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Frottole ambientali

5 giugno 2023

di Paolo Ferloni

L’Italia finanzia gelaterie nel mondo… per lottare contro il cambiamento climatico. Come far fallire la lotta ai cambiamenti climatici e l’accordo di Parigi del 2015 (COP21)

oro cercatori ticino

«L’ITALIA ha aiutato un cioccolataio ad aprire negozi di cioccolato e gelato in Asia. Gli Stati Uniti hanno offerto un prestito per espandere un albergo di lusso ad Haiti. Il Belgio ha sostenuto la produzione del film La Tierra Roja, una storia d’amore ambientata nella foresta pluviale in Argentina. E il Giappone per diminuire le emissioni di CO2 sta finanziando una nuova centrale elettrica a carbone in Bangladesh e l’estensione di un aeroporto in Egitto».
Sembrano frottole, ma sono notizie che arrivano da un serio e documentato Rapporto di ricerca dell’agenzia di stampa Reuters, eseguita da un suo gruppo in collaborazione con il Laboratorio di giornalismo della Università di Stanford in California. Lo si può consultare sul sito:
https://www.reuters.com/investigates/special-report/climate-change-finance/
In totale il finanziamento dei cinque progetti ammonta a 2.6 miliardi di dollari, e i quattro Paesi rendono conto di questi loro “sostegni” come cosiddetti interventi di lotta contro i cambiamenti climatici. Cioè avrebbero avuto il significato di aiutare nazioni in via di sviluppo a ridurre le emissioni per meglio adattarsi al riscaldamento globale.
A questo scopo infatti i Paesi sviluppati avevano promesso nel Dicembre 2015 durante la conferenza della Nazioni Unite COP21 di Parigi di mettere a disposizione in totale 100 miliardi di dollari all’anno, promessa che non è stata mantenuta.
Il Rapporto ora mostra che quell’impegno non soltanto è stato disatteso, ma anzi è stato usato per finanziare anche ditte e iniziative che hanno ben poco a che vedere con i mutamenti climatici.
Lasciando stare gli investimenti degli altri, per quanto riguarda l’Italia, per esempio, i ricercatori della Reuters hanno trovato che il nostro patrio Governo ha elencato tra gli impegni per l’ambiente il finanziamento dedicato alla storica ditta piemontese Venchi per aprire nuovi negozi di cioccolato e gelati in Cina, Giappone e in Indonesia. Nella foto sopra si vedono le eleganti e luminose vetrine del negozio Venchi aperto nel famoso quartiere commerciale Ginza di Tokyo.
I ricercatori esaminando circa 44.000 contributi segnalati alle Nazioni Unite dai vari governi hanno calcolato che la quantità totale degli investimenti in cinque anni ha raggiunto 182 miliardi, cioè meno della metà di quanto fu promesso a Parigi. Per di più da parte dell’ONU nessuno ha controllato davvero che questo denaro sia servito agli scopi dichiarati dall’Accordo di Parigi.
Misera consolazione, per l’Italia, il fatto di essere – si fa per dire – in buona compagnia in queste attività di “greenwashing” cioè di “tintura in verde”, come si dice più modernamente in facile inglese, quando una gentildonna si tinge di un bel verde i capelli. E quando industriali, politici e addetti ai lavori in Italia e nel mondo pretendono di dare una coloritura ambientale a scelte operative contrarie a ogni buon senso o prospettiva di miglioramento dell’ambiente.
Il Rapporto sottolinea peraltro che la presenza di progetti con un impatto ambientale dannoso accanto ad altri più appropriati e meritori è dovuta alla mancanza di criteri qualitativi corretti per poter definire “verdi” gli investimenti in questione.
Ciò non toglie che il nostro Paese potrebbe, se disponesse di un Ministero dell’Ambiente all’altezza della sua migliore e tradizionale cultura naturalistica e scientifica, elaborare, progettare, finanziare e segnalare iniziative a favore di Paesi più poveri che davvero siano in grado di contribuire a ridurre le emissioni globali di anidride carbonica. Ma per il momento, come rilevano i movimenti giovanili, la maggior parte del Paese e delle industrie sta correndo o cerca di muoversi in senso opposto, con prospettive di commercio di armamenti, consumismo, produzioni fossili e “sviluppo” vecchie di oltre sessant’anni.

Eldorado padano sulle rive del Ticino

20 Maggio 2023

di Giovanni Giovannetti

oro cercatori ticino

Le pagliuzze, i granuli e le pepite d’oro che impreziosiscono il bacino idrografico del Ticino sono il lascito nel tempo dell’erosione e successivo drenaggio di alcune località aurifere nella zona del Monte Rosa. E non per caso la cerca dell’oro e di altri metalli nobili è attestata già in epoca romana lungo le rive di Po e Ticino anzitutto, ma anche quelle del Sesia, dell’Agogna, dell’Adda e di molti altri corsi d’acqua minori (tra i primi ne hanno scritto Strabone nel Geographica e Plinio il vecchio nel Naturalis Historia). Sono fiumi che attingono da quel distretto aurifero.

Le rive auree presso porta Pertusa

Il Ticino era di proprietà regale: a Pavia vi avevano diritto di presa gli auri levatores, o aurifices, obbligati da giuramento a rivenderlo alla Camera Regia o ai magistrati della moneta. Presto il diritto fu ceduto in regalia per alcuni tratti a ecclesiastici e a privati. Come quando, nel 1014 Enrico II dona alla chiesa di San Gaudenzio di Novara i diritti della «riva e alveo del Ticino da Camariasco a Pietra Maura, con tutti i molini, le peschiere e gli aurifici», recita un documento dell’epoca, e sono luoghi «dove nessuno può lavorare oro senza il permesso del vescovo pro tempore».
In tema di cessioni alla Chiesa, il 27 settembre 1135 Pietro di Pietro può donare alla canonica della Cattedrale pavese i suoi beni immobili nonché il diritto di cavar oro su un tratto del fiume tra Besate, Castelletto e Campese (Come dire tra Besate e Motta Visconti), «et de edificium lignaminis simul tenente cum illorum areis juris mei quam habere visus sum suburbium ticinensis civitatis probe portam Pertusa ubi ego intus habitare videor, omnia in integrum, atque de locis et glarea posita in Ticinum ubi asis percorrere debet ad aurum levandum item mei juris omnia in integrum», …e quelle rive del Ticino vicino a porta Pertusa, dove sono posizionati i canali di legno per la raccolta dell’oro.
Un altro documento coevo registra l’autorizzazione della Cattedrale pavese ai fratelli Amico e Anselmi per la raccolta dell’oro fra il Po e il Ticino per un canone annuo di 30 soldi pavesi.

Non per soldi ma per denaro

E qui arriviamo a una controversa questione che si è trascinata per secoli, fino ai nostri tempi. Il 24 maggio 1164 Federico I detto il Barbarossa fa dono ai fratelli Biffignandi della tenuta Buccella di Vigevano e di alcuni diritti, compreso «il diritto di raccogliere l’oro dalle arene del Ticino in tutto quel tratto che il fiume percorre nel territorio del Vigevanasco». Così leggiamo. Ma a Giuseppe Pipino (che di questi argomenti è lo studioso più accreditato) preme segnalare che del diploma, «già guardato con sospetto da molti autori, esiste solo una copia del Settecento, ritenuta opera dello stesso Biffignandi Buccella, al quale si deve anche l’invenzione di scrittori antichi testimoni dell’atto e del diritto». Insomma, «molti elementi attestano, con certezza, la falsità della concessione» poiché «l’imperatore si era espressamente riservato, l’anno prima, l’oro del vigevanasco». E poi «la locuzione di pesca dell’oro (auri piscandi) è estranea ai tempi e si ritrova soltanto a partire dalla fine del Quattrocento; tutta una serie di documenti attesta che il diritto era detenuto dal Comune e che i Biffignandi erano soltanto affittuari». Comunque sia, in tempi recenti gli eredi Biffignandi han fatto stampare e valere il falso diploma, ricavandone, osserva lo studioso, «discreti benefici». Per la verità, il Laportano nel De originibus populi viglevaniensis (1490) segnala che Federico I aveva concesso ai tre fratelli Biffignandi il diritto di raccogliere l’oro dalle rene del Ticino in territorio Vigevanasco. Ma da una nota agli Statuti di Vigevano e da altri documenti, scrive Pipino, «si ricava che, in quel periodo, il diritto di raccolta dell’oro veniva affittato, dal Comune di Vigevano, alle famiglie Biffignandi e Quaglia». Nel Libro degli Statuti conservato all’archivio comunale di Vigevano sono infatti indicati i redditi delle ghiaie aurifere del Ticino, affittate alle famiglie Biffignandi e Quaglia per 28 lire e 16 soldi annui ciascuna.

Maledetti genovesi

Torniamo ora indietro di qualche secolo, al 1264 e a quanto riferisce Giuseppe Robolini in Notizie appartenenti alla sua Patria (un’opera del 1823): Robolini segnala che quell’anno il Comune di Pavia ha acquistato dalle famiglie Orio e Strada «tutti i ghiaietti del Ticino e del Po, dal ponte vecchio di Vigevano, a Fossarmato de basso, fino al Po, e dalle bocche di Tanaro a Portalbera, per cavarne l’oro». E nel Breve della mercanzia di Pavia (1300 circa) si legge che «il Collegio aveva acquistato le ghiaie di Castelletto, Campese e Besate, dalle quali si estrae oro, ma questo viene venduto illegalmente a certi cittadini genovesi: si ordina pertanto, ai consoli della mercanzia, di indagare e di provvedere affinché il reddito dell’oro pervenga alla detta mercanzia, e non ad altre persone».
Arriviamo così al 2 aprile 1311, a quando Enrico VII, delega ai conti palatini di Lomello, scrive Pipino, «della giurisdizione di Sparagonia (“Sparvara” sta per “Cambiò”) con tutta la giurisdizione su Mede, Nicorvo, etc., dai confini di Bassignana a quelli di Gallia (ossia Malvezzo), con tutti i diritti e le regalie, compresa la raccolta dell’oro (auri levamen) nel Po, dalla bocca del Tanaro a quella dell’Agogna, e in altri fiumi».
Lo spazio nella pagina è finito, anche se molto altro andrebbe detto. Lo faremo tra due settimane.

