di Carla Benedetti e Giovanni Giovannetti
Era nato il 5 marzo 1922, dunque oggi avremmo festeggiato il suo novantesimo compleanno. Cosa avrebbe detto Pasolini del tracimante ‘sacco’ del territorio? O di quanto è cronaca in Val di Susa? E del berlusconismo? Dell’ideologia edonistica come strumento subliminale del controllo sociale e dei nuovi modelli di consumo? Il «piacere di consumare, l’essere felici in quanto consumatori» era un suo motivo di fondo nei periodici interventi giornalistici di critica corsara e luterana alla progressiva restaurazione in corso, ben prima di Tangentopoli e la coda lunga dello stragismo fascista mafioso e di Stato, ben prima dunque che fosse emerso prepotentemente l’indistinto e perverso intreccio tra politica criminalità e affari. Pasolini ci manca. Manca all’Italia. Lo voglio ricordare riproponendo Come corsari sulla filibusta, saggio-inchiesta scritto insieme a Carla Benedetti sui possibili scenari e mandanti della sua morte violenta. (G. G.)
Nel 1972 arriva in libreria Questo è Cefis. L’altra faccia dell’onorato presidente di Giorgio Steimetz, una quasi biografia – non autorizzata – del presidente di Eni e Montedison, pubblicata dall’Agenzia Milano Informazioni di Corrado Ragozzino, di cui Steimetz è forse l’alter ego. L’agenzia è finanziata da Graziano Verzotto, democristiano della corrente dorotea di Mariano Rumor, uomo di Enrico Mattei ed ex presidente dell’Ente minerario siciliano. Fu anche l’informatore di Mauro De Mauro, il giornalista de “l’Ora” di Palermo rapito e ucciso dalla mafia nel 1970. Così come era accaduto a Mattei sette anni prima. Così come accadrà a Pier Paolo Pasolini cinque anni dopo.
Questo è Cefis vive solo pochi mesi, poi scompare. Dalle due sedi della Biblioteca Nazionale Centrale spariscono anche le copie d’obbligo: «a ridosso della pubblicazione, gli uomini della Montedison si mossero efficacemente per toglierne dal mercato il maggior numero di copie possibile e scongiurare al Presidente l’eventualità di un’inchiesta giudiziaria» (Riccardo Antoniani, Contro tutto questo – saggio inedito).
Il libro, probabilmente pubblicato con l’intento di avvertimento o di minaccia nei confronti di Cefis, racconta la spregiudicata avventura di uno dei timonieri del pubblico-privato, la mescolanza di poteri tra Stato e le mafie sommerse economico-finanziarie.
Pier Paolo Pasolini sta lavorando in quegli anni sugli stessi temi e, forse, sta utilizzando le stesse fonti. Proprio nel 1972 comincia a scrivere Petrolio, il grande romanzo incompiuto, che sarebbe stato pubblicato postumo solo nel 1992, diciassette anni dopo la sua morte. Un romanzo del quale la critica ha spesso enfatizzato l’aspetto erotico – la doppia vita di un ingegnere petrolchimico – mentre il suo vero tema è il Potere. È un romanzo che cerca di rendere visibile il Potere in tutte le sue forme, attraverso “Visioni” (come si legge in Petrolio: «Il potere è sempre, come si dice in Italia, machiavellico: cioè realistico. Esso esclude dalla sua prassi tutto ciò che può venir ‘conosciuto’ attraverso Visioni» p. 461). Vi si parla del Nuovo potere che agisce sugli individui in forme capillari, attraverso imposizione di modelli, e che raggiunge anche i loro corpi. Vi si parla della banalità del potere, quella che agisce attraverso la «col-lusione» innocente (dove “innocente” sta per “nascosto alla coscienza”) degli individui, degli intellettuali, persino dei letterati, nel loro desiderio di carriera. Vi si parla anche del potere delle trame, quelle destinate a restare segrete. E anche di quello delle stragi. Si parla persino di una bomba fatta scoppiare alla stazione di Bologna («La bomba è fatta scoppiare: un centinaio di persone muoiono, i loro cadaveri restano sparsi e ammucchiati in un mare di sangue che inonda, tra brandelli di carne, banchine e binari. […] La bomba viene messa alla stazione di Bologna. La strage viene descritta come una “Visione”» pp. 542 e 546) – quasi una profezia di quella che davvero sarebbe scoppiata il 2 agosto 1980. Si parla anche dell’Eni, che Pasolini non considera solo un’azienda ma «un topos del potere». E ovviamente della morte di Mattei.
Non potevano del resto mancare questi ingredienti in un libro intitolato Petrolio, l’odierno Vello d’Oro, per il quale si fanno guerre e viaggi in Oriente, come li fece Mattei, come un tempo li fece Giasone con gli Argonauti (altro tema del libro). Vi si trova quindi – come scrive Gianni D’Elia nel suo Petrolio delle stragi – anche il «rapporto terribile tra economia e politica, le bombe fasciste e di Stato, la struttura segreta delle società “brulicanti”, come i loro nomi, in beffardi acronimi».
Le fonti di Petrolio
L’introvabile libro di Steimetz è stato una delle fonti di Petrolio, da cui Pasolini riprende dati e notizie relative all’Eni e a Cefis, e a volte anche intere frasi. Ma ad accorgersene non è stato un filologo bensì un magistrato, il sostituto Procuratore pavese Vincenzo Calia, mentre stava svolgendo una nuova inchiesta sull’omicidio di Mattei. L’aereo del presidente dell’Eni, in volo tra Catania e Milano, precipitò infatti la sera del 27 ottobre 1962, nella campagna di Bascapè, presso Pavia. La procura di Pavia aveva già svolto anni prima un’inchiesta su quella morte, che però si era conclusa con una sentenza di «non luogo a procedere, perché i fatti non sussistono», avendo attribuito la caduta dell’aereo a un incidente, dovuto all’errore del pilota Irnerio Bertuzzi (la prima inchiesta, condotta dal pm pavese Edgardo Santachiara, si era conclusa il 31 marzo 1966). Calia riapre l’inchiesta il 20 settembre 1994, sulla base di nuovi fatti, e la conclude il 20 febbraio 2003 con una Richiesta di archiviazione.
Calia legge Petrolio, titolo irresistibile per un magistrato immerso nell’indagine sulla morte del presidente dell’Eni e vi trova una sorprendente coincidenza. Venticinque anni prima di lui, Pasolini era giunto alla stessa ipotesi a cui lo stava ora portando la sua lunga indagine: Mattei fu eliminato da un’oscura regia politico-istituzionale interna all’Italia, di cui Cefis teneva le fila. Ecco cosa scriveva Pasolini in uno schema riassuntivo di Petrolio intitolato Storia del petrolio e retroscena: «In questo preciso momento storico (I° BLOCCO POLITICO) Troya sta per essere fatto presidente dell’Eni: e ciò implica la soppressione del suo predecessore (caso Mattei, cronologicamente spostato in avanti)» (Appunti 20-30. Storia del problema del petrolio e retroscena, p. 118).
Calia commenta alcune pagine di Petrolio nella sua Richiesta di archiviazione. E per primo coglie le analogie tra Questo è Cefise il romanzo di Pasolini, collegando tra loro i fili di questa intricata matassa. Fatica però a reperire il libro di Steimetz. Non sa che una fotocopia si può trovare al Gabinetto Vieusseux di Firenze (cartella V (Materiali Vari), proprio tra le carte di Pasolini, il quale a sua volta l’aveva ricevuta nel settembre 1974 da Elvio Fachinelli, psicoanalista e animatore della rivista “L’Erba Voglio”. Nella cartella dell’Archivio si conserva anche la lettera di Fachinelli a Pasolini, datata 20 settembre 1974: «Caro Pasolini, le faccio avere una conferenza di Cefis e una fotocopia del libro su di lui, ritirato. Forse le possono servire».
La “conferenza” di cui parla Fachinelli è il testo del discorso tenuto da Eugenio Cefis all’Accademia militare di Modena il 23 febbraio 1972 (pubblicato sulla rivista “L’Erba Voglio”, n. 6). Pasolini si riproponeva di inserirlo integralmente nel romanzo, a mo’ di cerniera «a dividere in due parti il romanzo in modo perfettamente simmetrico e esplicito» (Appunti 20-30. Storia del problema del petrolio e retroscena, in Petrolio, p. 118).
Nonostante le comuni sintonie, Pasolini e Fachinelli non si conobbero mai di persona. Lo riferisce Riccardo Antoniani: «A partire dal gennaio del ’74, Fachinelli scrisse diverse volte a Pasolini. Anche in virtù di quel comune muovere «da un’estrema sinistra non ancora definita e certo ancora non facilmente definibile» in cui si inseriva il discorso sulle pratiche non-autoritarie da lui condotto fino allora insieme a Lea Melandri sull’“Erba Voglio”. Fu in questa rivista che venne pubblicato il celebre discorso La mia patria si chiama multinazionale tenuto da Eugenio Cefis all’Accademia militare di Modena nel 1972. Che con quelle parole rivolte a un pubblico di militari, in quell’accademia dove una volta fu cadetto, Cefis lasciasse presagire «un tintinnio di sciabole», come sostenne il Generale Folde alla commissione Anslemi, è fuori dubbio. In sostanza veniva invocata una riforma costituzionale orientata a un presidenzialismo autoritario, per cui di fatto si sarebbe precluso al Pci qualsiasi aspettativa di governo: il golpe bianco. Come e dove Fachinelli riuscisse a procurasi i discorsi, anche quelli non pronunciati, dell’allora presidente della Montedison rimane ancora un mistero. Fatto sta che tentò di coinvolgere Pasolini nel progetto di un libro di “pronto intervento” su Cefis e il Nuovo Potere a cui il poeta avrebbe dovuto contribuire analizzando e recensendo alcuni di questi testi. Fu così che Pasolini entrò in possesso dei tre discorsi di Cefis e di una fotocopia del libro di Giorgio Steimetz Questo è Cefis».
Petrolio non è scritto come lo sono normalmente i romanzi. Non c’è un narratore che racconta una storia, ma un autore che costruisce man mano il progetto di un romanzo da farsi, accumulando una serie di “Appunti”. Ed è in questa forma che Pasolini pensava di pubblicarlo. Egli aveva del resto già sperimentato questa peculiare forma-progetto in opere cinematografiche come Appunti per un film sull’India e Appunti per un’Orestiade africana. E anche nella Divina Mimesis, data alle stampe poco prima della morte (che si finge l’edizione di un manoscritto ritrovato, il cui autore è morto, «ucciso a colpi di bastone, a Palermo, l’anno scorso» (La divina Mimesis, Einaudi 1975, p. 61). Questa struttura gli consente una grande libertà di scrittura e la possibilità di inserire, in fasi successive, materiali eterogenei, anche non letterari, presi dalla cronaca o da altro.
Ma una domenica pomeriggio, sopra una bancarella di testi usati, la fortuna incontra Calia, e Calia il libro. Finalmente ne può fare una comparazione con Petrolio – funzionale alle sue indagini – e ne espone i risultati in una nota a margine della Richiesta di archiviazione (nota 1290, p. 416).
