientrato in Italia, anche lui ha visto mio padre al lavoro, e lo ha copiato. mio padre lo riforniva di fogli, di stampati, di volantini con la storia. E fra mio padre e il Tenti c’era sempre un po’ di concorrenza, di rivalità, perché eran bravi tutti e due. Suonava bene uno e suonava bene l’altro, non avevan paura, lo strumento lo conoscevano bene. Come voce mio padre forse era più potente, più rotondo, ma il tenti non era disprezzabile, era bravissimo. Era un bravo cantastorie, il Tenti; era nato a Zerbolò. Suonava molto bene la fisarmonica, come i suoi fratelli che l’avevano studiata con lui».
«Pietro Tenti è stato il maestro di Cavallini Antonio di Tromello, il padre di Angelo, che è stato molti anni con me. Antonio vendeva il vino, ora è morto. Ferrari Antonio di Mornico Losana, anche lui fisarmonicista, è stato il più grande allievo di mio padre. Era un bel musicista, un cantastorie sentimentale: tutto il contrario di Peppino Bollani di Corteolona, un altro che ha imparato da mio padre. Come fisarmonicista era povero, ma di malizia ne aveva tanta. Mi ricordo che sapeva suonare la fisarmonica solo in fa, do e sol. Quando è uscita Serenata a Vallechiara, per eseguirla bisognava cambiare tonalità – allora il cantastorie era anche canzonettista – e lui faceva la prima parte in do. La seconda parte passava in la e per lui era difficile. Allora si fermava, raccontava una barzelletta molto spinta e poi rifaceva il ritornello ancora in do».

Fine del viaggio

Nel maggio 1982 Adriano Callegari ha smesso di fare il cantastorie, «perché ho una certa età e mi sentivo in diritto di smettere. Ormai era diventato un problema. La penultima volta che mi hanno mandato via era il mese di marzo, che poi a maggio ho chiuso il discorso. Ero a Forlimpopoli, in provincia di Forlì. La guardia m’ha detto: “niente cantastorie”. Ma se son nati i cantastorie a Forlì! C’era una grande festa, la Segavecchia, di metà quaresima, e non ci han lasciato. Dice: “Lei si metta in lista, facci domanda…” Ma che domanda vuoi fare? Allora ho smesso».

12 (fine)