7 (continua)

La “nave pavese”. Quando Milano aveva un porto

4 Maggio 2023

di Giovanni Giovannetti

nave pavese

Gli ultimi anni del mestiere di navarolo risalgono al 1960 circa: il trasporto fluviale di merci (e passeggeri) era ormai diventato antieconomico per costi e tempi.
Talvolta il traino della barca avveniva a braccia, ma era più frequente il traino con i cavalli, sia lungo il fiume, dove si navigava a remi, che lungo il Naviglio pavese. Sui navigli la barca era trainata dalla riva da due o più cavalli; sul fiume, quando la corrente era forte, i cavalli, addestrati a restare immobili, erano trasportati su una piccola barca accostata alla «nave», oppure sulla nave stessa. Risalendo Po e Ticino, i navaroli, issavano l’elbum sul quarto di prua, un tronco di robinia alto circa dieci metri, fissato al ponte da quattro tiranti. Una robusta corda lunga a volte oltre trecento metri andava dalla cima dell’elbum fino ai cavalli che tiravano. Ciò serviva a evitare che la corda, entrando in acqua, si impigliasse in tronchi o arbusti sommersi. Per le sue dimensioni, la “nave” poteva essere contenuta anche nelle conche più ravvicinate, come quelle del Naviglio pavese; la sua altezza modesta le permetteva di passare agevolmente sotto gli archi delle chiuse. La conformazione del fondo e il timone di fianco la rendevano poco sensibile alle spinte laterali della corrente e perciò di facile manovrabilità: gli uomini addetti a una nave erano a volte due, a volte tre.

Pioppi, zolfo, sabbia, ghiaia

Erminio Bergonzi: «Andavamo in tutti i posti, su per il Ticino fino a Bereguardo, lungo po a Arena, Portalbera, spessa, San Zenone, Pieve Porto Morone. Dove c’era da fare carico con la nave, noi andavamo. E poi facevamo tutto il nostro Naviglio pavese. Quando eravamo a Milano, a porta Ticinese, c’era il laghetto, la darsena, e lì prendevamo il Naviglio grande e andavamo fino ad Abbiategrasso a scaricare i pioppi e lo zolfo per i fiammiferi. I pioppi li scaricavamo a Corsico, dove c’era la cartiera. Poi andavamo anche a San Cristoforo, appena fuori Milano, a portare la sabbia per fare i bottiglioni, alla vetreria: terra rossa. Ad Abbiategrasso c’è il naviglietto di Bereguardo, che va fuori proprio a Ticino, e delle volte è asciutto e delle volte, quando il Ticino è in piena, è pieno d’acqua. Noi per tornare facevamo ancora il Naviglio grande, e a porta Ticinese prendevamo ancora il Naviglio pavese. Servivamo anche la cementifera di Broni. Venivano giù coi camion rimorchio e caricavamo centottanta quintali in due volte. A tirare le navi c’erano i cavalli, due o tre. Un padrone ne aveva tre: saltavamo a cavallo e li cacciavamo in acqua fin sotto la pancia, per fare andare la barca in canale. La corda, lunga duecento o trecento metri, arrivava fin sopra a l’elbum, un’antenna di robinia grande come un palone della luce, issata a prua. Perché in certi momenti ai cavalli gli davo quattro legnate e quelli volavano, neh! Erano addestrati».
Romano Migliavacca: «Qui in viale Rismondi, tacà a Necchi avanti lì, era un deposito della cartiera. Un po’ si vuotavano lì i pioppi, un po’ si andava su a Corsico, sempar per la ditta Burgo di Corsico. L’appalto più che altro ce l’avevano i Sigalini, avevano in mano loro il monopolio di quella roba. Chi aveva in mano il monopolio della vetreria l’era Andolfi, ha sempre vuotato lui. Qualche volta vuotava anche il Baggini, che ha sempre fatto il bello e il brutto tempo. Problemi gh’ n’era mia.
«Due o tre cavalli tiravano le navi dalle rive, di solito si faceva il traino da una riva sola. Ma a seconda delle caratteristiche del fiume il traino avveniva dalle due rive. Si teneva sempre la “piarda” pulita (la ripa alta cul nostar gergo si chiama “piarda”). Le bestie erano favolose perché capivano la voce dell’uomo, magari indietro cinquanta, cento metri. Si gridava a voce e loro si fermavano, andavano, venivano al ciglio, andavano dentro il fiume. Secondo il grido che si faceva, la bestia sapeva cosa doveva fare».

Da Milano all’Adriatico, via Pavia

Dei navigli lombardi (Naviglio grande, Naviglio di Bereguardo, Naviglio della Martesana e Naviglio pavese) l’ultimo era il corso d’acqua più utilizzato, perché permetteva di collegare Milano con l’Adriatico: nei trentatre chilometri di percorso, attraversava dodici centri abitati, superando un dislivello di cinquantasei metri mediante quattordici conche. Vi transitavano millequattrocento barche l’anno, per più della metà dirette a Milano. Il 40 per cento del trasporto interessava i vini emiliani e dell’Oltrepo pavese, il 25 il sale proveniente da Venezia, il 20 materiale da costruzione., il resto merci varie. Sul Naviglio pavese le barche erano trainate da cavalli, tanto in salita come in discesa, dato che la modesta pendenza del fondo del canale provocava una corrente molto debole. Porto d’arrivo a Milano era la darsena di porta Ticinese. La chiusura della cerchia dei navigli, nel 1930, declassò tutta la rete delle vie d’acqua che faceva capo a Milano. Ancora per decenni si continuò a trasportare la sabbia del Ticino e del Po lungo il Naviglio pavese, ma la via d’acqua era ormai stata superata dalle ferrovie e dagli autocarri.

6 (continua)

La Resistenza che tanto piace a Meloni

26 aprile 2023

di Giovanni Giovannetti

Il 25 aprile scorso in tivù e alla radio la notizia del giorno non è parsa la ricorrenza della Liberazione nazionale ma la lettera al “Corriere della Sera” che Giorgia Meloni dedica alla Liberazione nazionale. Tutti l’hanno commentata ma eludendo la sua conclusione. Ed è un peccato, perché nelle righe finali la capo del Governo spende sentite parole per la Resistenza a lei più vicina: quella dei “patrioti” osovani nel nordest del Paese. Sono gli stessi che, nel dopoguerra, si convertiranno in milizie paramilitari nazionaliste e poi, dal 1956, eccoli in Gladio.

I bianchi se la intendono con i neri

A differenza dei tanti che la indorano, Meloni sembra sapere che questi partigiani, più che combattere nazisti e fascisti, erano semmai a loro vicini in funzione anti-titina. O quanto meno lo era la fazione maggioritaria monarco-catto-nazionalista della Osoppo. Insomma, mentre era in corso una sanguinosa guerra senza quartiere contro il nemico nazifascista, in Friuli partigiani bianchi e camerati neri, benedetti dagli inglesi, se la intendono fra di loro.
Tutto questo Meloni lo sa perché, a differenza dei sopra citati indoratori, lei ha letto l’ampio faldone del processo lucchese per i fatti di Porzûs (diciassette osovani ammazzati in Friuli da partigiani comunisti fra il 7 e il 18 febbraio 1945; tra loro Guido Alberto Pasolini, fratello di Pier Paolo) e quindi ben conosce la deposizione data in quella sede dalla camerata Maria Pasquinelli e dal capo della Decima Mas repubblichina Junio Valerio Borghese: in sintesi, Pasquinelli ammise d’aver tenuto contatti con l’Osoppo «attraverso l’ufficiale che il Borghese mi aveva indicato»; aggiunse poi che i capi osovani «si dichiararono pronti a trattare in merito personalmente con il Borghese». E il capo della Decima lo confermò: « Vi fu un incontro a Vittorio Veneto» disse Borghese a Lucca «con un signore che allora si faceva chiamare colonnello Verdi e che recentemente ho saputo chiamarsi Grassi», il comandante osovano Candido Grassi, Verdi.
La premier Meloni conosce la storia d’Italia, e di certo ha letto Junio Valerio Borghese e la X Mas (Mursia 2007) di Mario Bordogna, ex aiutante di campo di Borghese e suo biografo. Come si legge alle pagine 156 e 157 di questo libro, «il 1° gennaio 1945, d’accordo col comandante Borghese, il capitano Morelli ebbe un primo abboccamento col capo partigiano Verdi alla presenza del tenente Boccazzi». Per chi non li conoscesse, Manlio Morelli era il comandante del battaglione “Valanga” della Decima Mas (si era anche parlato del passaggio di questo battaglione tra le fila osovane, nell’intento di formare un fronte comune anticomunista); il futuro scrittore Alfonso Cino Boccazzi era invece un ufficiale del Servizio segreto badogliano “catturato” dalla Decima.
Scrive poi Bordogna che il partigiano Verdi aveva avanzato «una sorprendente proposta: formare un gruppo il cui comandante sarebbe stato un elemento della Decima (che avrebbe dovuto fornire le armi) e il vicecomandante un elemento della “Osoppo”». Inutile precisare, scrive Bordogna, che «l’accordo da stipulare per la formazione di questo gruppo militare-partigiano sui generis, avrebbe ovviamente contemplato anche un patto di reciproca non-aggressione».