Anche Pier Paolo Pasolini (ucciso a Ostia il 2 novembre 1975) aveva dunque avanzato in Petrolio sospetti sulla morte di Mattei, alludendo a responsabilità di Cefis. Pur nella frammentaria stesura del romanzo incompiuto tali allusioni sono chiaramente rintracciabili. Il personaggio chiamato Troya non può che mascherare Eugenio Cefis («Aldo Troya, vice presidente dell’Eni, è destinato a diventare uno dei personaggi chiave della nostra storia» (Appunto 20. Carlo – come in un romanzo di Sterne – lasciato nell’atto di andare a un Ricevimento, p.90), mentre Bonocore è lo stesso Mattei. La descrizione che Pasolini fa di Troya è del resto non solo inequivocabile, ma anche tale da rivelare la fonte usata: si tratta appunto di Questo è Cefis: «Lui, Troya, è un uomo sui cinquant’anni […]. La prima cosa che colpisce in lui è il sorriso. […] un sorriso di complicità, quasi ammiccante: è decisamente un sorriso colpevole. Con esso Troya pare voler dire a chi lo guarda che lui lo sa bene che chi lo guarda lo considera un uomo abbietto e ambizioso, capace di tutto […] Il linguaggio con cui egli si esprimeva era la sua attività, perciò io, per interpretarlo, dovrei essere un mercialista oltre che un detective. Mi sono arrangiato, ed ecco cosa sono venuto a sapere.[…] Troya emigrato a Milano nel 1943, fu colto non inaspettatamente impreparato alle proprie scelte, a quanto pare, dalla fine del fascismo e dall’inizio della Resistenza. Partecipò infatti alla Resistenza […]. Il capo di quella formazione partigiana era l’attuale presidente dell’Eni, Ernesto Bonocore. […] le madri: una certa Pinetta Sprìngolo di Sacile, per Troya, e una certa Rosa Bonali, di Bescapè per Bonocore. […] La cosa che vorrei sottolineare è la seguente: Troya nella formazione partigiana era secondo. E la cosa pareva gli si addicesse magnificamente fin da allora. […]. Sarebbe troppo lungo, e per me, poi, impossibile, seguire tutta la lenta storia (due decenni) di questa accumulazione e di questa espansione. Mi limiterò dunque a dare un panorama, […]. Dunque, Troya è attualmente vicepresidente dell’Eni. Ma questa non è che una posizione ufficiale, premessa per un ulteriore balzo in avanti dovuto non tanto a una volontà ambiziosa quanto all’accumularsi oggettivo e massiccio delle forze guidate da tale volontà. La vera potenza di Troya è per ora nel suo impero privato, se queste distinzioni sono possibili. Troya ha da sempre coerentemente agito sotto il segno del Misto. Dunque non c’è mia reale soluzione di continuità tra ciò che è suo e ciò che è pubblico […] L’altro fondamento primo dell’impero di Troya era la Società Immobiliari e Partecipazioni (?), intestata a Amelia Gervasoni [….] sorella della moglie di Troya» (Appunto 22. Il cosiddetto impero dei Troya: lui, Troya, pp. 94-98).
Pasolini elenca una lunga serie di società tra loro collegate, amministrate da persone riconducibili al vice presidente dell’Eni. Come scopre Calia, si tratta di alcune delle società elencate da Giorgio Steimetz in Questo è Cefis: i cui nomi sono stati sostituiti da Pasolini con altri, ma assonanti. Ad esempio, alla “Immobiliari e Partecipazioni” di Pasolini, corrisponde la In.Im.Par. (Iniziative Partecipazioni Immobiliari) di Steimetz. Alla “Spiritcasauno” e “Spiritcasadieci” di Pasolini, che devono il nome «al fatto che presentemente Carlo Troya abitava in via di Santo Spirito, a Milano» (Calia), corrispondono, nella realtà, la Chioscasauno e Chioscasadieci, così chiamate perché Eugenio Cefis abitava in via Chiossetto a Milano. Steimetz cita la Ge.Da., poi Pro.De. (Profili Demografici s.p.a.), Da.Ma. (Data Management s.p.a.) e System-Italia (la stessa società che aveva assunto la figlia del contadino Mario Ronchi di Bascapé), e Pasolini le elenca con acronimi assonanti: «Un anno dopo la “Am.Da.” viene incorporata dalla “Li.De.” (Lineamenti Demografici Spa), con oggetto “stampa e spedizione di lettere e corrispondenze, formazione di schedari ecc.”. […] Qualcosa insomma, tecnicamente, come un piccolo Sid […]. Poi la ‘Li.De.’ si trasferisce (appunto) a Roma […]. E la società prende il nome di “Da.Off.”, Data Office Spa. Ma per poco, perché ben presto […] la società si richiama di nuovo “Am.Da.”. E a questo punto […] la società ampliandosi, espandendosi, prende il definitivo nome di “Pattern italiana”[…]» (Appunto 22c. Il cosiddetto impero dei Troya: la ramificazione più importante del fratello Quirino, p. 104).
E così con le altre società, immobiliari, petrolifere, metanifere, finanziarie, del legno, della plastica. della pubblicità, televisive, ecc.
Tutto questo viene notato da Calia, dando così una preziosa indicazione anche per la ricerca critica e filologica sulle fonti di Petrolio. Una più accurata comparazione tra i due testi è stata poi condotta da Silvia De Laude, che ne fornisce con grande precisione i risultati nelle Note all’edizione di Petrolio del 2005, da lei curata (pp. 595-615). La studiosa mostra che Pasolini riprende quasi testualmente da Questo è Cefis «ampi estratti nella sezione su Aldo Troya e il suo “impero” (Appunti 22, 22a, 22b, 22c, 22d)». Ad esempio, Steimetz scrive:
Edito dalla Nuova Editoriale S.p.A., l’“Avvenire” esce regolarmente a Milano ed è nato, come tutti sanno, dalla fusione tra il quotidiano cattolico bolognese e il confratello ambrosiano. […] Comunque sia, il quotidiano gode di particolare simpatia pubblicitaria Eni. […] Gli stipendi, rispetto alle tabelle e alle medie dell’ambiente, risultano eccellenti, abbastanza da far scattare d’invidia sottile il cast del “Corriere” dei Crespi. Non si è badato a spese per l’aumento delle pagine, delle rubriche dei servizi […] si sono ingaggiati – per un organo in precedenza clericale e codino – giornalisti del “Corriere” (Vice redattore capo dei servizi sportivi); […] redattori dell’Ansa e di “Panorama” […] l’ex direttore della giovanile e leggera rivista “Ciao Big”; alla cronaca nera, nientemeno che l’ex direttore di “Kent”, l’elegantissimo e frivolo mensile per uomini (soli); ancora, l’ex redattore capo di quello che fu per qualche tempo l’ignobile “Abc”; nonché l’ex diretore di “Sì”, rampollo di “Abc”.
Pasolini così lo riscrive in Petrolio:
Per esempio, edito dalla Nuova Editoriale Italiana Spa, usciva a Milano nuovo “Avvenire”, nato dalla fusione tra il quotidiano cattolico bolognese e l’omonimo quotidiano lombardo. L’Eni aveva una particolare predilezione per questo giornale, che non si limitava a pregi pubblicitari. Gli stipendi dei redattori e dei collaboratori vennero talmente aumentati da suscitare l’invidia del “Corriere della Sera”; vennero aumentate le pagine, le rubriche, i servizi, ecc. Si ingaggiarono addirittura dei giornalisti del “Corriere” – per esempio il viceredattore capo dei servizi sportivi – insieme ai redattori dell’Ansa e di “Panorama”; per non parlare di altri personaggi più eccentrici, come per esempio l’ex direttore di “Ciao Big”, l’ex direttore del mensile per uomini soli “Kent”, l’ex direttore di “Sì” (figliazione di “Abc”) e l’ex redattore capo di “Abc” stesso (Appunto 20. Carlo – come in un romanzo di Sterne – lasciato nell’atto di andare a un Ricevimento, p. 90)
Di alcuni personaggi cambiano i nomi: il presidente della Nuova Editoriale Italiana s.p.a Giuseppe Restelli in Petrolio è Ettore Zolla; al suo vice Angelo Morandi, Pasolini dà per nome Guido Casalegno. Ancora da Questo è Cefis:
Essendo infatti il Presidente Mattei preso dalle sue mille attività sino al punto di non trovare nemmeno il tempo di firmare montagne di corrispondenza ordinaria e limitandosi a porre il sigillo autografo sulle missive di un certo impegno, il Morandi funzionava da negro per la firma, siglando per esteso, con imitazione quasi perfetta dell’originale di Mattei e con fedeltà anastatica ammirevole, il corriere di poco conto, anche magari riferito alla posta di quell’Ente (non di Stato) che il Presidente proteggeva e di cui si occupa pienamente, oggi, lo stesso Cefis.
Così in Petrolio:
Il presidente Enrico Bonocore era intatti talmente preso dal vortice delle sue attività – fondatrici, appartenenti al tempo mitico – da non trovare il tempo nemmeno di porre la sua firma sotto le centinaia di lettere di corrispondenza ordinaria (per le lettere più importanti usava un sigillo autografo): era quindi Casalegno – ripeto, uomo sostanzialmente onesto – a firmare il corriere ordinario per Enrico Bonocore: siglando per esteso, con ammirevole imitazione della firma originale del Capo. In conseguenza di tale sua sconfinata pazienza manuale, Guido Casalegno, occupava presentemente la carica che abbiamo detto: oltre a essere Dirigente Amministrativo della Snam, e Direttore della Divisione Segisa, controllando così amministrativamente e finanziariamente il “Giorno”; ed era entrato a fare parte della piccola fluttuante oligarchia del cosiddetto impero dei Troya. (Appunto 20. Carlo – come in un romanzo di Sterne – lasciato nell’atto di andare a un Ricevimento, p. 100)
Con ironia, Steimetz titola un suo paragrafo Il nababbo degli investimenti a vuoto, sulla moltitudine di infruttuosi investimenti Eni nel Sudan, in Somalia o nel Golfo Persico:
Nel ’58 l’Eni investe in Marocco dai 12 ai 15 miliardi con la Somip, ma si sa come vanno queste cose. Pazienza, di oro nero nemmeno l’ombra. Nel Sudan (1959), altri pozzi inghiottono miliardi e non regalano un barile di petrolio. Dopo l’intermezzo libico, dieci miliardi in Somalia cinque milioni al giorno circa per azionare le sonde senza conclusioni migliori. Finalmente il Golfo Persico, con lo Scarabeo, la piattaforma galleggiante dell’Eni, e il petrolio si trova; profitto iniziale subito annullato dalle contemporanee, inutili trivellazioni nel massiccio montuoso dello Zagros, un anno di lavoro a quota 3350.
Pasolini così lo riscrive nell’Appunto 54 (Il viaggio reale nel Medio Oriente):
L’Eni aveva investito in Marocco dai 12 ai 15 miliardi: ma non vi si era trovato neanche una goccia di petrolio. E ciò precedentemente al viaggio del nostro ingegnere. Nel viaggio in questione, le cose, appunto, non erano andate molto meglio. Nel Sudan […] un altro buon numero di miliardi e anche qui neanche una goccia di petrolio. In Eritrea furono investiti precisamente dieci miliardi – cinque milioni al giorno per azionare le sonde – senza il minimo risultato positivo. Nel Golfo Persico invece il petrolio – novello Vello d’Oro secondo il nostro idioletto – fu trovato: entrò così trionfalmente in questione lo ‘Scarabeo’, la famosa piattaforma galleggiante dell’Eni. Disgraziatamente però, esattamente nello stesso periodo, tutto ciò che venne guadagnato nel Golfo Persico, andò perduto nel massiccio montuoso dello Zagros: un inutile anno di trivellazioni a quota 3350. (Appunto 54. Il viaggio reale nel Medio Oriente, p. 199)
Petrolio avanza dentro a una stratificazione di esibite citazioni. Addirittura clamorosa, nell’Appunto 129, la ripresa della festa narrata da Fëdor Dostoevskij nei Demoni, libro in cui Pasolini si specchia e specchia l’Italia dei primi anni Settanta («No, io parlo – come dice Dostoevskij, e come io non oserei dire – delle ‘mezze calzette’»). Il riuso di materiali preesistenti, con riprese che non di rado sono alla lettera è insieme il risultato di un lavoro di documentazione e un’esigenza estetica. Per De Laude, così come per Calia, sono «poche, nel ritratto di Aldo Troya, le varianti rispetto al libro di Steimetz»; cambia il luogo di nascita: Sacile, in provincia di Pordenone, invece di Cividale («ma di Udine quando egli era nato», scrive Pasolini (Appunto 22. Il cosiddetto impero dei Troya: lui, Troya, in Petrolio, Oscar Mondadori, p. 104). Scrive Steimetz:
Eugenio Cefis […] conta 50 anni […] non teme le Cassandre dei tumori, è un patito delle Marlboro che offre con larghezza all’interlocutore, non potendo né sapendo sacrificargli un sorriso per la quasi totale assenza di comunicativa. […] Cefis allora intensifica la propria verve ipnotica, giungendo sino al risolino allettante, astuzia sottile del proletario furbo […] Il barone del metano compresso, così come si mostra schivo davanti alle telecamere e ai paparazzi, così com’è allergico ad apparire in pubblico […] Colleziona con devozione (e profitto) gli ex-voto, investimento d’arte tra i più intelligenti. Trova conforto e relax nella Citroën Ds 21 intestata alla segretaria.