Osovani in camicia nera

Lette le carte da cima a fondo, ora Meloni conosce anche la triste storia degli osovani in camicia nera visti all’opera nel cosiddetto “presidio di Ravosa”, sempre in Friuli, costituito il 28 gennaio 1945 in un “patriottico” accordo tra la Milizia fascista e il comandante della prima brigata Osoppo Marino Silvestri Alfredo, con il beneplacito di Francesco De Gregori Bolla e del suo delegato politico Alfredo Berzanti Paolo, il futuro primo presidente della Regione Friuli-Venezia Giulia. Al processo di Lucca Silvestri e Berzanti diranno che era per proteggere Ravosa dai saccheggi dei cosacchi, alleati e complici delle malefatte di nazisti e camicie nere…
Al solito, non viene meno la tolleranza germanica (come scrive lo storico liberale Jože Pirjevec, «è un fatto che gli osovani intrattennero rapporti “diplomatici” con la Wehrmacht e con i suoi collaboratori cosacchi»).
Pare incredibile ma, guidati da ufficiali repubblichini e da loro addestrati e armati di tutto punto, questi osovani prenderanno parte a più d’un rastrellamento anti- garibaldino. Al processo di Lucca ne ha dato fra gli altri testimonianza Zeffirino Rossi Amos, un garibaldino arrestato nel marzo 1945 dai doppiogiochisti del presidio di Ravosa e rinchiuso nel collegio Marconi di Udine: da lì, il prigioniero vede «gli osovani uscire ed entrare con la macchina e la moto, ed io mi domandavo come potevano fare ciò».
E sempre a Lucca depone l’osovano Francesco del Negro: «Ci dissero di andare a Ravosa e qui giunti ci dissero di andare a vestirci a Udine con la divisa dei repubblichini. Con me erano diversi altri. Ci dettero la divisa grigio verde, una camicia nera ed una camicia grigio verde. Sul berretto ricordo che c’era il fascio».

Partigiani che rastrellano partigiani

Alla mai paga Meloni non è di certo sfuggita la deposizione ai giudici lucchesi di Ermenegildo Qualizza, altro osovano: «Il presidio [di Ravosa] era comandato da ufficiali repubblichini. Il comandante è sempre stato un tenente e c’erano anche tre sottufficiali». Qualizza puntualizza che era «vestito come gli altri, in grigio verde, ed avevamo due camicie una grigio verde ed una nera». Ma ben di peggio Qualizza ammette di aver preso parte a rastrellamenti anti-garibaldini: «Ricordo che a Udine un giorno, mentre facevamo istruzione, ci portarono a un rastrellamento e bisognò andare».
Altrettanto surreale appare la deposizione di Remigio Rebez detto “la belva di Udine”, nuotatore paracadutista della Decima Mas di stanza al Centro di repressione presso la famigerata caserma “Piave” di Palmanova, un luogo in cui lo stesso Rebez tortura e ammazza i partigiani: come si legge, la maggior parte erano garibaldini, mentre i pochissimi dell’Osoppo «erano trattati benissimo e io stesso sono andato con loro al cinematografo». Rebez porta numerosi esempi, concludendo che «i patrioti dell’Osoppo arrestati sedevano alla mensa unitamente ai sottufficiali del Comando della Milizia».
Su un altro piano, Rebez ricorda il capitano delle SS Pakebusch, (comandante del suddetto Centro di repressione antipartigiana) gradito ospite a Villa Mangilli del facoltoso marchese Ferdinando Mangilli, esponente dell’Osoppo e membro dell’Organizzazione Franchi di Edgardo Sogno (arrestato nel 1974 per essere stato fautore del cosiddetto “golpe bianco”).
Il dopoguerra vede brillare altre figure apicali del firmamento osovano, come il generale gladiatore Luigi Olivieri (il partigiano Ginepro, già capo di stato maggiore della Osoppo sul finire delle ostilità nonché membro del Comando unico insurrezionale di Udine e capo del Terzo corpo volontari, poi Organizzazione O), il colonnello Aldo Specogna alias Repe (ex comandante della Settima brigata Osoppo, poi capo del Movimento tricolore, reclutatore in Gladio e infine, subentrando a Olivieri, responsabile del Centro occulto di addestramento Ariete di Udine, costituito nel 1964 in sostituzione del Centro Orione, il primo centro di pronto intervento di Gladio) e, più lateralmente, il colonnello Prospero Del Din – il padre di Paola Del Din, la più amata da Meloni – prigioniero degli inglesi in India, comandante dell’organizzazione segreta Fratelli d’Italia aderente al Terzo corpo volontari per la libertà e responsabile di zona dei Servizi segreti italiani. Tutti passati per il Sim, tutti poi aggregati al Sifar, tutti chi più chi meno coinvolti, nei primi anni Sessanta, nelle trame golpiste del “piano Solo” del generale Giovanni De Lorenzo.
Eccola qui la Resistenza che tanto piace a Meloni.

Il trasporto in nave dal fiume a Milano

21 aprile 2023

di Giovanni Giovannetti

Ticino Pavia

Il trasporto a Milano avveniva con la “nave pavese” che, tra le imbarcazioni in uso sulle acque del Ticino, era quella di maggiori dimensioni. Il compianto storico pavese Giovanni Vaccari così la ricorda: «Era a fondo piatto, lunga quasi trenta metri e larga meno di quattro, dunque molto slanciata. Alta di bordo al centro quasi come un uomo, nella sua versione comune da carico non aveva ponte, ma solo due modeste coperture a prora e a poppa, collegate fra loro da due stretti piattibordi praticabili. A poppa c’era anche una cabina col tetto ad arco che chiamavano “temp” (il “tempio”, denominazione certo antichissima) e in cui i navaroli dormivano quando la nave era fuori sede. Le fiancate dello scafo erano rettilinee e quasi verticali per buona parte della loro lunghezza, e non si incontravano né a prora né a poppa in un ritto ossia tagliamare, perché a collegarle saliva il fondo stesso della nave, disegnando una elegante curva e terminando con un accenno di rovesciamento all’indietro. Insomma prora e poppa “a banana”, e perciò col timone non incardinato al centro della poppa, ma appoggiato in una insellatura al suo fianco come nelle navi dell’antichità. Ciò però permetteva di fare la nave più lunga, perché così non si doveva lasciare nelle chiuse dei navigli uno spazio per il timone, e inoltre alzare il timone spesso quando si passava in acque meno profonde. Era insomma una anticaglia funzionale.

Anche passeggeri

Quello del navarolo, aggiunge Vaccari, era un mestiere che «comportava una grossa fatica di voga in discesa sulla nave carica, e per girarla a prora in su per imboccare a ritroso il ponte (Vecchio), e poi subito di nuovo a prora in giù ridandole l’abbrivo e conducendola di stretta misura a imboccare il porticciolo del Confluente. Le navi andavano regolarmente anche a Milano, con carichi che erano stati vari (anche di passeggeri fino all’inizio di questo secolo) ma che negli ultimi decenni si erano ridotti ai soli materiali da costruzione. Il navarolo era abbastanza intercambiabile con il cavatore e gli somigliava nel fisico. E questo insieme di mestieri e di lavori fluviali aveva anche una sua morale: niente concorrenza fra gli operatori, e reciproco rispetto assoluto delle raccolte lasciate provvisoriamente anche sui greti più solitari, purché fossero marcate con un semplice contrassegno».

In nave tutto l’anno

Erminio Bergonzi apparteneva a una famiglia di navaroli: «Mio nonno Angelo Bergonzi faceva il navarolo anche lui, e ha avuto la nave con i cavalli e tutto. E come lui erano navaroli il mio papà e i cinque fratelli di mio papà. Avevano anche venti pertiche di terra qui a Rea. Le donne facevano andare la terra, gli uomini andavano sempre via, a navigare per Po e Ticino e dappertutto. E io l’ho fatto per quarant’anni questo mestiere. Quarant’anni di navigazione tutto l’anno. Con mio fratello eravamo sotto lo stesso padrone, sotto il signor Baggini di Pavia. Padroni di navi a Rea c’erano i Sigalini, che sono andati a stare a Travacò, alla Frua. Poi c’erano quelli di Verrua, i Casali: erano tre fratelli o quattro, che avevano tutti una nave per uno. Poi ce n’era un altro, detto quello della “Germenteina”, il cognome non me lo ricordo più».
Come conferma Romano Migliavacca, «il navarolo più grosso di Pavia era Baccini, era lui il re. Ultimamente, che mi ricordo io, aveva quattro navi. Era un siùr, al resta ‘l padròn delle case Cantieri – vicino al Gas c’è quei palazzi gialli “i Cantieri”, proprietario l’è il Baggini. Poi lui, come abitazione, abitava di fronte alla Stazione di Pavia, al palazzo püsè bell. Un altar magnate pari al Baggini l’era Andolfi Alessandro. Questo abitava in Borgo, sopra dove adesso c’è la banca. C’era una terrazza, lui era alto due metri e da lì lü ‘l duminava tütt al Burg, da un ponte all’altro, e guardava in “morta” – tra il ponte Vecchio e quello nuovo c’era lo scalo delle navi, che quando magari bisognavas tirarle su e ‘giustarle le tiravan su lì, ciamavan la “morta”. C’erano due buche grosse collegate fra loro e con lo scolo che veniva nel fiume, e lì dentro gh’era tutta la sosta del legname, dove ‘dess c’è i palazzi. Una corte imensa piena ‘d legnam, sempre di pioppi e via e via. L’era un insetto raro l’Andolfi, vün che possibilità ne aveva.
«Un altro in Borgo con la nave l’era il “Garibaldén”, che ne aveva una, adess ma sfügia ‘l nom veri e propi. Un altro ca gh’iva i nav l’era Spada, furtisim a nav, e n’aveva sei o sette. Poi c’era Tura che faceva solo sabbia, tütt sachètt di sabbia pregiata, che da un tipo di sabbia na vegna föra di venti qualità. Lü gh’aveva i nav, due o tre. Il deposito centrale era al poligono. A porta Garibaldi, di fronte al nido, gh’era delle macchine che si scaricava: la prima di Spada, la seconda di Tura. Tura faceva solo sabbia, e invece Spada Aurelio faceva tutti i tipi di ghiaia, per le strade di tutti i comuni».
Governare la nave richiedeva perizia. Bergonzi ricorda che «quando c’era da passare sotto il ponte del Borgo venivamo giù a culo indietro, con i cavalli che delle volte erano su una barca e delle volte andavano a casa. C’era l’ancora in ferro che era sui centodieci chili. Eravamo allenati: mettevamo giù la catena, un catenone di trenta-trentacinque metri, pesante, che fa attrito sul fondo e ferma la barca. E messa la catena l’allungavamo con una corda così, una “corda ‘d Navilij” la chiamavamo, e passavamo. Poi a tirarla su non c’era da tribolare.
«I ponti bisogna rispettarli: come quello di San Mauro e quello dell’Impero. C’erano quelli che avevano coraggio e andavano dentro dritti – e gli andava bene, ma se andava male… Io sono andato a fondo due volte con la nave. Tanti navaroli non sono buoni a nuotare: io non sono capace. Beh, sono andato dentro due o tre volte e mi sono disbrogliato lo stesso».
Romano Migliavacca: «Venivamo giù con la catena e con le àncore. E quelli che ci avevano polso venivano giù “a puntì, dritti, senza girare. E questi con il braccio buono non erano troppi: eran i audaci, i bulli, e venivan giù a puntì con il Ticino in piena. Eh, ci avevano un fisico da leoni!»

5 (continua)

I renaioli di Po e Ticino nelle carte di Leonardo

14 aprile 2023

di Giovanni Giovannetti

barella Leonardo renaioli
alla fune alla fune Fazioli

Il mestiere del renaiolo risale a tempi immemori. Fra l’altro, lo vediamo ripreso in alcuni magnifici disegni di Leonardo da Vinci, vergati proprio in riva al Ticino. Sono impressionanti le analogie tra i fogli 12644 recto e verso della Windsor Collection e la memoria di alcuni tradizionali mestieri di fiume (la cava di ghiaia e di sabbia o la raccolta del salice da vimini) storicamente praticate dalle popolazioni rivierasche di Po e Ticino, ma anche nella valle dell’Arno a Vinci: nel recto dei due fogli, presso un’ansa di fiume, due figure sono al lavoro tra «rena alta ghiara» con l’ausilio di una «barella» (così la chiama anche Leonardo) identica alla baréla usata dai renaioli ancora nel secondo Novecento «sulli gran renai di Po o di Tesino»; a sinistra del foglio c’è chi taglia dei rami; nel verso del 12644, tre figure stanno a una fune, forse a trainare una barca, di quelle a fondo piatto per il trasporto della rena.

Come in una fotografia di Chiolini

Gesti analoghi si vedono in una celebre fotografia novecentesca di Ernesto Fazioli, nei limpidi racconti fotografici sul lavoro dei giarò di Sandro Talamazzini e in alcune belle immagini del pavese Guglielmo Chiolini. Barelle, zappe e badili «comodi al cavare» sono disegnati anche ai fogli 44 recto e 67 recto del Manoscritto B e al foglio 3 recto del Codice Atlantico (alle pagine 60-61), accanto a una grande macchina escavatrice antenata di gru e benne girevoli che, cinquecento anni più tardi, prevarranno sul lavoro manuale dei renaioli. Scrive Leonardo: «sei badilate fanno una barella, 20 barelle fanno una cassa. Adunque, essendo una badilata 25 libbre, la barellata è 150 libbre e una cassa è libbre 3.000».
Nel secolo scorso come allora, in qualsiasi stagione dell’anno e con qualunque tempo, i renaioli partivano all’alba diretti alle cave; a bordo dei natanti tenevano lunghe pertiche, per scandagliare il fondo e spingere la nave. A volte i barconi, in fila o affiancati, , risalivano il fiume al traino di una barca a motore; si evitava così di remare controcorrente per chilometri e giungere già stanchi alla cava. Una volta sondato il fondale e calata l’ancora, cominciava il lavoro: a bordo nei mesi freddi; nel fiume in quelli estivi. Al ritorno, le sponde delle barche stracariche sono a pelo d’acqua.
Come ricorda Erminio Bergonzi di Rea, «Il nostro era il riposo delle bestie, si riposava la domenica. Quando eravamo carichi, se un passerino si appoggiava sul bordo della barca poteva bere da tanto che era al pelo. Non era una gran vita. Andavamo via all’una di notte, alla Coppa, il torrente, fino al ponte di Mezzana Corti, caricavamo e alle otto avevamo già fatto un viaggio e scaricato. Poi avevamo la nostra bottiglia, il nostro etto di pietanza e mangiavamo. La ghiaia che asciugava, c’era tanta acqua dentro la barca, e allora facevamo bel pulito, mangiavamo e andavamo indietro, alle due e mezza, alle tre. Facevamo due viaggi al giorno». A riva, la sabbia veniva scaricata con il badile e la barèla: «Erano sei e sei dodici metri di roba. E li portavamo su a remi e andavamo giù con l’acqua. Noi a Rea eravamo a Po per conto nostro . C’erano quattro battelli: i Buscaglia erano in tre, noi eravamo in tre e poi siamo rimasti in due, perché uno è andato in Francia. Poi c’era il Barbìs e il mio luigi, e poi c’era il Ceri con Pidrinèi, Pinu il fabbro e Giuanèi: erano loro quattro. Oltre a Rea questo mestiere lo facevano a Mezzanino, San Cipriano, San Zenone, Spessa fino a Arena. Poi c’era la Cublera, e poi la Ripaldina di sotto e la Ripaldina di sopra. Per la sabbia e per la ghiaia era sempre lo stesso badilone».
I giarò, spiega Bergonzi, «avevano la licenza. Andavamo all’ufficio del Genio e gli dicevamo: “Mi faccia la licenza per cinquecento metri di roba”, e noi pagavamo per cinquecento metri, che poi ne prendevamo di più lo stesso… Noi ci mettevamo tre mesi a finire fuori la licenza, e poi andavamo dal custode, l’incaricato del Po, e lui la rinnovava. Poi a Natale gli davamo qualcosa, un pollo, un caprone, lui aveva otto figli… La ghiaia poi la prendevamo dove ci comodava. Quelli del Borgo andavano invece all’ufficio del Genio a Pavia. Guadagnavamo più che in campagna, ci stavamo dentro, ma di soldi ne mettevamo via pochi: lavoravamo e mangiavamo».

A Po come a Ticino

Non è dunque diversa la vita dei renaioli di Po. Così racconta Giovanni Livrini, renaiolo, navarolo e pescatore cremonese, in una testimonianza raccolta da Sandro Talamazzini in “Mondo popolare in Lombardia. Cremona e il suo territorio” (1979): «Il lavoro del renaiolo era durissimo: la barèla per scaricare la sabbia e la ghiaia dal barcone sulla piarda; e la cinghia al petto per tirare dagli argini del fiume la barca fino alla cava. Andavamo da Cremona fino a Castelnuovo Bocca d’Adda, San Nazzaro, Roncarolo, Pizzighettone e altre località. Eravamo in cooperativa di cinquanta-sessanta persone».
Livrini racconta che «i viaggi di andata alla cava duravano spesso qualche giorno (anche quattro) e noi, d’inverno, dormivamo nelle stalle e, d’estate, sui fienili, tra i cartocci del granturco. La vita del renaiolo era una vita balorda e scomoda, sempre esposta alle intemperie ed ai pericoli. In tanti anni di lavoro sul Po non so quante volte ho potuto dormire nel mio letto. Occorrevano sei o sette mesi per poter accumulare i mille metricubi di sabbia e di ghiaia che attualmente» ricordo che siamo negli anni Settanta «in un giorno arrivano sulla piarda con i mezzi meccanici».

4 (continua)

Lilia e le altre

30 marzo 2023

Continua la superkazzola dei bambini ucraini rapiti dai russi
di Giovanni Giovannetti

Sento di nuovo riproporre per radio (Gr1, ore 8 di oggi, 30 marzo) la storia di Lilia, una ragazzina undicenne di Kherson “deportata” dai russi nel settembre 2022 in un “campo di rieducazione” in Crimea, Russia, così da farle il lavaggio del cervello. A riprova di tanto criminali propositi, dicono radio e giornali, concorre il fatto che la sua giovane mente ogni mattina era costretta ad ascoltare l’inno della Federazione Russa. Davvero biasimevole, in Russia…
L’intervista radiofonica trasmessa stamane è alla madre Tatiana Vlaïko. Ma la signora descrive una figlia contenta di partire per la Crimea con altri coetanei  in gita scolastica di quindici giorni, «così finalmente avrebbe visto il mare». Parla poi dei suoi contatti via telefono o via Telegram con Lilia, del mancato ritorno causa guerra, dell’ansia che la lontananza della figlia le procurava, del suo complicato viaggio in Crimea per riprendersela e poi in novembre la loro lunga odissea verso casa (l’11 novembre 2022 le truppe russe hanno abbandonato Kherson, ritirandosi oltre il fiume Dnipro), passando per la Russia continentale, Bielorussia, Polonia e da lì a Kherson. Si era in uno dei momenti più caldi del conflitto, quello della controffensiva ucraina partita proprio l’8 settembre 2022, proprio nei giorni in cui gli scolari di Kherson – lì dove piovono bombe – erano andati in gita (secondo gli ucraini “deportati”) in Crimea.