Pasolini:
Lui, Troya è un uomo sui cinquant’anni, ma ne dimostra meno. La prima cosa che colpisce in lui è il sorriso. Colpisce, prima di tutto, perché si sente subito che è un sorriso divenuto stereotipo. […] Troya, cioè, sorridendo furbescamente, voleva far sapere ininterrottamente, senza soluzione di continuità, e a tutti che lui era furbo. […] Non amava assolutamente nessuna forma di pubblicità. Egli doveva, per la stessa natura del suo potere, restare nell’ombra, e infatti ci restava […] Si sapeva che girava con una macchina, una Citroën verde, non intestata nemmeno a lui (che dunque non era possessore nemmeno di una modesta Citroën); e si sapeva anche che faceva raccolta di oggetti in ceramica bianca (cosa che dava l’aria di piccoli cimiteri a certi tavolini, non certo pezzi rari d’antiquariato, della sua casa e anche del suo ufficio). (Appunto 22. Il cosiddetto impero dei Troya: lui, Troya, pp. 94-96)
Analizzando l’Appunto 22a, Silvia De Laude riferisce che anche «l’“impero privato” di Troya, con i suoi vari “feudi” è descritto, in questo e nei tre Appunti seguenti (22b, 22c, 22d), sulla base del libro di Steimetz, che comprende fra l’altro uno schema grafico18costruito esattamente come il “grafico” con “rettangoli” in cui si allude in Petrolio». Scrive Pasolini:
Il lettore dunque osservi questo grafico. I rettangoli che rappresentano le varie Società o Enti dell’impero di Troya sono tratteggiati: il tratteggio significa cifra, cioè, nella fattispecie, capitale sociale, dichiarato e reale. L’ultimo rettangolino è tratteggiato solo a metà. Si tratta delle “Iniziative culturali” della Sig.ra F., della cui consistenza finanziaria ci è nota solo una metà. (Appunto 22i. Seguito del puzzle ecc., p. 115)
Anche Ivan Troya, fratello di Aldo, ricalca la descrizione di Alberto Cefis, fratello di Eugenio, fatta da Steimetz: «il fratello Alberto, ingegnere, che amministra le piantagioni in Canada». E così Pasolini: «Un feudo assai lontano, oltre oceano, e precisamente in Argentina, nelle immense pianure presso Mar del Plata. Qui egli possiede una vera e propria piccola”regione”, il cui feudatario è, pare da molti anni, il fratello Ivan». (Appunto 22a. Il cosiddetto impero dei Troya: le filiali più vicine alla casa madre, p. 98)
Adolfo Cefis (fratello minore di Enrico) in Petrolio corrisponde a Quirino Troya (o Arduino). La Trevalor Trust Reg. di Adolfo diventa la Pentavalor Trust Reg. di Quirino; la Sosvic, Sosmel; la Walchiria Établissement si trasfigura in Walhalla Établissement.
De Laude elenca altre allusioni di Pasolini a nomi di società e personaggi registrati da Steimetz: la Lignea Sas di Quirino Troya e soci allude all’Arborea Sas di Adolfo Cefis; l’Am.Da., Amministrazione Dati Spa, ricalca la Ge.Da. Gestione Dati Spa; «Evelyn Lane, l’uomo di Hong Kong» (Il cosiddetto impero dei Troya. La ramificazione più importante del fratello Quirino, p. 104) nel libro di Steimetz lo ritroviamo come «Christopher Coleman, l’uomo di Singapore».
E ancora: Amelia Gervasoni, cognata di Aldo Troya e sua prestanome, corrisponde ad Alessandra Righi in Furlani, cognata di Cefis, titolare della Società Immobiliari e Partecipazioni (Pasolini: «L’altro fondamento primo dell’impero di Troya era la Società Immobiliari e Partecipazioni (?), intestata ad Amelia Gervasoni. […] Essa era la sorella della moglie di Troya […]. Dalla “Immobiliari e Partecipazioni” si figliavano, disponendosi per così dire su due file, altre otto imprese o enti, o non so come diavolo chiamarle. In prima fila, la Aronese, l’Inv.Imm., la S. Floreano, la Dbdi; in seconda fila: la Spiritcasauno, la Spiritcasadieci, la Cen Mer, e la Sil» (Appunto 22a. Il cosiddetto impero dei Troya: le filiali più vicine alla casa madre, p. 99). Società dai nomi «alquanto ‘brulicanti’» scrive Pasolini. È dunque nel solco già abbozzato da Calia nel 2003, che la filologa De Laude – pur evitando sistematicamente ogni riferimento all’inchiesta del magistrato pavese – due anni dopo torna ad arare: «Anche i nomi di queste società riprendono nomi di società reali registrate da Steimetz : la Aronese corrisponde alla Arolo, l’Inv.Imm. esisteva davvero, la S. Floreano è il travestimento (con un toponimo friulano, caro a Pasolini) della San Sebastiano, la Dbdi ricalca palesemente la Fmi – le iniziali sono nel romanzo quelle della principale prestanome di Aldo Troya Donata Bandel Dragone (p. 108; ed. Einaudi, p. 100), come la Fmi, riferisce ancora Steimetz, era sigla ricavata dalle iniziali di Ambrogia Francesca Micheli, segretaria privata di Cefis. Lo stesso discorso vale per le società di seconda fila, elencate a p. 109 (ed. Einaudi, p. 99): i nomi Spiritcasauno e Spiritcasadieci ricalcano Chioscasauno e Chioscasadieci (Troya aveva il suo ufficio a Milano in via Santo Spirito, come Cefis in via Chiossetto, da cui Chioscasa); la Cen-Mer. (Centro Meridione) richiama palesemente la reale Immobiliare Centro Sud, e così via».
Pasolini si mantiene fedele alla ricostruzione di Steimetz anche riguardo allo statuto proprietario delle singole società. Ancora qualche esempio: «Arolo, scrive Steimetz, aveva come soci la prestanome di Cefis Ambrogia Francesca Micheli e la General Rock Investment Trust di Vaduz: nel romanzo diventano la prestanome di Troya Donata Bandel Dragone e la General Lake Investment Trust di Coira. La Chioscasauno, sempre stando alle informazioni di Steimetz, era una società a responsabilità limitata rilevata da Cefis nel 1961: così nel romanzo la Spiritcasauno». (De Laude, p. 600)
Testo alla mano, si può dire quindi che molte delle informazioni di Pasolini su Cefis – in particolare quelle contenute nell’Appunto 22 (Il cosiddetto impero dei Troya) – venivano da Questo è Cefis. Nel Petrolio delle stragi Gianni D’Elia ha anche considerato «con una certa sorpresa che l’ultimo Pasolini “corsaro”, quello che potremmo anche chiamare “il poeta delle stragi”, riprende quasi sicuramente dal colorito libro di Steimetz il suo aggettivo più romanzesco, salgariano, fortunato e connotato, come si può leggere in Questo è Cefis: “come corsari sulla filibusta”» (p. 40).
Lampi sull’Eni
Tutte le edizioni di Petrolio finora pubblicate contengono uno strano capitolo formato da un titolo e una pagina bianca. Il titolo è Appunto 21. Lampi sull’Eni. È quello che viene subito prima dell‘Appunto 22. Il cosiddeto impero dei Troya, cioè le pagine di cui abbiamo parlato finora. Secondo Graziella Chiarcossi, erede di Pasolini e curatrice della prima edizione di Petrolio, quel capitolo non è mai strato scritto. Eppure viene richiamato in un’altra pagina di Petrolio come se fosse già scritto: «Per quanto riguarda le imprese antifasciste, ineccepibili e rispettabili, malgrado il misto, della formazione partigiana guidata da Bonocore, ne ho già fatto cenno nel paragrafo intitolato “Lampi sull’Eni”, e ad esso rimando chi volesse rinfrescarsi la memoria» (Il cosiddetto impero dei Troya: le filiali più vicine alla casa madre, p. 97). Anche l’edizione di Silvia De Laude, molto accurata nelle note, non commenta quello strano rinvio a un capitolo che non c’è. Il primo a notare l’incongruenza è stato Calia. Vi si è soffermato poi D’Elia, che la considera la prova di un possibile furto di pagine dal manoscritto di Petrolio, poiché «non si può “rimandare” che a ciò che si è già scritto» (Il Petrolio delle stragi, pp.16-17). Certo, Pasolini avrebbe anche potuto avere in testa i contenuti di quel capitolo, pur non avendolo ancora steso, e ripromettendosi di farlo in un momento successivo, ma certamente la “lacuna” apre delle domande. Soprattutto se la si somma alla natura dell’argomento, alle modalità della morte dell’autore, al furto o sopralluogo che secondo alcuni testimoni ci sarebbe stato nella casa di Pasolini subito dopo l’omicidio, alle dichiarazioni di Pasolini stesso secondo le quali Petrolio avrebbe dovuto essere più lungo di quello che ora abbiamo, e infine anche al fatto che Petrolio è stato pubblicato ben diciassette anni dopo l’omicidio (un ritardo solo in parte giustificato dall’incompiutezza del manoscritto).
Da ciò che scrive Pasolini, si può ritenere che in quell’appunto mancante doveva (o avrebbe dovuto) esserci un riferimento esplicito al periodo partigiano di Cefis, e forse ad alcune ombre del suo passato nella Divisione apolitica Valtoce in Val d’Ossola (poi inquadrata nelle Brigate Fiamme Verdi, di orientamento cattolico), e in particolare nella Brigata Alfredo Di Dio, dedicata alla memoria del comandante caduto in un agguato il 12 ottobre 1944 – morte di cui Cefis sembra portare qualche responsabilità. Sono gli anni in cui si cementano i legami – già stretti – tra il partigiano “Alberto” (il nome di battaglia di Cefis) e l’Office of Strategic Services (Oss) precursore della Central Intelligence Agency (Cia), l’agenzia di spionaggio per l’estero degli Stati Uniti.
Dunque, o quelle pagine non sono state scritte oppure sono state sottratte. E in questo secondo caso si tratterebbe di una sottrazione mirata. Perché proprio le pagine di Lampi sull’Eni? Chi si impossessò di quelle carte doveva essere a conoscenza del loro contenuto. Sapeva che nel romanzo si parlava dell’omicidio di Mattei e si faceva anche il nome del mandante, Eugenio Cefis. Ma il suo bisturi non lavorò alla perfezione. Forse per la fretta, forse per scarsa dimestichezza con la strana forma compositiva di Petrolio, egli non si accorse che in un’altra pagina del manoscritto, uno schema riassuntivo del 16 ottobre 1974 (circa un mese dopo aver ricevuto da Fachinelli la fotocopia di Questo è Cefis) riportava il “sunto” del capitolo mancante. Si tratta del passo già citato sopra «Troya sta per essere fatto presidente dell’Eni: e ciò implica la soppressione del suo predecessore (caso Mattei…)» ecc, assieme a un diagramma, questo (Appunti 20-30. Storia del problema del petrolio e retroscena, pp. 117-18):
Pasolini annota un «romanzo non tanto ‘a schidionata’ quanto ‘a brulichio’, o magari a ‘shish kebab’ / tutta questa è un’enorme digressione alla Sterne, che lascia Carlo nell’atto di andare al ricevimento della signora F. E lo riprende quando entra / – specchietto dell’Impero Eni poi Montedison / – specchietto dell’impero Monti secondo questo schema». Di nuovo Calia evidenzia (qui in corsivo) alcuni passaggi di Petrolio utili alle sue indagini:
– La signora presso cui c’è il ricevimento è la Signora titolare di un Ente Culturale finanziato (per ragioni di amicizia o parentela) sia da Cefis che da Monti […] / * Il racconto che porta al punto di incrocio del salotto della Signora è costituito tutto da notizie e informazioni di affari e parentele ecc. (Appunti 20-30). Ma anche nel punto di incrocio si raccontanofatti di affari, interessi, mene, clientelismo che preparano la II parte / In questo preciso momento storico (I BLOCCO POLITICO) Troya (!) sta per essere fatto presidente dell’Eni: e ciò implica la soppressione del suo predecessore (caso Mattei, cronologicamente spostato in avanti). Egli con la cricca politica ha bisogno di anticomunismo (’68): bombe attribuite ai fascisti [nella realtà, le bombe milanesi del 12 dicembre 1969 vennero attribuite agli anarchici Giuseppe Pinelli e Pietro Valpreda] / (Restivo lo conosciamo nel salotto della signora F.) / Il II BLOCCO POLITICO (app. sarà caratterizzato dal fatto che la stessa persona (Troya) sta per essere fatto presidente della Montedison. Ha bisogno, con la cricca dei politici, di una verginità fascista (bombe attribuite ai fascisti) / ** inserire i discorsi di Cefis: i quali servono a dividere in due parti il romanzo in modo perfettamente simmetrico e esplicito […] / Mattei lo usa per i contatti coi fascisti proprio per la sua intaccabilità di antifascista e cattolico di sinistra / I fascisti siciliani ricattano – per questa ragione – Carlo quando è il momento di ammazzare Mattei; e Carlo si fa complice (sia pure solo col silenzio). A proposito della mafia […] (Appunti 20-30. Storia del problema del petrolio e retroscena, pp. 117-18; Richiesta di archiviazione, nota 1290, p. 416).
Quando Pasolini scrive che Carlo Troya (Carlo, come il padre di Pasolini) ovvero Cefis, «sta per essere fatto presidente dell’Eni: e ciò implica la soppressione del suo predecessore (caso Mattei cronologicamente spostato in avanti)», egli si discosta dall’ipotesi corrente, secondo cui la morte di Mattei aveva come unico movente gli interessi della lobby petrolifera americana o quelli francesi in Algeria (è l’ipotesi ventilata anche nel film di Francesco Rosi, Il caso Mattei)28. Non solo. Per Pasolini, Mattei era stato ucciso per far posto a Cefis (in cui si doveva leggere «fisicamente Fanfani», come è scritto sopra il diagramma). Dunque un intrigo per buona parte interno all’Italia e ai suoi blocchi di potere, le cui fila erano tenute in mano da Cefis, così come ricostruirà Calia molti anni dopo. Un complotto «orchestrato “con la copertura degli organi di sicurezza dello Stato” e poi occultato in un intreccio di omertà e depistaggi pronti a ricompattarsi ogni volta che, nella storia del Paese, qualcuno minaccia di rivelarne il segreto». Secondo il pentito “storico” di Cosa nostra Tommaso Buscetta:
Mattei fu ucciso su richiesta di Cosa nostra americana perché con la sua politica aveva danneggiato importanti interessi americani in Medio Oriente. A muovere le fila erano molto probabilmente le compagnie petrolifere, ma ciò non risultò a noialtri direttamente, in quanto arrivò Angelo Bruno, della famiglia di Filadelfia, e ci chiese questo favore a nome della Commissione degli Stati Uniti […] Occorreva pertanto studiare un metodo per eliminarlo del tutto inusuale per noi e tale da fare in modo che l’episodio rimanesse avvolto nel mistero più fitto. Salvatore Greco ‘Cicchiteddu’ si assunse il compito di organizzare materialmente l’attentato. Egli, a sua volta, si consultò con Stefano Bontade […] Il contatto con Mattei fu stabilito da Graziano Verzotto, un uomo di potere che rappresentava l’Agip in Sicilia e militava nella Democrazia cristiana. Verzotto non era informato, ovviamente, del progetto di Cosa nostra, ma era molto legato a Di Cristina [di cui Verzotto era stato testimone alle nozze] […] Penso che fu proprio Verzotto, o lo stesso Di Cristina a presentare a Mattei un gruppo di giovanotti della mafia (quelli che ho nominato prima più Stefano Bontade) che lo portarono a caccia – sapevamo che Mattei aveva una passione per questo sport – nei dintorni di Catania il giorno prima della sua morte […] Di Cristina procurò l’accesso a una riserva privata dove accompagnare Mattei. L’aereo di quest’ultimo fu manomesso durante questa battuta di caccia. Esisteva, ovviamente, una vigilanza che doveva essere elusa. Ma la vigilanza di quei tempi non era quella di oggi: consisteva in un paio di guardie che passeggiavano su e giù nei pressi dell’aereo (Verbale dell’interrogatorio del 29 aprile 1994, in Richiesta di archiviazione, pp. 2165-2172. Nelle ore passate da Mattei in Sicilia, non risulta che il presidente dell’Eni abbia preso parte a battute di caccia).
Buscetta dunque conferma: l’aereo di Mattei subì un sabotaggio. Lo si riscontra anche dalle confessioni di altri “pentiti”: Gaetano Iannì («per l’eliminazione di Mattei c’era stato un accordo tra gli americani e Cosa nostra. Il centro di Cosa nostra, cioè Palermo, incaricò per l’eliminazione Di Cristina Giuseppe il quale con la sua famiglia fece in modo che sull’aereo sul quale viaggiò il Mattei venisse collocata una bomba») e Salvatore Riggio («Sempre in ordine alla morte di Enrico Mattei, nella famiglia di Riesi si parlava di una bomba messa sull’aereo»).
La via del sangue
Il 4 settembre 1998 Graziano Verzotto – interrogato a Pavia – confida a Calia che per Mauro De Mauro «il sabotaggio del Morane Saulnier [il bireattore su cui è morto Mattei] si spiegava con una pista esclusivamente italiana. Tale pista, secondo De Mauro, portava direttamente ad Eugenio Cefis e a Vito Guarrasi», avvocato palermitano in odore di mafia, già componente del cda della s.a. “l’Ora” di Palermo – il quotidiano vicino al Pci presso cui lavorava De Mauro – e braccio destro di Cefis in Sicilia. È un tardivo riscontro della testimonianza di Junia De Mauro al giudice istruttore di Palermo Mario Fratantonio il 17 marzo 1971: «Sono in grado di affermare con sicurezza che mio padre addossava precise responsabilità per la morte di Mattei all’attuale presidente dell’Eni Eugenio Cefis».
Un rapporto del 1944 custodito a Washington nell’archivio del Dipartimento di Stato, indica Vito Guarrasi tra i componenti di spicco di Cosa nostra nell’isola. Dal 1948 al 1950 Guarrasi ha avuto Alfredo Dell’Utri (padre di Marcello) quale socio nella Ra.Spe.Me. Spa, azienda che operava nel settore medico. Secondo il giornalista di “Epoca” Pietro Zullino, «Cefis aveva forti cointeressenze nelle raffinerie Sarom di Ravenna e Mediterranea di Gaeta. Queste raffinerie sono tra le principali rifornitrici del sistema difensivo Nato per il sud-Europa e della Sesta Flotta americana; raffinano e vendono petrolio Esso e Shell. Mattei cercava di obbligare la Nato mediterranea a diventare cliente dell’Eni; Cefis si opponeva a questo progetto, per via delle sue cointeressenze».
C’è poi il progetto del metanodotto tra la Sicilia e l’Algeria, del valore di 500 miliardi in lire, caldeggiato da Nino Rovelli e Verzotto, appoggiato dalla Regione Sicilia e avversato da Cefis (che possedeva azioni della società proprietaria delle navi metaniere), oltre che dai petrolieri Angelo Moratti (proprietario della società armatrice delle metaniere, che aveva il trasporto del gas liquefatto in appalto da Esso e Eni) e Vincenzo Cazzaniga, presidente di Esso Italia36. Per loro era più redditizio il trasporto via mare dall’Africa fino a Panigaglia presso La Spezia. Verzotto lamentava che «Quasi tutta la stampa nazionale era allineata sulle posizioni dell’Eni perché direttamente o indirettamente finanziata dall’ente»: Eugenio Cefis era infatti chiamato dal presidente della Sir (Società italiana resine) Nino Rovelli «il grande elemosiniere». Rovelli era politicamente sostenuto da Giulio Andreotti, dal governatore della Banca d’Italia Guido Carli e da Giovanni Leone, e «ambiva a rimpiazzare Cefis nel controllo dei finanziamenti ai partiti. Rovelli e i politici che lo sostenevano ritenevano infatti Cefis troppo potente, in quanto controllava direttamente la Montedison e gestiva l’Eni tramite Girotti» (Richiesta di archiviazione, p. 366. Girotti è stato vicepresidente di Montedison. Nel 1971 prende il posto di Cefis alla guida dell’Eni, carica da cui si dimetterà nel 1975).
A Palermo il quotidiano “l’Ora” smise presto di occuparsi del metanodotto. Verzotto: «Le mie informazioni dell’epoca mi indussero a ritenere che il mutamento di condotta da parte de “l’Ora” fosse stato direttamente ispirato da ‘Botteghe Oscure’, cui faceva comodo l’esclusivo rapporto centralizzato con i finanziamenti dell’Eni, escludendo eventuali finanziamenti periferici difficilmente controllabili dalla direzione del partito». Il progetto del metanodotto «e la nostra posizione politica erano sostenuti dall’agenzia “Roma Informazioni” di Matteo Tocco, non so se collegata a “Milano Informazioni” [di Corrado Ragozzino]. Tale agenzia era la sola che in quel momento non riceveva sussidi dall’Eni, essendo invece finanziata dall’Ente minerario siciliano». Verzotto parla di De Mauro: con il giornalista «c’era una intesa consolidatasi nel tempo. Da ultimo, io gli avevo chiesto di darmi una mano nel sostenere il progetto del metanodotto e nel contrastare chi vi si opponeva. Era inteso che tale aiuto – che De Mauro mi offriva di buon grado – doveva risolversi in articoli e servizi contro l’Eni e il suo vertice e a favore del metanodotto». Secondo Verzotto, per comprendere i motivi del suo sequestro-assassinio è prima «necessario chiarire perché Mauro – apparentemente senza ragione – fosse stato spostato dalla cronaca allo sport, pochi mesi prima» (testimonianza resa il 4 settembre 1998, Richiesta di archiviazione, pp. 341 sgg.). Verzotto pagava De Mauro: «Era tra noi inteso che tale collaborazione sarebbe stata retribuita dall’Ente minerario siciliano. Ci si era regolati così anche in altre precedenti occasioni. La giustificazione formale dell’esborso da parte dell’Ems (o di una società collegata) a favore di De Mauro, sarebbe stato un incarico per una ricerca sociologica affidata ufficialmente al giornalista».
Mauro De Mauro viene “prelevato” a Palermo il 17 settembre 1970. Le indagini portano presto al fermo del commercialista Antonino Buttafuoco, un massone iscritto alla loggia palermitana Armando Diaz (ne faceva parte anche l’amico di Guarrasi Stefano Bontade, il mandante), loggia collegata alla P2. In città si dà ormai per imminente l’arresto di Vito Guarrasi, «tanto che la sede della Rai di Palermo – lo ricorda Giampaolo Pansa – era già stata allertata affinché potesse preparare una scheda biografica filmata del personaggio». Ma ecco il colpo di scena: dopo aver annunciato il 2 novembre l’imminente arresto del «puparo», il questore di Palermo Ferdinando Li Donni fa una tanto repentina quanto apparentemente inspiegabile marcia indietro. Si scoprirà che il 10 novembre 1970 Guarrasi ha incontrato segretamente il comandante della legione Carabinieri di Palermo, il colonnello Carlo Alberto Dalla Chiesa. Pura coincidenza, ma il 17 novembre 1970, poche ore dopo l’incontro «senza apparente ragione le indagini si arrestarono. La squadra mobile abbandonò la “pista Mattei” e, di fatto, le stesse indagini sulla scomparsa di Mauro De Mauro».