Madre coraggio

Per quanto a “lieto fine”, la storia di Lilia e della sua “madre coraggio” Tatiana, come leggiamo, sarebbe tra le pietre angolari nell’accusa ai russi di “rapire” i bambini per «deucranizzarli». Ma se la corte internazionale dell’Aja continua a tacere i motivi del mandato di arresto internazionale a Putin e sodali, parlano invece i giornali, riprendendo coralmente le stesse storie – la gita / deportazione in Crimea… un minore gravemente ferito a Karkiv e operato in un ospedale di Mosca… un nonno che dagli Stati uniti chiede il ritorno della nipote dopo la morte dei genitori… –, tutte finite bene eppure terribili nelle titolazioni (Il destino crudele e incerto dei bambini ucraini rapiti, “Corriere della Sera”, 7 marzo; Ucraina, bambini rapiti dai russi. Dramma delle mamme, “Il Mattino”, 6 marzo; Le accuse a Putin: quei rapimenti di Stato per obbligare i piccoli a diventare bravi russi, “La Repubblica”, 17 marzo; e così via).

Per contro, si è fatto tombale il silenzio di giornali e tivù sui minori ucraini fuggiti a ovest e spariti nel nulla denunciato in Italia da Ernesto Caffo di “Telefono azzurro”. Bambini forse finiti nell’orbita dei trafficanti di esseri umani oppure nelle reti della pedofilia, quando non dei trafficanti d’organi. Di loro «se ne parla pochissimo, sono invisibili, arrivano in questi centri enormi» – Caffo parla dalla Polonia – «ma nessuno ha traccia di dove vanno». E poi «il traffico è un tema che non piace a nessuno ma è una realtà drammaticamente presente e in questo caso ci sono tutti i fattori che possono facilitarlo».

Disinformathia

Tivù e giornali eludono la complessità geopolitica di un conflitto per procura e «fino all’ultimo ucraino» (ormai lo ammette anche Washington) in cui la propaganda prevale sulla corretta informazione.
Ma se la disinformathia speculare di Mosca e di Kiev, per quanto biasimevole, risulta comprensibile in Paesi che si combattono, non lo è nei riverberi italiani di un conflitto che Stati uniti e Gran Bretagna alimentano in funzione anti-europea e se possibile anti-cinese, con l’Europa derubricata a instabile “cortile di casa”, come già prima d’ora nei Balcani, in Afghanistan, in Libia, in Siria, in Iraq, ecc., là dove si stagliano montagne di macerie e si contano i cadaveri. Tutti Paesi destabilizzati nel “superiore interesse” di Washington, Londra e qualche volta Parigi.
Sta visibilmente cambiando il mondo, piaccia o meno un “nuovo ordine mondiale” è alle porte ora che la Cina si candida a portabandiera di tutto ciò che non è “occidente”, in funzione stabilizzatrice e diversamente imperialista, l’imperialismo degli affari e non quello delle armi. Gli americani allora si battono il petto, tacciono le diplomazie, l’Europa nemmeno esiste e i pennivendoli che fanno? Stanno a mollo nella schiuma del verosimile, che poco o punto ha da spartire con la categoria del vero. Ed è vero che non da oggi gli altri “mondi”, l’arcipelago post-coloniale dei cornuti e dei mazziati (i due terzi del pianeta) aspirano a quel benessere di cui noi occidentali godiamo, sì, ma a loro spese e ora anche a spese di chi, l’Ucraina, è meno “occidentale” di qualcun altro.

La dura vita dei renaioli di Po e Ticino

27 marzo 2023

di Giovanni Giovannetti

renaiolo sul Ticino

Spesso renaioli e lavandaie del Borgo erano parenti. La raccolta della ghiaia e della sabbia è ricordata come un mestiere tra i più duri del tempo. La sabbia era asportata dal fondo del fiume con il cüciar, simile a un enorme mestolo colabrodo. Per estrarla, a volte, bisognava immergersi nell’acqua fino alla cintola, e poi fare leva con tutto il peso del corpo sul manico, per depositare la sabbia sul fondo largo e piatto della barca. Questo tipo di imbarcazione, assai frequente sul Ticino, era noto col nome di «piccola nave» o mutaiö, con una struttura intermedia tra la «nave pavese», più grande, che il più tradizionale battello di fiume, il barcè. Il nome del mutaiö, pare derivi da un suo precedente uso lungo il tragitto per Motta Visconti.
Il mutaiö non era cabinato. La sabbia veniva depositata su assi al fondo della barca, perché potesse stillare se ancora umida. A destinazione, la sabbia si scaricava a riva con carriole o barelle, e di qui, su carri, era trasportata ai cantieri.

Ai miei tempi…

Il borghigiano Romano Migliavacca così racconta il mestiere del renaiolo: «Dei giarò dei miei tempi mi ricordo dei Migliazza, che erano qui del Borgo. Angiolu era il padre. Erano loro che dominavano con i mutaiö. So fradèl al ciamav’m Arcolu, però il cognome è Migliazza. E i suoi figli, uno lo chiamavan Giuan d’Arcolu, per distinguere i figli di Arcolu da quelli di Angiolu. Dai Migliazza passiamo alla “Prora”, tre fratelli che lavoravano tutti assieme col papà. Erano i più grossi cavatori di ghiaia del Borgo, lavoravano col mutaiö. Avevano tanti cavalli col “marnon” (il “marnon” è un carretto che porta un metro di ghiaia), ne avevano parecchi di quelli. Al confluente c’erano i fratelli Freddi: Bruno, Delisio e “Main”. Avevano due o tre batell e uno o due cavalli. Siro Brocchetta del Borgo basso aveva uno o due mutaiö. Ernesto Bozzi di Cà Bella facevano i giarò anche degli altri fratelli Migliazza. Ma ricordarli tutti l’è düra, perché erano tanti».
Poi c’era la cooperativa, «che significava un insieme di giarò, e per non andare sempre sutt’a vün, sutt’a l’altar, j hann pensaa da trass tütt asema, averci due o tre barche e fare la cooperativa che dà da lavorare ai soci. Però, lavorando a soci, c’è sempre l’onesto, il disonesto… Alla cooperativa saranno stati quattro battelli e vott omm, e Scotti l’era vün ca s’è miss a la testa, per dirigere tutta la società. Era un giarò che ne sapeva di più degli altri».
I giarò di Po servivano tutto l’Oltrepo, «ognuno aveva la sua zona. Quando i cantieri avevano bisogno certa roba, venivano sui paesi dietro Po e compravano quello che gli serviva. I giarò del Borgo lavoravano praticamente per Pavia, a parte quando delle volte magari andavano fino a Casarile o Giovenzano a portare la ghiaia nuova per le strade. Allora dovevamo fare la gèra netta e si vuotava tutto con la barella, una vita da ladri. Le commesse, uno che ci serviva la merce, veniva giù a Pavia, conoscevano la piazza com’è, si mettevano d’accordo per il prezzo e i giarò ci portavano la roba».
A Pavia tra un ponte e l’altro scaricava Ricotti: «J erann tütt mutaiö. Ricott è una persona che ha sempre lavorato sul fiume, il papà e anche Carlino. Ha sempre lavorato, e ha mangiato tanta di quella – come si dice muchìa in italiano? Beh disuma j hann mangià tanta muchìa Carlen Ricotti e sò papà, e prima di pronunciare il nome “Ricotti”, “Migliazza” e tutti gli altri giarò, prima di parlare di loro bisogna che si lavano la bocca per parlare. Freddo, gelo, muchìa, fango, sete e sonno: le hanno provate tutte. Avevano due barcè vecchi e senza asino, tiravano sempre di spalla. Se poi le cose sono cambiate e Ricotti è diventato un signore, è per la grande tenacia, perché ha lavorato senza sperperare e lavorando tanto che nessuno si sogna di notte, sia lui, sia i Re e tanti altri».

«Avevo una battella di cemento»

Erminio Bergonzi, classe 1902, era un renaiolo e navarolo di Rea Po: «Avevo una battella di cemento e andavamo a fare la sabbia e la ghiaia, con un badilone grosso così, uguale a quello dei borghigiani. La ghiaia la scavavamo con un badilone appuntito, e con questo andavamo fino a un metro e cinquanta, due metri. Noi stavamo sulla barca, tutte le badilate erano venticinque-trenta chili… Una volta c’erano anche quelli che entravano nell’acqua: andavano dentro belli che nudi, dalla mattina alla notte – il padre di Naghi, Renzo, il padre del Caporale. Erano quattro fratelli e facevano proprio quel mestiere, andavano dentro l’acqua, sotto tanto così, e uno col badilone che rompeva la sabbia sul fondo e l’altro a curdà, a fare la ghiaia pulita col setaccio».
Un altro mestiere “integrativo” era la raccolta dei sassi, che più spesso veniva fatta dai bassifondi sommersi, tenendosi accanto la barca nella quale il sasso appena raccolto veniva buttato, e badando bene che la barca rimanesse sempre in pieno galleggiamento. La raccolta a terra, che pure si faceva, era meno comune. Si cercavano soprattutto sassi completamente bianchi, d’aspetto marmoreo, più frequenti nel medio corso del fiume, che andavano alle fabbriche di ceramica e di piastrelle. C’era anche, molto meno intensa, una raccolta di ciottoli d’ogni colore per pavimentare le strade urbane: questi tipici acciottolati si possono ancora vedere, deliberatamente conservati, nel centro storico di Pavia. Era, ed è, una pavimentazione scomoda per chi ha i “piedi dolci”, ma straordinariamente adatta al clima umidissimo e nebbioso: infatti l’acciottolato asciuga prima di ogni altra pavimentazione e fa asciugare anche il terreno sottostante, che attraverso di esso «respira» come non fa sotto l’asfalto.