Sin dal primo Rapporto del 6 ottobre 1970 l’Arma cerca di depistare le indagini, dall’omicidio Mattei al narcotraffico, ignorando sistematicamente Vito Guarrasi – il cui nome non figurerà mai nei rapporti dei Carabinieri – al contrario della Polizia, che in due indagini parallele (della Squadra mobile e dell’Ufficio politico) perseguiva con decisione la pista Mattei. Mario Fratantonio è il giudice istruttore che segue l’inchiesta sulla scomparsa di De Mauro: «Il col. Dalla Chiesa assunse direttamente a verbale Graziano Verzotto. Il comportamento dell’ufficiale era assolutamente anomalo perché era una ingerenza sull’istruttoria in corso». Ugo Saito è il sostituto procuratore palermitano incaricato dell’indagine: il rapporto dei Carabinieri «almeno nella sua prima stesura, a giudizio sia mio che di Scaglione41, non era nemmeno sufficiente ad avviare delle misure di prevenzione […] Ricordo che il colonnello Dalla Chiesa mi portò personalmente il Rapporto in udienza, accompagnato da operatori della televisione. Rammento che feci presente a Dalla Chiesa che io ero in udienza e che il Rapporto doveva essere depositato, come è norma, nella segreteria della Procura» (Richiesta di archiviazione, p. 332). Come lamenta Saito, «improvvisamente non ho visto più nessuno. […] Ebbi successivamente occasione di incontrare in procura Boris Giuliano e siccome i nostri rapporti erano molto cordiali, gli chiesi come procedevano le indagini sulla vicenda De Mauro e come mai, improvvisamente, nessuno pareva più interessarsi a tali investigazioni. Boris Giuliano manifestò il suo stupore per il fatto che io non ero a conoscenza della circostanza che a ‘Villa Boscogrande’, un Night Club in località Cardillo, vi era stata una riunione alla quale avevano partecipato i vertici dei servizi segreti e i responsabili della polizia giudiziaria palermitana. In tale riunione fu impartito l’ordine di ‘annacquare’ le indagini. […] Giuliano mi precisò anche che era presente il direttore dei servizi segreti, facendomene anche il nome: oggi non sono più certo se si trattasse di Miceli o Santovito. Si trattava comunque di colui che in quel momento era al vertice dei servizi segreti [ …] Prima dell’interruzione delle indagini di cui le ho appena fatto cenno, l’istruttoria era giunta a focalizzare delle responsabilità molto elevate e noi prevedevamo che quando avessimo assunto i provvedimenti opportuni, sarebbe successo un finimondo. Noi con la Polizia ritenevamo infatti, con assoluta certezza, che De Mauro era stato eliminato perché aveva scoperto qualcosa di eccezionalmente rilevante relativamente alla morte di Enrico Mattei. Ritenevamo inoltre che il rag. Buttafuoco non era altro che l’ultimo anello di una catena che faceva capo ad Amintore Fanfani e alla sua corrente… naturalmente quando parlo di questa linea investigativa e di queste decisioni, parlo di decisioni cui eravamo giunti, in pieno accordo, il Procuratore Scaglione e io».
Nel 1971 l’indagine sulla morte di Mauro De Mauro dei giudici Saito e Fratantonio vide emergere la responsabilità di Fanfani, di Cefis e di una terza persona rimasta ignota quali mandanti della morte di Mattei. I due magistrati trasmisero a Pavia le parti in cui si ipotizzavano «ipotesi di responsabilità a carico di alcuni personaggi di rilievo della vita italiana: Fanfani, Cefis e un altro, di cui non ho adesso memoria» (Fratantonio a Calia il 20 febbraio 1998). I documenti non sono mai giunti alla Procura pavese, e tantomeno si trova traccia della loro trasmissione nel fascicolo processuale di Palermo (Richiesta di archiviazione, p. 332). Come ricorda Antonio Zaccagni, funzionario dell’ufficio politico della questura di Palermo, «la nostra attività era stata sospesa per espressa richiesta del Questore. […] Da quel momento non ci siamo più interessati del caso De Mauro» (Richiesta di archiviazione, p. 358).
Interrogata da Calia, il 22 maggio 1996 la moglie di De Mauro Elda Barbieri ricorda una visita di Dalla Chiesa dieci giorni dopo il sequestro: «il colonnello «insisteva nel sostenere che De Mauro era stato sequestrato per aver scoperto dove sbarcava la droga destinata alla mafia». La signora replicò sottolineando che il marito «si occupava da oltre un mese esclusivamente della ricostruzione degli ultimi giorni di vita di Enrico Mattei. Fu a quel punto che Dalla Chiesa mi disse: “signora, non insista su questa tesi, perché, se così fosse, ci troveremmo dinnanzi a un delitto di Stato e io non vado contro lo Stato”. Io mi indignai e invitai il colonnello a uscire di casa».
Rispondendo a Calia il 4 settembre 1998, Graziano Verzotto riferisce di aver avuto l’impressione «che De Mauro fosse stato sequestrato anche per spaventarmi e per convincermi ad abbandonare il progetto del metanodotto» (Richiesta di archiviazione, p. 349). Da quel momento migliorano i rapporti economici di Verzotto con Guarrasi. Come si legge nella Relazione della Commissione parlamentare antimafia, «la Banca Loria, già del gruppo Sindona […], passò nel febbraio 1972 sotto il controllo di una finanziaria, la Gefi, che ne acquistò il pacchetto di maggioranza. Del Consiglio di amministrazione della Gefi faceva parte, già prima dell’acquisto del pacchetto di maggioranza della Banca Loria, l’avvocato Vito Guarrasi. Due mesi dopo l’operazione, il 28 aprile 1972, entrò a far parte dell’operazione anche il senatore Graziano Verzotto»
Coinvolto nello scandalo dei “fondi neri” dell’Ente minerario siciliano (depositati presso l’istituto di credito del banchiere della mafia Michele Sindona), nel 1975 Verzotto fugge a Beirut e infine a Parigi sotto falso nome, “coperto” dai Servizi segreti francesi. Farà ritorno in Italia 16 anni dopo, grazie a un indulto.
Pietro Scaglione, 65 anni, viene assassinato il 5 maggio 1971, qualche ora prima della sua partenza per Milano: il giorno successivo era atteso in Tribunale per testimoniare sulla «telefonata compromettente» di Buttafuoco a Guarrasi poco dopo il rapimento di De Mauro, telefonata che incastrava l’avvocato consulente di Cefis in Sicilia. La trascrizione della telefonata sparisce dal fascicolo giudiziario dell’inchiesta De Mauro. Dagli archivi del Tribunale di Palermo sparisce anche il nastro con la registrazione, insieme a cinque faldoni sulla prima indagine. Scomparse anche le impronte digitali lasciate dai rapitori sull’auto di De Mauro.
Il Cavalier Antonino Buttafuoco verrà scarcerato e poi assolto.
Alcuni anni dopo, il questore Ferdinando Li Donni sarà nominato vice capo della polizia.
Il colonnello dei Carabinieri Giuseppe Russo (l’ideatore del depistaggio sulla droga) nel 1977 verrà ucciso dalla mafia. Secondo il commissario della Questura di Palermo Bruno Contrada, l’ex partigiano della Brigata Osoppo Giuseppe Russo era in «rapporti con i Servizi segreti militari».
Morte violenta anche per Emanuele D’Agostino, Stefano Giaconia, Nino Grado e Mimmo Teresi, i killer al soldo di Bontade che i “pentiti” Francesco Di Carlo e Gaetano Grado hanno indicato come i sicari di De Mauro.
Nel 1973 Carlo Alberto Dalla Chiesa è promosso generale di brigata. Nominato Prefetto di Palermo nove anni dopo, il 3 settembre 1982 viene ucciso in un agguato mafioso.
Sul futuro Prefetto di Palermo resta l’ombra della P2. Secondo Francesco Cossiga, «Dalla Chiesa era sempre stato massone, lui, il padre e il fratello…». E infatti il nome di Romolo Dalla Chiesa risulta(tessera P2 n. 1611). Ma, prosegue l’ex capo dello Stato, «la P2 con la sua carriera non c’entra» (intervista di Giovanni Minoli a Cossiga, Rai 3, 16 gennaio 2006). L’affiliazione risalirebbe al 1976, su invito del generale dell’Arma Franco Picchiotti (tessera P2 n. 1745). Dagli elenchi degli iscritti alla P2 (ritrovati il 17 maggio 1981 nella casa di Licio Gelli a Castiglion Fibocchi, in provincia di Arezzo) sarebbe stata sottratta la pagina che conteneva il nome del generale e di suo fratello (l’episodio è risolutamente negato dai parenti di Dalla Chiesa). Nel maggio 1982 il ministro degli Interni Virginio Rognoni lo nomina prefetto di Palermo. Isolato e «disarmato» («mi mandano in realtà come Palermo con gli stessi poteri del prefetto di Forlì») Carlo Alberto Dalla Chiesa muore il 3 settembre 1982, ucciso dalla mafia insieme alla giovane moglie Emanuela Setti Carraro. Nella sentenza di condanna degli assassini Vincenzo Garatolo e Antonino Madonia si legge: «Si può convenire con chi sostiene che persistono ampie zone d’ombra concernenti sia le modalità dell’invio in Sicilia del generale, sia la coesistenza di specifici interessi all’interno delle stesse istituzioni alla sua eliminazione».
Scrive Steimetz: «Sarebbe giusto trovare un nuovo De Mauro a prova di lupara. Per risapere quali rivelazioni la mafia ha vietato al giornalista che intendeva far luce sulla fine di Mattei. Peccato davvero che l’uomo di Matelica sia finito così, e così presto. Con lui vivo, Cefis sarebbe appena un funzionario, un vice, anche se con la smania delle immobiliari. O forse Mattei l’avrebbe dopo la prima cacciata, definitivamente estromesso. Invece l’araba fenice è risorta dalle ceneri (altrui), anche se ai funerali di Enrico Mattei l’Eugenio Cefis (che non l’amava in vita) era simpaticamente assente, pur dovendogli tutto: prima e specialmente dopo».
A conclusione della sua inchiesta, nonostante la mancata certificazione di sicari e mandanti, Vincenzo Calia scrive:
Dalle fonti di prova raccolte […] emerge che l’esecuzione dell’attentato venne decisa e pianificata con largo anticipo, probabilmente quando fu certo che Enrico Mattei, nonostante gli aspri attacchi e le ripetute minacce non avrebbe lasciato spontaneamente la presidenza dell’Ente petrolifero di Stato. […] la programmazione e l’esecuzione dell’attentato furono complesse e comportarono – quantomeno a livello di collaborazione e di copertura – un coinvolgimento degli uomini inseriti nello stesso Ente petrolifero e negli organi di sicurezza dello Stato con responsabilità non di secondo piano. Tale coinvolgimento trova conferma nelle soppressioni di prove e di documenti, nelle pressioni, nelle minacce e nell’assoluta mancanza, in ogni archivio, di qualsiasi documento relativo alle indagini e agli accertamenti sulla morte di uno dei personaggi più eminenti nel quadro politico ed economico dell’epoca. […] È facile arguire che tale imponente attività, protrattasi nel tempo, prima per la preparazione e l’esecuzione del delitto e poi per disinformare e depistare, non può essere ascritta – per la sua stessa complessità, ampiezza e durata – esclusivamente a gruppi criminali, economici, italiani o stranieri a “Sette […o singole] sorelle” o servizi segreti di altri Paesi, se non con l’appoggio e la fattiva collaborazione – cosciente, volontaria e continuata – di persone e strutture profondamente radicate nelle nostre istituzioni e nello stesso Ente petrolifero di Stato, che hanno eseguito ordini o consigli, deliberato autonomamente o con il consenso e il sostegno di interessi coincidenti, ma che, comunque, da quel delitto hanno conseguito vantaggi.
Indagando sulla morte del presidente dell’Eni (nonostante l’accertamento del reato, l’inchiesta verrà archiviata per l’impossibilità di incriminare i colpevoli), Calia ha potuto constatare la lucidità dello scrittore “corsaro” nel ricostruire in Petrolio il degrado e la mostruosità italiana, identificando il burattinaio principale in Cefis, affarista e “liberista” tanto quanto Mattei era utopista e “statalista”.
Dopo la scalata dell’Eni alla Montedison (il colosso chimico privato acquisito con pubblico denaro), nel 1971 Cefis ne diventa il presidente, lasciando l’Eni (a cui era alla guida dal 1967) al fido Raffaele Girotti. Come ironizza Steimetz, Cefis «si crede un semidio e trova fedeli osservanti in questo suo culto della persona. Se tutti gli danno retta, è ovvio che finisca per convincersi di aver perfettamente e abitualmente ragione. È saccente, tiene a distanza i villani, si lascia appena ossequiare. Ma in Italia lo applaudono ad esempio. L’economia del Paese – come avvertono gli studiosi e i politici seri – va piuttosto male, se non a rotoli, ma lui accantona miliardi senza faticare molto visto il numero di utili idioti che lo favoriscono». Basterebbe aggiungere una bandana estiva, e il ritratto di Steimetz calza alla perfezione con quello di un altro Cavaliere. Chissà, forse Questo è Cefis lo si può trovare anche nella napoleonica villa San Martino di Arcore, acquisita nel 1972 dalla Edilnord – una società immobiliare in quel momento intestata a Mauro Borsani (zio di Berlusconi) e amministrata da Giorgio Dall’Oglio (cognato di Berlusconi) – per una ridicola cifra intorno a 250 milioni in lire (già all’epoca ne valeva 1.700; oggi il suo prezzo salirebbe a 7,3 miliardi delle vecchie lire) completa di parco (1 milione di mq.), di pinacoteca (Tintoretto, Tiepolo, Luini…) e biblioteca con oltre 10.000 volumi (per la loro cura venne assunto nientemeno che Marcello Dell’Utri).
Secondo un rapporto della Guardia di Finanza una delle società accomandanti della Edilnord Centri Residenziali di Umberto Previti padre di Cesare (già Edilnord sas di Silvio Berlusconi & c.) con sede a Lugano, curiosamente si chiama Cefinvest. Nel 1979 le Fiamme Gialle sottopongono Berlusconi ad indagine. Lui dirà che della Edilnord «è un semplice consulente», verrà creduto e l’indagine sarà archiviata. Il capitano del Nucleo speciale di polizia valutaria che l’aveva condotta era Massimo Maria Berruti, che «negli anni Ottanta lasciò le Fiamme Gialle per mettersi in proprio come commercialista. In seguito Berruti lavorò a lungo per conto del gruppo Fininvest» divenendo infine deputato di Forza Italia (Luca Andrei, Tanto denaro dal nulla, in Berlusconeide, “Diario del mese” marzo 2001, p. 112).
Insomma, vent’anni prima di Berlusconi, come scrive Steimetz, anche «Cefis sa quello che vuole e lo ottiene a qualsiasi prezzo, specie quando spende i soldi dello Stato, facendo funzionare gli ingranaggi con l’olio sottratto agli ingranaggi stessi. No, non è un ladro. Amministra fondi dello Stato, li investe, li dispensa come crede, autonomo come glielo garantisce, giustamente, la carica ricevuta». Il presidente di Montedison «Dispone inoltre di un esercito di funzionari, di mezzi di informazione, di centri d’opinione privati e di Stato, di occulte protezioni che lo sostengono e (magari a malincuore) lo riveriscono; si assicura favori e silenzio commissionando spazi pubblicitari».
Secondo Massimo Teodori (radicale, membro della Commissione parlamentare sulla Loggia P2) il capo dell’Eni «diviene progressivamente un vero e proprio potentato, che sfruttando le risorse imprenditoriali pubbliche, condiziona pesantemente la stampa, usa illecitamente i servizi segreti dello Stato a scopo di informazione, pratica l’intimidazione e il ricatto, compie manovre finanziarie spregiudicate oltre i limiti della legalità, corrompe politici, stabilisce alleanze con ministri, partiti e correnti». Insomma, Cefis corrompe tutto e tutti. Sono da antologia i quotidiani “mattinali” che il capo dei Servizi segreti Vito Miceli (tessera P2 1605) quotidianamente inoltrava al presidente di Montedison, quasi che il Sid fosse una sua personale polizia privata. Lo riferisce un’inchiesta di Giuseppe Catalano, pubblicata da “L’espresso” il 4 e l’11 agosto 1974 (articoli che ritroviamo tra le carte di Pasolini al Viesseux). Scrive Catalano:
Nel 1972 Cefis era già da un anno presidente della Montedison. Dopo essere stato alla presidenza dell’Eni per dieci anni esatti. In quel momento il problema principale era proprio l’Eni perché, avendo contribuito a insediare come suo successore Raffaele Girotti ed avendo sperato che Girotti fosse una specie di suo fedele luogotenente lasciato di vigilanza in modo che Eni e Montedison non fossero altro che un unico gruppo guidato ovviamente da Cefis; viceversa in quei primi mesi s’accorse che Girotti dimostrava un’inconsueta e testarda autonomia. Non è da stupirsi se gran parte delle schede informative che il Sid passava a Cefis si riferivano a fatti e orientamenti concernenti l’Eni. Altre preoccupazioni e interessi del nuovo presidente della Montedison erano in quel momento conoscere esattamente cosa avveniva al vertice dei partiti e in particolare del partito socialista, posto che per quanto riguarda la Democrazia cristiana egli aveva fonti dirette e autonome di informazione (Cefis e il Sid. Il mattinale, “L’espresso”, 4 agosto 1974. L’inchiesta prosegue l’11 agosto con un secondo articolo di Catalano dal titolo E l’ammiraglio allora disse).
Attraverso spioni di Stato il presidente della Montedison monitorava politici, industriali, giornalisti, aziende pubbliche e private. Uno scenario inquietante, che entra in Petrolio. Come annota Silvia De Laude, «Pasolini riprende pressoché alla lettera» i “mattinali” del Sid reinventandoli narrativamente (De Laude, pp. 605-06).
Cefis è industriale di Stato e contemporaneamente imprenditore privato. «Quali sono dunque gli addebiti che muoviamo al dott. Eugenio Cefis?», scrive Steimetz: «Anzitutto il fatto di aver intestato alla sua segretaria privata un certo numero di società immobiliari e di partecipazione industriale e commerciale. In secondo luogo quello di essere entrato, attraverso alcune di tali società, in compartecipazioni con gruppi finanziari stranieri, i quali per dislocazione, tradizione e consuetudine puzzano di legale intrallazzo onde evadere il fisco (italiano)» (Feudi e vassalli del Gran barone, p. 197). Insomma, «prosperano più i suoi affari privati che quelli affidati alle sue cure dallo Stato. Si noti inoltre che il brav’uomo finanzia i partiti e dispone pertanto di alleati in ogni posto chiave. In altre parole: nel ’45 Cefis capitali non ne possedeva; oggi ha dei beni valutabili a miliardi» (Altri capoversi per un apologo morale, p. 182) In Questo è Cefis Steimetz elenca poi le società e indica i prestanome: sono i «feudi e vassalli del Gran barone» o, con Pasolini, «Il cosiddetto impero dei Troya».
Nel 1976, a soli 56 anni, improvvisamente Cefis abbandona la direzione di Montedison e si ritira a Lugano. In Svizzera coltiva l’ossessione di cancellare ogni traccia del suo passato: come ricorda l’ex dirigente Eni Mario Pirani, «Cefis appariva a tutti molto misterioso, quasi a volere confermare le proprie origini di ufficiale del Servizio informazioni militare (Sim). Aveva persino proibito che apparisse la sua immagine o il suo nome sui giornali»(Pirani a Calia il 20 febbraio 1996. Richiesta di archiviazione, p. 399). Come, del resto, Troya alias Cefis in Petrolio: «Egli doveva, per la stessa natura del suo potere, restare nell’ombra. E infatti ci restava. Ogni possibile “fonte” d’informazione su di lui era misteriosamente quanto sistematicamente fatta sparire» (Appunto 22. Il cosiddetto impero dei Troya: lui, Troya, p. 95). E Giorgio Bocca: «In genere, si atteggiava da agente segreto. Quando doveva incontrarsi con qualcuno, lo portava sulla sua Citroën Ds in aperta campagna. Non si fidava di nessuno: era un pessimo personaggio». Un’ossessione di cui quantomeno hanno fatto le spese libri come Questo è Cefis del misterioso Steimetz, e L’uragano Cefis (introvabile pubblicazione di un altrettanto misterioso Giorgio De Masi) e, verosimilmente, Petrolio.
«Ma è possibile che facciano fuori uno scrittore?» La risposta di Calia: «Possibilissimo. E se vuole la mia opinione, io ne sono convinto». Pasolini non è stato ucciso da un “ragazzo di vita” poiché omosessuale, bensì da sicari armati dai poteri, occulti o meno, in quanto oppositore a conoscenza di verità scottanti, elementi e conoscenze che andavano forse ben oltre i mandanti della morte di Mattei. Quali? In un appunto del Servizio segreto militare (Sismi) rintracciato da Calia si afferma nientemeno che Cefis è il vero capo della P2:
Notizie acquisite il 20 settembre 1983, da qualificato professionista molto vicino ad elementi iscritti alla Loggia P2, dei quali non condivide le idee […]. La Loggia P2 è stata fondata da Eugenio Cefis che l’ha gestita sino a quando è rimasto presidente della Montedison. Da tale periodo ha abbandonato il timone, a cui è subentrato il duo Ortolani-Gelli, per paura. Sono di tale periodo gli attacchi violenti (Rovelli della Sir) contro uomini legati ad Andreotti con il quale si giunse ad un armistizio per interessi comuni: lo scandalo dei petroli […] Alle 15,30 di oggi, 21 settembre 1983, ho conversato telefonicamente con la nota fonte di New York che mi ha confermato. (Richiesta di archiviazione, p. 404).
Da un altro appunto del Sisde del 17 settembre 1982 si apprende che «Intensi contatti sarebbero intercorsi in Svizzera, fino al mese di agosto u.s., tra Licio Gelli ed Eugenio Cefis, presidente della Montedison International». Come ha scritto Gianluigi Melega, intorno a Cefis orbitavano molti personaggi nell’elenco della P2: «Albanese Gioacchino (tessera P2 n. 2210). Entra nell’Eni come assistente al Ministro delle Partecipazioni Statali. Nel 1966 ne esce per fare l’assistente al Ministro delle Partecipazioni Statali, il democristiano di sinistra Carlo Bo. Rientra all’Eni come assistente di Eugenio Cefis con delega alle relazioni esterne e ai rapporti con la stampa. È uno dei tessitori della scalata Eni alla Montedison, poi dell’acquisto del “Messaggero” e del controllo indiretto del “Corriere della Sera” ai tempi di Angelone Rizzoli (tessera n. 1977) e Bruno Tassan Din (tessera n. 1633), direttore Franco Di Bella (tessera n. 1887). Dopo l’abbandono di Cefis, Albanese passa per pochi mesi nella direzione dell’impero edilizio di Mario Genchini (tessera n. 1627), ma con l’arrivo all’Eni di Giorgio Mazzanti presidente (tessera n. 2111) e di Leonardo Di Donna potentissimo direttore finanziario (tessera 2086) ritorna alla grande come vice presidente dell’Anic» ( “L’espresso”, 4 settembre 1997).
La “strategia della tensione” non vuole destabilizzare; al contrario vuole consolidare un sistema che si muove con le bombe degli anni Settanta per arrivare con mezzi più subdoli alla presa del potere dei nostri giorni. La chiave di lettura di questo criminale asse politico-economico tentacolare sta in gran parte in Questo è Cefis e nel “visionario” e mutilato Petrolio: preannunciato di 2.000 pagine, e destinato a rimanere incompiuto, Petrolio è anche un romanzo-verità sull’Italia del doppio boom, sviluppo e bombe. Bombe stragiste, piduiste e mafiose. Uno «Stato nello Stato» che nel 1962 ha tolto di mezzo Mattei, nel 1968 De Mauro, nel 1971 il giudice Pietro Scaglione e nel 1975, con ogni probabilità, lo stesso Pasolini. A loro va aggiunto il vice questore di Palermo Boris Giuliano, ucciso da Leoluca Bagarella il 21 luglio 1979.