3 (continua)

“Il Ticino”, 24 marzo 2023

Mangiano bambini

21 marzo 2023

La guerra nella guerra dei bambini ucraini rapiti
di Giovanni Giovannetti

salvami

Stando al consigliere del sindaco ucraino di Mariupol Petro Andriushchenko, nella città martire «i militari russi hanno portato via con la forza circa 150 bambini» ricoverati in un ospedale (18 aprile 2022), per trasferirli nel Donetsk occupato.
No, contrordine: lo stesso 18 aprile, il presidente della Repubblica ucraina Volodymyr Zelensky denuncia la scomparsa di «circa 5mila bambini deportati dalla regione di Mariupol in Russia».
Di più, molti di più: è ancora Zelensky il 14 luglio a segnalare che «230mila bambini sono stati rapiti dai russi». Ma non erano cinquemila? Già, cinquemila nella sola regione di Mariupol. Sta a dire che i rimanenti 225mila sarebbero stati «rapiti» in altre parti del Paese.
Tanto basta alla Corte internazionale dell’Aja (il principale tribunale per i crimini di guerra, un organismo che però non viene riconosciuto da Paesi come Stati uniti, Cina, Russia, India, Israele e… Ucraina) per disporre l’arresto simbolico di Vladimir Putin e di Maria Lvova-Belova – la commissaria russa ai diritti dei bambini – per aver compiuto, questa l’accusa, crimini contro l’umanità. E criminale sarebbe l’aver disposto «la deportazione illegale di popolazione» nonché il trasferimento nella Federazione russa «di 16.221 minori dalle aree occupate dell’Ucraina», lì dove si combatte e si muore, «prelevandoli da orfanotrofi e case di accoglienza senza prima verificare l’effettiva esistenza di familiari o altri adulti di riferimento o ancora la disponibilità delle autorità ucraine a farsene carico». Il tutto nel superiore interesse di questi minori. Nelle diciotto pagine scritte a l’Aja viene anche ipotizzato il genocidio.

I conti non tornano

La narrazione dei bimbi rapiti oppure deliberatamente uccisi è un topos ricorrente nella propaganda bellica di tutti i tempi, tendente a screditare il nemico. In tempo di pace lo si era detto anche dei russi sovietici mangiatori di bambini o degli zingari sporchi brutti e cattivi. Ora si torna a dirlo dei russi, ma senza passare per l’“Operazione Babylift”. Chi se ne ricorda? Nell’aprile 1975 alcune migliaia di bambini vietnamiti vennero “evacuati” dagli americani in fuga da Saigon e poi dati in adozione ovunque nel mondo. Non tutti erano orfani.
Zelensky è in guerra, Putin è in guerra, le “fonti” sono tossiche mentre scarseggiano quelle “indipendenti” che, in surroga al servizio pubblico, permetterebbero di fare luce sulla poco edificante vicenda. Difficile venirne a capo, ma pare certo che nel frattempo i russi assalitori abbiano sfollato oltre confine (secondo Kiev, «deportato») più di tre milioni di ucraini russofoni. Questi esuli – famiglie, anziani e bambini – sarebbero ospitati in 9.500 centri di accoglienza temporanea, campi di smistamento (secondo Kiev sono «lager») o alberghi come quello di Belgorod, Russia, raccontato da Alessandro Di Battista il 17 luglio scorso: «l’hotel è affollato di bambini e di ragazzi. I piccoli hanno a disposizione una stanza giochi dove lavorano due animatrici. Gli adolescenti passano il tempo giocando con il cellulare o provando balletti», scrive Di Battista sul “Fatto quotidiano”.
Un passo di lato ed eccoci a Donetsk. Qui una troupe di “Report” (Rai tre) ha potuto intervistare alcune donne fuggite da Mariupol, bypassando la disinformathia speculare di Mosca e di Kiev: «L’Ucraina ha affermato che la Russia sta deportando le persone da Mariupol», domanda Manuele Bonaccorsi di “Report”: «Ma smettetela!», risponde una di loro; e l’amica che le sta accanto: «Nessuno ci ha deportato. Stiamo solo lasciando l’inferno. Abbiamo persone sepolte sotto ogni casa, ci sono croci in tutte le strade. Hanno messo l’artiglieria tra gli edifici residenziali anche se c’era scritto “bambini” sui muri».
Dopo il 24 febbraio 2022 sei milioni di ucraini – donne, bambini e anziani –sono fuggiti dalla guerra verso occidente e altri verso Oriente. Ma i primi sono considerati «esuli», i secondi «illegalmente deportati». I «deportati», quasi tutti russofoni, potranno ora ottenere la cittadinanza russa attraverso una procedura semplificata. In particolare, le porte sono aperte per «gli orfani o i bambini ucraini lasciati senza cure parentali». Una norma che si applica tanto ai profughi giunti in Russia, quanto ai ragazzi che risiedono nei territori di Lugansk, Donetsk, Kherson e Zaporizhzhia, ovvero in regioni dove i russi non sono il diavolo: Gian Micalessin (altro veterano del giornalismo italiano d’inchiesta, uno che da anni segue “sul campo” il conflitto nel Donbas) riferisce infatti che da quelle parti, piaccia o meno, i russi invasori vengono quasi sempre applauditi come “liberatori”.
Secondo l’agenzia stampa russa Interfax, tra febbraio e giugno 2022 quasi due milioni di persone, di cui 300mila bambini, «sono state evacuate in Russia dalle regioni in guerra di Donetsk e Lugansk» (18 giugno 2022), a fronte, replicano però in Ucraina, «di 5.097 denunce di rapimenti di minori». L’accusa è grave, ma gli atti della Corte dell’Aja sono secretati e diventa arduo saperne di più: il Tribunale protegge le sue “fonti” e i giornali riportano sempre le stesse storie: una gita scolastica in Crimea senza ritorno… un minore di Karkiv gravemente ferito e operato in un ospedale di Mosca… un nonno che dagli Stati uniti chiede il ritorno della nipote dopo la morte dei genitori… Tutte storie da cui peraltro emerge la volontà russa a favorire il ritorno di questi minori alle loro famiglie, se individuate.

Via dalla guerra

Bambini ucraini deportati? Qualcuno lo ha definito «un orrore per certi versi simile a quello dei figli dei desaparecidos argentini». Che dire… Intanto che questi minori esuli nell’Unione europea o in Russia – chi perché rimasto orfano, chi assieme a uno o più familiari – sono ora lontani dalle bombe e dal trauma della guerra. È solo un punto di vista? No, è un dato di fatto: non muoiono e non vedono morire. Anche questo risponde al superiore interesse dei minori.
Quanto agli orfani, scrive Ilaria Romano in openmigration.org, in Ucraina dopo il 24 febbraio 2022 «264 istituti di accoglienza per minori in difficoltà sono stati evacuati per ragioni di sicurezza, per un totale di 6.465 bambini e adolescenti residenti, riallocati in altre zone del Paese (2.375) o all’estero (4.090)».
Prima dell’aggressione russa, in Ucraina si contavano 702 tra orfanotrofi, strutture sanitarie pediatriche di riabilitazione e case-famiglia, gestite dallo Stato o da privati. Ma al contrario di quanto si è indotti a pensare, avverte Romano, la maggior parte di questi minori non sono orfani, ma bambini «allontanati dalla famiglia d’origine per problemi di varia natura, dalle dipendenze da alcol e stupefacenti dei genitori o a seguito di maltrattamenti e incuria»; bambini che a volte «sono affidati a terzi dalle stesse famiglie per eccesso di povertà, prima causa di abbandono». E si tratta di ben 105mila minori, al più ospitati in strutture fatiscenti e senza risorse: ne conseguono la scarsa assistenza medica, la presenza di un solo educatore ogni 30-40 minori, la carente formazione del personale, l’abbandono emotivo dei bambini e tante altre negligenze. Insomma, come si legge nel rapporto Left Behind in the War del Disability Rights International (una charity statunitense), la situazione era poco edificante anche prima del conflitto.
Stanno forse meglio buona parte dei bambini ucraini, soli o accompagnati, accolti in occidente: il 47 per cento è in Polonia, campione d’accoglienza. Seguono la Germania (il 14 per cento); l’Austria (il 6); l’Italia (il 5); la Turchia (il 4); la Repubblica Ceca, la Spagna e i Paesi Bassi (il 3); la Svizzera e la Romania (il 2).
Bambini di madrelingua russa «deucranizzati»? Genocidio culturale? Mi domando: se una famiglia italiana adotta un bambino ucraino, lo fa studiare come è nel suo diritto in una scuola pubblica e questo minore impara quanto meno la nostra lingua (dal febbraio 2022 ne sono giunti più di novemila, già inseriti nelle scuole italiane di ogni ordine e grado), lo si «deucranizza»? E già prima della guerra era ucraino il 3,9 per cento degli stranieri che risiedono in Italia.

Trafficanti di esseri umani

Ma la piaga nella piaga (bambini morti per la guerra di Putin a parte) a noi pare quella dei tanti minori spariti nel nulla perché senza genitori o tutori e finiti nell’orbita dei trafficanti di esseri umani oppure nelle reti della pedofilia, quando non dei trafficanti d’organi (loro sì rapiti!). Come ha detto Ernesto Caffo di “Telefono azzurro”, di questi bambini ucraini «se ne parla pochissimo, sono invisibili, arrivano in questi centri enormi» – Caffo parla dalla Polonia – «ma nessuno ha traccia di dove vanno». E poi «il traffico è un tema che non piace a nessuno ma è una realtà drammaticamente presente e in questo caso ci sono tutti i fattori che possono facilitarlo».

Romano Migliavacca, memoria storica del Borgo Ticino

18 marzo 2023

di Giovanni Giovannetti

Lavandaie sul Ticino

Il borghigiano Romano Migliavacca ormai non c’è più. Sposato a una lavandaia, è stato tra gli ultimi a praticare il mestiere del navarolo e del renaiolo. Ma era anche la memoria storica della vita di fiume. Romano apparteneva a una famiglia di lavandai: «Sempre in via Milazzo, sempre nella stessa posizione, la casa qui dietro. Erano lavandai di vecchia data. Papà dai 14 anni in poi (in famiglia erano sette o otto fratelli), lui e un fratello hanno fatto i lavandai. Gli altri fratelli, uno ha fatto il fabbro… Loro, hanno sempre fatto i lavandai, e dopo siamo arrivati noi, e poi io. Ma io, insomma, ho ancora una certa malattia, e non sono in grado di poter lavorare… Do una mano, magari andando a ritirare i panni con l’auto…
«Fare i lavandai era durissima. Alla mattina partiva il papà col carretto, e un aiutante dietro, alle otto e mezzo. Andavano in “città” (dicevamo così di Pavia, perché qui non siamo in città) ogni lunedì a raccogliere i panni sporchi, e giravamo dappertutto. Magari poi qualcuno aveva bisogno, e allora agli altri giorni c’erano gli “interventi”, ma la “base” vera e propria era il lunedì, quando andavamo alla “presa”. Si girava col carretto tutta la città: un cliente qua, uno là e via. Arrivava mezzogiorno e tornavamo, col nostro carretto di panni. Erano clienti fissi: qualcuno aveva panni ogni quindici giorni, un altro ogni otto, ma erano fissi. A casa, bisognava fare la divisione dei panni. Quelli colorati erano separati dai bianchi. Poi si portavano giù al fiume a bagnarsi, e poi si riportavano su… C’erano quei grossi mastelli di cemento, i panni venivano messi a strati, ogni cliente dei panni per traverso, così restava il segno: “un altro cliente”. Poi si mette giù nell’altro senso in modo tale, ecco, che ogni strato c’era il suo cliente. Dalla biancheria riconoscevamo il cliente perché come ho detto, erano clienti fissi e in pratica di ogni cliente si sapeva la biancheria intima. Seguiva il bucato: i panni si mettevano ammollo in acqua e lisciva, e si lasciavano lì tutta la notte, a macerare, tutti così impilati nel mastello. Si tiravano fuori la mattina presto, ci alzavamo alle tre di notte: i mastelli erano tutti in una stanza, con un fornello e una buca. Si tiravano fuori i panni dal mastello e si portavano al fiume per le macchie rimaste. Si lavavano: c’erano i graticci per lo scolo, il fornello per scaldare un po’ d’acqua e il fiasco di baciacia, gli dicevamo così la famosa candeggina. Si lavavano, poi su di nuovo: c’era il torchio per strizzarli, infine via in mezzo al prato, dove erano tirate le corde.

«Andavamo col carretto a mano»

«Era un lavoro da matti. Così dopo tanto tempo (io ero ancora un bambino) ci siamo fatta costruire una vasca in casa, con la pompa. Poi è venuta l’acqua potabile, nel ’35, e si è fatto l’allacciamento. Il guadagno era pochissimo, lo stretto necessario, ma tante ore di lavoro. Allora non c’era l’abbondanza che c’è adesso, adesso sono un po’ sofistici. Hanno fatto una vita i lavandai! Dalle tre di notte tiravano fino a sera. Magari fino alle dieci. Era un continuo prendere i panni di là, metterli di qua, poi ancora di là. E quel che ci siamo avanzati, bene o male, è un pezzo di terra per stendere i panni, qualche pertica: l’orto e dove stendere la biancheria.
«I panni si lavavano al lunedì, poi asciutti al martedì erano messi a posto cliente per cliente. Al mercoledì o giovedì si andava a consegnare. Andavamo col carretto a mano, o il figlio col papà, o il papà e qualcuno. C’era a casa tanti a far niente che qualcuno si trovava sempre, anche a dargli una scodella di minestra e un pacchetto di sigarette, e voltavano il mondo. E così facevamo il giretto, e portavamo via tutta la roba. Si finiva il giovedì e dopo si andava a raccogliere legna per il fornello. Andavo via la mattina presto e tornavo la sera tardi a casa, da far legna. Bisognava portarla su, segarla, spaccarla e metterla in pigna. Il lavoro era più d’inverno, perché tutti hanno freddo alle mani e allora non le mettono troppo nell’acqua, non era come adesso che c’è il riscaldamento. Ma ad ogni modo il lavoro suppergiù era sempre quello, un po’ meno d’estate, ma insomma… C’era abbastanza da vivere, era un mestiere che dava abbastanza per vivere, ecco. Finita la guerra tutti hanno cominciato a prendere la lavatrice. Prima uno, poi gli altri gli sono andati dietro, chi più grossa, chi… insomma, a seconda del bisogno ognuno la sua lavatrice. E si sono fermati, per penuria di panni, quando c’è stato il boom e tutti lavavano in casa e così è venuto un periodo di magra. Alcuni conoscevano tanti mestieri e, come dice il proverbio, morto un prete se ne fa un altro… Insomma, tutto si lega al lavoro».

La festa più bella era il Carnevale

Interrogato sui momenti di riposo e sulle feste, Romano Migliavacca ha aggiunto che «quando c’era festa in Borgo, per tutta Pavia si sentiva nell’aria. Corse in barca, in battellini a due e a quattro remi, o in “gondole” a due e a quattro remi; e si faceva il circuito motonautico, il raid. Arrivavano qui in via Milazzo; i borghigiani, e tutti i numerosi amici che avevamo in città: venivano tutti qui a trovare l’uno o l’altro. Stavano lì a mangiare e a vedersi la corsa. E via.
«La festa più grande del borghigiano, a dirla da lavandai, era Carnevale. A Carnevale si lavorava solo fino a mezzogiorno, poi si smetteva e si veniva su dalla riva a casa dell’uno o dell’altro. In cucina bolliva una grossa pentola, piena di salamini cotti, di ogni tipo, e magari uno o due lavandai e le loro lavoranti, e quel giorno era mezza giornata di baldoria: pigliavano la ciucca. Io allora ero bambino, mi mandavano via: «Va’ fuori tu, a giocare». L’unica festa proprio fatta per i lavandai era quella».

2 (continua)

 

“Il Ticino”, 10 marzo 2023

Le allegre lavandaie del Borgo Ticino

6 marzo 2023

di Giovanni Giovannetti

Negli anni Settanta del secolo scorso condussi un’ampia indagine sui vecchi mestieri di fiume al crepuscolo e la loro trasformazione, raccogliendo testimonianze orali e fotografie sulle vecchie professioni primarie (lavandaia, pescatore, ghiaiarolo, navarolo), saltuarie (la raccolta di sassi bianchi, la raccolta dell’erba lisca, la cerca dell’oro) e derivate (la fabbricazione di scope con la saggina, l’impagliatura di sedie con erba lisca, la fabbricazione di cesti con rami di salice) così da rendere visibile il processo di trasformazione dell’economia della Valle, un tempo vincolata al fiume per il reddito, e i mutamenti sociali – la nuova composizione del Borgo – che ne sono derivati. Quella ricerca “sul campo” viene ora pubblicata a puntate per i lettori del “Ticino”, il settimanale della Diocesi di Pavia. Si comincia con la professione “di fiume” per eccellenza: il mestiere della lavandaia.