La storia d’Italia è piena di capitoli oscuri che a decenni di distanza non sono stati ancora chiariti: bombe, omicidi, finti suicidi, sparizioni, finti incidenti, Mattei, De Mauro, Scaglione, Feltrinelli, Falcone, Borsellino, Giuliano, Rostagno, Ilaria Alpi, D’Antona, Biagi, Michele Landi, tutti i testimoni di Ustica… e la lista potrebbe continuare. A ogni morte un fascicolo distrutto, un memoriale scomparso, un computer manomesso. Anche l’omicidio di Pasolini è uno di quei capitoli bui?
Nel corso delle indagini siciliane sulla morte di Mattei, Boris Giuliano si ritrovò a indagare Vito Guarrasi. Secondo una nota del Sisde del 25 luglio 1979, «Da una ampia azione informativa e di sondaggio, sviluppata anche in collaborazione di alcune fonti “qualificate”, in ordine alle recenti uccisioni dell’avv. Giorgio Ambrosoli, liquidatore della Banca Privata Italiana di Sindona, e del vice Questore Boris Giuliano, Capo della Squadra mobile di Palermo, sono emerse le seguenti indicazioni […] Si vocifera che il defunto vice Questore Giuliano si occupasse, quasi a titolo personale, cercando di evitare ogni indiscrezione, della scomparsa del noto giornalista Mauro De Mauro, eliminato – si afferma – per aver trovato il bandolo della matassa sull’incidente aereo che costò la vita al presidente Enrico Mattei. In proposito un magistrato della Procura di Roma, collegando l’intera vicenda, avrebbe confidato a persona amica che, secondo il suo giudizio, l’eliminazione di De Mauro, dell’On. Mattei e del vice Questore Giuliano, gli richiamerebbe il nome dell’ex Presidente della Montedison Eugenio Cefis». Dopo la morte di Giuliano, a capo della Mobile di Palermo verrà nominato Giuseppe Impallomeni (tessera P2 n. 2213), che subito sopprime la sezione Antimafia e la sezione Catturandi della Mobile. Impallomeni era stato allontanato dalla Mobile di Firenze per un giro di tangenti. Dal 309° posto della graduatoria dei vice questori aggiunti, era inopinatamente passato al 13° posto, fatto che gli consentì l’incarico alla Questura di Palermo. Questore del capoluogo siciliano fu nominato Giuseppe Nicolicchia, di cui venne rinvenuta la domanda d’iscrizione alla P2 nel 1981. L’antistato di Eugenio Cefis, Licio Gelli, Umberto Ortolani e Elio Vito Rondanelli consegna infine il testimone alla monocrazia mediatica dell’affiliato Silvio Berlusconi (tessera P2 n. 1816), che il 18 gennaio 1994 insieme a Marcello Dell’Utri (membro dell’Opus Dei e amico di Gaetano Cinà, esponente della famiglia mafiosa dei Malaspina, vicina al boss Stefano Bontade, coinvolto nell’omicidio di Mattei) fonda Forza Italia. Non è nota la provenienza dei capitali che inaugurano l’“irresistibile” ascesa dell’uomo di Arcore.
La lucidità visionaria di Petrolio, l’inquietante intreccio tra politica criminalità e affari che lì si racconta, sarà chiaro solo molti anni dopo, così come la strategia delle stragi fasciste e di Stato che passa, anche terminologicamente, dagli articoli al romanzo. Così scrive Pasolini nel famoso articolo Il romanzo delle stragi (quello che inizia con «Io so. Io so i nomi….»), uscito il 14 novembre 1974 sul “Corriere della sera”:
Ma non esiste solo il potere: esiste anche un’opposizione al potere. In Italia questa opposizione è così vasta e forte da essere un potere essa stessa: mi riferisco naturalmente al Partito comunista italiano. […] Il Partito comunista italiano è un Paese pulito in un Paese sporco, un Paese onesto in un Paese disonesto, un Paese intelligente in un Paese idiota, un Paese colto in un Paese ignorante, un Paese umanistico in un Paese consumistico […] Ora, perché neanche gli uomini politici dell’opposizione, se hanno – come probabilmente hanno – prove o almeno indizi, non fanno i nomi dei responsabili reali, cioè politici, dei comici golpe e delle spaventose stragi di questi anni? È semplice: essi non li fanno nella misura in cui distinguono […] verità politica da pratica politica.
Come si è visto, Pasolini entra in possesso di Questo è Cefis a partire dalla fine del settembre 1974, «almeno due settimane dopo che la cugina Graziella Chiarcossi, su richiesta dell’autore, fece una fotocopia del dattiloscritto, per paura che questo andasse perduto come precedentemente accadde a Primo Levi per il furto dell’auto. Sappiamo allora che le accuse luterane del Processo ai Nixon italiani furono speculari alla stesura delle pagine più politiche di Petrolio, e che se di giorno Pasolini scriveva «di sapere ma di non avere le prove» di notte stillava i nomi e i cognomi e i retroscena di quelle trame eversive che per più di un decennio adulterarono la prassi democratica nel nostro Paese». (Antoniani, Contro tutto questo)
A sinistra il Pci sa e ha le prove, ma sta a guardare. Il partito «pulito» rivendica la sua diversità antropologica mentre il suo “doppio” partecipa come tutti al banchetto Enimont, amministra clientele, soffoca i movimenti e ogni altro embrione di nuove culture politiche libertarie. È la palestra alla quale si forma buona parte della classe dirigente immortale e immorale che continua a guidare il Partito democratico. Rimanendo all’inchiesta di Calia, una nota di Polizia del 18 marzo 1974 riporta quanto segue: «Non è un segreto che, per tenersi buono il Pci, vi sono grossissime società private che, quando decidono di fare le loro campagne pubblicitarie a tutta pagina, includono nei loro budget anche la stampa comunista. Lo stesso criterio – per non essere accusati d’intolleranza – impiegano le grosse società di mano pubblica, quali l’Eni, l’Iri, la Montedison, ecc… Ciononostante, poiché tradizionalmente i quotidiani del pomeriggio sono ritenuti un cattivo veicolo pubblicitario, in rapporto ai quotidiani del mattino, “l’Ora” non ospita quasi mai grossi quantitativi di questo tipo di pubblicità, che normalmente viene pagata a tariffa piena (una pagina di pubblicità Spi costa attorno ai due milioni). Per tale motivo, il quotidiano palermitano, ormai da diversi anni, non attende che sia la Spi a fornirgli la pubblicità, ma tenta d’acquisirla direttamente dalle Società e dagli Enti […] In proposito, si ricorda, che nel settembre scorso su “l’Ora” (che riprendeva integralmente gli articoli che apparivano sul confratello “Paese Sera”) apparve un’inchiesta sui petrolieri italiani condotta da Miriam Mafai. L’inchiesta passò al pettine l’origine e la natura delle fortune finanziarie dei petrolieri quali Monti, Moratti, Garrone, Rovelli, etc. Visti i sistemi con cui opera “l’Ora”, non si può escludere che i petrolieri e l’Unione petrolifera abbiano versato denaro contante al giornale o si siano impegnati in contratti pubblicitari, con pubblicità tabellare o redazionale. Si sa per certo, ad esempio, che dopo un periodo di polemica con la Sir dell’ing. Rovelli, “l’Ora”, da alcuni mesi, marcia in perfetto accordo con l’industriale: segno che avrà cominciato a intrattenere “rapporti” concreti con lui» (Richiesta di archiviazione, p. 346).
Le verità negate
«Chi tocca il Principe avrà del piombo; chi non lo tocca avrà dell’oro», scrive Steimetz: piombo tipografico o di un qualche calibro? Un ragazzo di 17 anni, Pino Pelosi, si è autoaccusato dell’omicidio di Pasolini. Il 26 aprile 1976 il Tribunale di Roma lo ha condannato alla pena di nove anni, sette mesi e dieci giorni di carcerazione, oltre a una multa di 30.000 lire per atti osceni. Il 7 maggio 2005 Pelosi ha ammesso che quel giorno non era solo, che altri avevano partecipato al pestaggio: «Erano in tre, sbucarono dal buio. Mi dissero tu fatti i cazzi tuoi e iniziò il massacro. Io gridavo, lui gridava… Avranno avuto 45, 46 anni, gli gridavano “sporco comunista”, “arruso”, “fetuso”». Insomma, fu un agguato e forse Pelosi era solo un’esca.
Pasolini, stando alla seconda versione di Pelosi, viene massacrato da «tre siciliani»; nel frattempo altri provvedono a sottrarre da Petrolio il capitolo Lampi sull’Eni, «che dall’omicidio ipotizzato di Mattei guida al regime di Eugenio Cefis, ai “fondi neri”, alle stragi dal 1969 al 1980 e, ora sappiamo, fino a Tangentopoli, all’Enimont, alla madre di tutte le tangenti» D’Elia, Il Petrolio delle stragi, p. 98).
Il cugino di Pasolini Guido Mazzon: «Mia cugina Graziella [Chiarcossi, erede del poeta] mi telefonò due volte: il giorno del delitto – “I fascisti hanno ucciso Pier Paolo” – e qualche tempo dopo, un mese, non ricordo bene. Mi ricordo bene quello che mi disse: “sono venuti i ladri in casa, hanno rubato della roba, gioielli e carte di Pier Paolo”» (testimonianza raccolta da D’Elia e Giovannetti il 24 ottobre 2005, a Pavia). Mazzon ha poi ripetuto la sua testimonianza a Paolo Di Stefano (sul “Corriere della Sera”, 4 marzo 2010): «Nel ’75, dopo la tragedia di Pier Paolo, Graziella chiamò mia madre per dirle di quel furto. Quando mia madre me lo riferì, pensai: “Accidenti, con quel che è capitato ci mancava pure questa”. E pensai anche: “Strano però, che senso ha andare a trafugare le carte di un poeta?”. Il mio stato d’animo sul momento fu proprio quello. Avevo 29 anni e ricordo bene la sensazione che ebbi. Poi il particolare del furto mi tornò alla mente leggendo Petrolio e venendo a sapere della parti scomparse» Perché l’imbarazzo? «Perché non riesco a capire come mai mia cugina continui a negare quel fatto. Dopo l’annuncio del ritrovamento, l’ho cercata al telefono, ma senza successo: vorrei chiarire, cercare di ricomporre il ricordo. Mia madre è morta due anni fa e non posso più chiederle conferma, ma quella comunicazione telefonica ci fu e si verificò dopo la morte di Pier Paolo, non potrei dire esattamente quanti giorni dopo». Ancora Mazzon a Matteo Sacchi (“il Giornale”, 4 marzo 2010): «Io ricordo bene che dopo la morte di Pasolini mia madre ricevette una telefonata proprio da Graziella Chiarcossi che le comunicava che c’era stato un furto. Avevano portato via delle carte e dei gioielli. Mia madre era molto turbata. All’epoca non pensammo affatto a Petrolio. Ma col senno di poi e con queste rivelazioni, tutto potrebbe assumere un senso».
Chi sono i veri assassini? Quali i mandanti? Domande in sospeso su cui insiste Gianni D’Elia nel suo prezioso libro-inchiesta Il Petrolio delle stragi, ripreso nel 2009 da Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza in Profondo nero (lo stesso titolo di uno dei capitoli del libro di D’Elia, che i due autori correttamente indicano tra le principali fonti d’ispirazione del loro lavoro). Assieme al dossier di Carlo Lucarelli e Gianni Borgna uscito su “Micromega” n. 6/2005, alle tante firme italiane e internazionali raccolte dalla rivista “Il primo amore” per la riapertura del processo e al presunto ritrovamento di una parte del capitolo mancante Lampi sull’Eni, ha portato ad una nuova più approfondita indagine sulla morte del grande regista e poeta friulano.
«L’ho letto, è inquietante, parla di temi e problemi dell’Eni, parla di Cefis, di Mattei e si lega alla storia del nostro Paese». Così parlò Marcello Dell’Utri il 2 marzo 2010, annunciando che di Lampi sull’Eni – il capitolo mancante di Petrolio, il mutilato romanzo di Pier Paolo Pasolini – proprio di quelle pagine proprio lui, beffardamente era entrato in possesso. Una notizia clamorosa due volte: perché l’amico dello stalliere di Arcore stava dando (inconsapevolmente?) una “notizia di reato” e perché nonostante Dell’Utri ci saremmo trovati di fronte a pagine di rilevante interesse sia storico che letterario.
Presto Dell’Utri si corregge: «in realtà non l’ho letto… me ne hanno riferito un sunto… sembra che in quelle pagine Pasolini parli… parli dell’Eni… di Cefis… di Mattei…». E a Paolo Di Stefano (“Corriere della Sera”, 12 marzo 2010): Ma lei li ha visti? «Li ho avuti tra le mani per qualche minuto, sperando di poterli leggere con calma dopo». Che fisionomia avevano? «Una settantina di veline dattiloscritte con qualche appunto a mano». Poi si preciserà che sono esattamente 78 «di un totale di circa duecento». Potrebbe essere il famoso capitolo mancante, intitolato Lampi sull’Eni? Risposta: «Più esattamente Lampi su Eni».
Alessandro Noceti (collaboratore di Dell’Utri) su “il Giornale” del 4 marzo 2010 dice che quelle pagine «erano all’interno di una cassa. La cassa apparteneva ad un Istituto che ne è anche proprietario». A quanto sembra, le veline sparite sarebbero in mano a un antiquario – un intermediario – che le avrebbe offerte al sodale di Berlusconi, condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. Nell’ottobre 1974 Pasolini dichiara di essere arrivato a 600 pagine (un mese prima erano 337), mentre al filologo Aurelio Roncaglia la cugina Graziella Chiarcossi ne consegna 522: 492 pagine dattiloscritte, le altre a mano, «senza contare – osserva D’Elia – che in pochi mesi ne aveva scritte circa 200». Il 27 marzo 2009 l’avvocato Stefano Maccioni e la criminologa Simona Ruffini hanno depositato alla Procura di Roma un’istanza di riapertura delle indagini sulla morte di Pasolini. Quasi quarant’anni dopo. Quarant’anni di verità negate agli italiani, in un Paese esposto alle pulsioni mafiose del Potere. È la pasoliniana «mutazione antropologica della classe dominante», che ritroviamo nel linguaggio narcotizzante della televisione, (la grande scommessa P2 persa da Cefis, vinta da Berlusconi), nelle parole vuote – menzognere e terroristiche – della pseudopolitica e nell’immutata logica del Potere, che ha portato al mondo in cui viviamo adesso.
Gli italiani sono oggi relegati nella cattiva società dei ceti immobili; del finto sviluppo senza vero progresso; delle diseguaglianze senza ascensore sociale «in un Paese orribilmente sporco» e privo di mobilità.
Il Paese della corruzione, delle tangenti, dei favoritismi e dello spreco del pubblico denaro; un Paese tenuto in scacco – oggi come allora – dall’invasiva e colonizzante contaminazione delle mafie, che approfittando del vuoto si fanno Stato, in Lombardia come in Sicilia, in Emilia come in Calabria. Nella politica, nell’economia, e nella finanza e nella società la contaminazione destruttura e corrode nonostante la retorica del consenso strausata da chi, coltiva l’interesse particolare, ignorando la globalizzazione degli uomini e le svolte epocali annunciate dall’arrivo dei nuovi migranti; e assecondando irresponsabilmente gli umori forcaioli della piazza. Quella piazza che in un’allucinante circolarità loro stessi sobillano, alterando tragicamente l’etica pubblica, al punto da elevare a cultura prevalente il nuovo fascismo e con tutto il suo portato di razzismo e xenofobia che, senza ostacoli o freni inibitori, si riversa dalla politica populista al senso commune. L’Italia sembra così il terreno di coltura per un nuovo sovversivo «regime reazionario di massa» (la formula era di Palmiro Togliatti, A proposito di fascismo, 1928). È del resto in corso un forte impoverimento del ceto medio – a livello europeo – che può avere come esito una qualche nuova forma di fascismo. «Che cos’è, infatti, il globalismo (e l’aggettivo “globale” ricorre in Petrolio) se non la forma più avanzata del “cristiano” vecchio colonialismo?», si domanda D’Elia: «Un colonialismo delle merci e dei capitali sulla vita degli umani, con altissima velocità dello Sviluppo e della Miseria, di cui il petrolio è l’essenza, la marxiana benzina del valore di scambio» (Il Petrolio delle stragi, p. 27).
Ma l’effetto più visibile di questa contaminazione pervasiva, è il crescere della cattiveria: «Il tasso di cattiveria sta crescendo sempre più Le macchine economiche, mediatiche, sportive e di altro tipo funzionano facendo venire fuori il peggio dalle persone e dal paese. Ovunque esasperazione, invidia, risentimento, livore, paura. L’Italia di questi anni è la fabbrica della cattiveria» (“Il primo amore” n. 6/2008).
La cattiveria è una rendita economica, e lo sanno bene i Governi che negli ultimi vent’anni hanno sostenuto l’ascesa del loro Prodotto interno lordo con le spese militari e con l’indebitamento di milioni di famiglie, attratte dal miraggio della new economy – la truffa del secolo – mentre intanto i profitti migravano dall’industria verso il sistema finanziario e si drenava il denaro dei piccoli risparmiatori, indotti a indebitarsi dall’offerta vantaggiosa di finanziamenti da parte del sistema creditizio, come nella truffaldina deriva di mutui Subprime sulle case.
La cattiveria è soprattutto una rendita politica, e lo sa bene la Lega nord che «raccoglie le paure degli uomini spaventati e le moltiplica. Capta la xenofobia e la riproduce». È la Lega dei localismi «che intercetta lo spaesamento prodotto dalla globalizzazione. Intercetta il distacco dallo Stato, dalle istituzioni, dalla Ue. E lo amplifica» (Ilvo Diamanti, “la Repubblica”, 13 dicembre 2009).
Sulla cattiveria si stanno costruendo rendite elettorali e fortune politiche e antipolitiche e lo sa bene il sistema dei partiti, di destra e di sinistra, sempre più attratti dalle semplificazioni del populismo e della demagogia, scorciatoie che ignorano la realtà.
Che la cattiveria sia una rendita economica, finanziaria, politica e persino sociale lo sanno bene i furbetti e le mafie. Infatti larga parte dell’economia italiana è sommersa o in mano a chi, dismesse coppola e lupara, oggi opera in Borsa: il sommerso e le mafie, sommati, fanno un fiume di denaro – circa il 40 per cento del Pil – che preme sull’economia legale e condiziona il libero mercato. Le mafie fatturano 175 miliardi di euro – l’11,1 per cento del Pil – che è frutto di attività criminali e che viene reinvestito nell’edilizia e nelle attività commerciali, o in operazioni finanziarie attraverso banche compiacenti. Nelle sole regioni del Nord, oltre 8.000 negozi sono gestiti direttamente dalle mafie inabissate dei colletti bianchi. In Italia, 180mila esercizi commerciali sono sottoposti all’usura, con tassi di interesse in media del 270 per cento: un movimento di denaro di 12,6 miliardi che va ad aggiungersi al ricavato delle estorsioni (circa 250 milioni di euro), della droga (59 miliardi di euro), delle armi (5,8 miliardi), della contraffazione (6,3 miliardi), dei rifiuti (16 miliardi), dell’edilizia pubblica e privata (6,5 miliardi) delle sale gioco e scommesse (2,4 miliardi), della compravendita di immobili, della ristorazione, dei locali notturni, ecc. Uomini cerniera mantengono i collegamenti con il mondo dell’economia, della politica e della finanza. Le mafie condizionano l’intera filiera agroalimentare (7,5 miliardi) interagendo con segmenti della grande distribuzione.
Le mafie delocalizzano, diversificano gli investimenti, hanno molta liquidità, non pagano le tasse, non hanno bisogno di indebitarsi con le banche e pagano cash. Le Procure hanno invece le armi spuntate, perché la legge sul riutilizzo a fini sociali dei beni confiscati ai mafiosi può essere facilmente aggirata (ad esempio, intestando le proprietà a compiaciuti prestanome), mentre strumenti che potrebbero rivelarsi incisivi, come l’anagrafe dei conti correnti bancari, è disattesa da vent’anni. Senza alcun clamore, per il triennio 2009-2011 il Governo Berlusconi prevede una riduzione dell’organico delle forze di Polizia di almeno 40.000 operatori e tagli di spesa per più di 3 miliardi di euro. Il Governo conferma la riduzione del 50 per cento delle indennità per i servizi in strada e per il controllo del territorio, nonché la riduzione del 40 per cento della retribuzione accessoria per malattia o infortuni sul lavoro.
La cattiveria a volte è un crimine. Ed è criminale lasciare morire esseri umani (come è ormai norma al largo di Lampedusa), criminale uccidere persone che spesso stanno fuggendo da altre guerre. La cattiveria a volte nemmeno la si vede. Ad esempio, quella nascosta dietro le “morti bianche” sul lavoro, una vera emergenza.
La cattiveria di chi usa le malattie, le povertà e il disagio per traghettare pubblico denaro verso privatissime strutture d’area.
La cattiveria delle false bonifiche – quelle a danno della salute dei cittadini – e dei veri bonifici sui conti cifrati esteri di persone già ricche eppure ostinatamente venali.
La cattiveria dei cementificatori, degli asfaltatori e di chi non smette di speculare sul consumo di territorio vergine, che è un bene non riproducibile.
La cattiveria di chi vuole trasformare l’acqua in una merce su cui lucrare, con rincari fino a cinque volte il prezzo attuale.
La cattiveria dei «cattolici senza fede», leghisti digiuni dei Vangeli che esibiscono una croce senza più Cristo né carità. È la Lega dei cattolici senza fede «sorta nel vuoto prodotto dall’eclissi del sacro e dalla secolarizzazione. Propone una nuova religione. Naturalmente secolarizzata. Senza Dio e senza chiesa. Sovente, contro la Chiesa» (Diamanti).
Tutto questo e molto altro ancora è cattiveria, ma al peggio non c’è mai fine. I cambiamenti climatici, l’inquinamento delle acque e la biodiversità in declino sono di gran lunga più cattivi e devastanti della crisi finanziaria, al punto da minare il futuro stesso della specie umana, che negli ultimi cinquant’anni è raddoppiata. Nello stesso tempo, un terzo delle specie selvatiche o si sono estinte o sono state decimate dal nostro espansionismo.
Scrive Gianni D’Elia: «le parti di Petrolio che non si trovano più davano forse molto fastidio al Nuovo Potere, che si andava consolidando. Forse avrebbero fatto lo stesso botto di Mani pulite, contro la Tangentopoli stragista di quella stagione, invece sepolta nella rimozione che siamo diventati, pasolinianamente, “a mutazione criminale avvenuta”». (Il Petrolio delle stragi, p. 30)
E allora leggiamo Questo è Cefis, e rileggiamo anche Petrolio, che al libro di Steimetz deve molto. Ripercorriamo «il viaggio dantesco dentro i “gironi” della notte repubblicana, della sua “mutazione antropologica” e politica infernale».
19 febbraio 2015 alle 16:45 |
Bellissimo saggio. Ho vissuto quei tempi. La continua pressione di amici e giornalisti perchè si parlasse bene di Cefis. Ma come rileggere “Questo è Cefis” se è introvabile?
6 novembre 2015 alle 20:42 |
L’ho ripubblicato nel 2010, con questo testo a introduzione
3 novembre 2018 alle 14:21 |
[…] Tratto da: Pasolini compie novant’anni […]
5 luglio 2019 alle 23:32 |
Complimenti.