Lavandaia sul Ticino

 

Ognuno aveva i suoi clienti

Le donne del Borgo Ticino di Pavia erano quasi tutte lavandaie. Gli uomini, mariti o padroni, davano una mano andando a cercare legna per il fugòn, preparavano l’acqua bollente per i panni o badavano ai fornelli e ai fuochi accesi a riva per scaldarsi. Ancora agli uomini spettava raccogliere e poi riconsegnare la biancheria e c’erano anche lavandai maschi. Intervistata nel 1979, li ricorda Angela Migliazza, “storica” lavandaia del Borgo: «Gavuzzi Emilio, Miu Gaùs al la fa ummò anca des. Gh’è me cüsin Barbagelata Angelo, quello che faceva andare i bagni, lo fa ancora adesso. Son gente che andavano giù a Ticino, anche mio cugino, a lavare; gh’era Gili, Pimpineta, ma son tutta gente che non ci sono più».
Le lavandaie e i lavandai del Borgo servivano l’intera provincia: ristoranti, alberghi, istituti religiosi, collegi e anche privati. La Migliazza («Ma’m ciaman tütti ‘Ngiuleta»), borghigiana, ex lavandaia, moglie di Paride Negri il barcaiolo, ricorda che: «in Borgo ognuno aveva i suoi clienti, s’immagina a Pavia quanti gh’n’è! C’era gente che avevano anche quella che ci andava a aiutare, i lavandai grossi, presempi Güstina’d Ciné, gh’n’avìa tre o quatar, pö presempi gh’era Nigi, e’l Trédas, ‘l fiò del Dionigi. Pö gh’era i Stantero, che adesso sua figlia è una maestra, laùra… gli Inglardi, tutti facevano i lavandai. Ce n’era così prima, sa la menta va, sfugge, perché tante cose…»

Specialisti nel lavare a mano

«C’era quelli che facevano solamente colore, ma noi facevamo tanto uno come l’altro. Di quei tempi, adesso si parla del Ventiquattro, Venticinque, ‘ntisei, Ventisette così, arrivava anche roba da fuori, da Casteggio, da Voghera con la coriera a cavalli e ‘lora c’era quella di andare a prenderli così. C’era una stalla in via Jacopo Menocchio dove ci sono quelle colonne e un’altra in via Beccaria, e poi qui al Gambarana, ‘lora c’era lì la “francesa”; eran tutte stalàs che rivavan tüt i curèe, e noi si andava lì a prender tuta la roba. Il sabato dopo portavano via quella pulita e ci portavano quella sporca. I clienti venivano da noi poi a pagare.
Non si può dire cosa si guadagnava. A fare la lavandaia lei poteva mangiare sempre, ma no da dire che lei poteva… Quando lei lavava un lenzuolo che prendeva venti lire, venticinque, cosa vuole. E poi avevamo anche i clienti per città che si andava ma-àri al quint pian, va be’ che gh’n’era poch ad quint pian, eco, mi ricordo che avevo otto anni che lì al Palazzo Devoto, mai capità d’andà ‘dsura lì?, ci sono quattro o cinque scale, arriva in fondo e ha pagato le scale de venir giù perché ci son tutte le scale. Lunedì, martedì, mercoledì, giù a canal. Dunque, al sabato e la domenica si andava per la città a raccogliere. io, per esempio, al sabato facevo corso Garibaldi, via Morazzone, piazza del Municipio, via Defendente Sacchi, poi piazza Castello, e poi si tornava per Strada nuova. La domenica faceva magare via XX Settembre e il giro tutto di là. C’era dei giorni che si andava giù anche a metà giovedì perché se il lavoro è tanto, gh’è tanta roba.
L’orario di lavoro era magari andà giù a canal a tre ur e finì la sira a vot’ur. D’inverno si andava giù presto, con la lanterna. Adesso ci sono gli stivali veramente, ma noi prima avevamo gli zoccoli con il cuoio sopra e le calse di lana, c’è quello che soffre il freddo, c’è quello che soffre meno, e poi bisogna lavorare! Quando il sacco che ci mettevamo davanti era bagnato si cambiava e se ne metteva un altro».

Le malattie professionali

Adele Ricotti è una anziana ex lavandaia. «Quando ho cominciato, si andava giù sulla riva, con un grembiule di sacco legato per traverso sul davanti, una giacca pesante, che faceva freddo, e un cappello in testa come quello del monumento alla lavandaia di Scapolla, in Borgo. Dietro di noi c’era sempre un fornello a legna che bolliva l’acqua: e se lavando le mani diventavano gelate, correvamo là a scaldarcele. Poi si tornava a lavare, a sapone e spazzola (la spazzola ce l’ho ancora) e alla sua ora avevamo fatto la nostra pigna. E quando era il momento di prendere i panni per andare a lavarli, veniva da dire: ‘Neh!’ perché si andava giù a volte a mezzanotte, per sbrigarcela presto, e il padrone arrivava a casa dalla raccolta dei panni che noi andavamo a lavare. Il padrone portava i panni raccolti un po’ a Broni, un po’ a Stradella, col carretto e il cavallo. La sua gente di casa, la sorella, la moglie, la mamma, dividevano i fagotti dei panni dei signori clienti. Noi giù aspettavamo che ce li gettassero: poi li bagnavamo, li insaponavamo, infine si faceva su di nuovo il fagotto, che venivano a prendere con il carretto, per metterli nel mastello, uno sopra l’altro. Quando erano lavati, si portavano a torcere e poi a asciugare, nella stanza con la stufa se era d’inverno; ma d’estate nel prato, con tutti i fili tirati, ogni tot un palo e un pezzo di legno. Si legava la corda dall’uno all’altro, e una volta asciutti i panni, si raccoglievano e si piegavano, e si riconsegnavano ancora ai signori clienti. Cominciavamo a lavare al lunedì e a volte si andava avanti fino al giovedì e al venerdì, secondo quanti erano i panni. A lavoro finito, il padrone ci faceva trovare pronti a casa sua i mucchietti di soldi che ci doveva».
I vecchi mestieri sono quasi del tutto scomparsi, ma nessun ghiaiarolo o lavandaia rimpiange la fatica di un tempo; semmai la giovinezza; e, con l’età, si patisce per le artriti, i reumatismi e le altre malattie professionali. Si rimpiange la salute, quella sì, lasciata in riva al fiume.

1 (continua)

“Il Ticino”, 3 marzo 2023

L’esca

4 marzo 2023

Sul furto del Salò di Pasolini e del Casanova di Fellini
di Giovanni Giovannetti

Da quella triste notte son passati più di quarantasette anni, ma tuttora l’assassinio di Pier Paolo Pasolini non smette di suscitare accesi dibattiti. Se ne torna a parlare anche perché l’avvocato Stefano Maccioni ha lanciato in rete una raccolta firme per chiedere la riapertura delle indagini sui numerosi aspetti mai chiariti del massacro di Pasolini, tanta è la distanza che ormai separa la “verità” giudiziaria (Pino Pelosi unico responsabile) da quella “storico-giornalistica” (al delitto concorsero più persone). Obbiettivo dichiarato dell’appello erano le cinquecento adesioni; in poche settimane se ne sono avute quasi ottocento. Serviranno a sostenere la nuova istanza inoltrata il 3 marzo scorso alla Procura romana per dare finalmente un nome ai responsabili materiali e ai possibili mandanti di questo barbaro delitto compiuto la notte tra l’1 e il 2 novembre 1975 all’Idroscalo di Ostia.

L’esca

Ma c’è chi sembra preferire altre “verità”. Il “Venerdì di Repubblica”, ad esempio, ha da poco dedicato una “controinchiesta” di Marco Cicala – ben due puntate – alla morte violenta di Pasolini e al furto delle pizze del suo film Salò o le 120 giornate di Sodoma, avvenuto alla Technicolor di Roma nell’agosto 1975 e poi usate come esca per l’agguato allo scrittore. E qui il giornalista ne ha un po’ per tutti, men che per sé stesso.
Riepiloghiamo. Nell’estate 1975 – sono tempi di sequestri di persone – dalle celle frigorifere della Technicolor in via Tiburtina a Roma vengono sottratte quindici bobine del film Salò di Pasolini assieme a nove del Casanova di Federico Fellini e a cinquanta di Un genio, due compari, un pollo di Damiano Damiani, uno “spaghetti-western”. Queste bobine sono tolte dai contenitori metallici e caricate con tutta calma sopra un furgone. La loro restituzione viene in seguito subordinata al versamento di due miliardi di lire ma, Casanova a parte, produttori e autori, d’accordo sulla linea della fermezza, preferiscono potare a buon fine il lavoro recuperando alcune scene di ripiego. Sono così narcotizzate le venalità dei rapitori.
2 maggio 1976: ventiquattro di queste bobine vengono lasciate in un capannone di Cinecittà, ma «di quali film? Non è dato sapere», scrive Cicala.
E dire che ventiquattro è la somma di quindici (il numero delle “pizze” di Salò sottratte) più nove (le “pizze” del Casanova). Sono due film della Pea, la casa di produzione cinematografica di Alberto Grimaldi, più che altro interessata al recupero di alcune scene del costosissimo Casanova (il western di Damiano Damiani era prodotto dalla Rafran di Sergio Leone).
La pur tardiva restituzione dei due film in quota Pea è resa possibile dall’intervento di Nicola Longo, un poliziotto, un ex infiltrato negli ambienti della “mala” romana incaricato, si capisce, del recupero non tanto di Salò quanto del Casanova. E infatti, una volta dissequestrati, i negativi di Salò prenderanno la via del magazzino. Il motivo è semplice: a differenza del Casanova – ancora in lavorazione – il film di Pasolini era ormai uscito nelle sale (per pochi tormentati giorni in Italia; trionfalmente in Francia) con qualche modifica e senza la scena finale, perduta, in cui tutta la troupe, compreso Pasolini, balla il boogie woogie.
I negativi ritrovati di Salò andranno in seguito distrutti. Perché? Un giorno Grimaldi viene aggredito mentre sta rientrando a casa con la moglie e gli aggressori non si limitano a sottrargli il portafogli e l’orologio. Qualcuno poi lo avverte che, dopo i film, ben di peggio a rischio rapimento sono i suoi figli, e allora il produttore porta la famiglia al sicuro negli Stati uniti. Ma prima di andarsene provvede a restituire i magazzini-deposito che aveva in affitto, svuotandoli sbrigativamente. Perduti in questo modo anche due episodi, tagliati, del Decameron di Pasolini.

La banda

Tanto serve a Cicala per concludere che su «Salò e la “pizza connection” resta parecchio da chiarire» (ne conveniamo) e che l’omicidio Pasolini è ormai materia da libri di storia, «non romanzi fantasy».
Ed è davvero fantastico quanto Cicala manda in scena nel primo tempo di questa sua fiction sul “Venerdì” del 10 febbraio scorso (la seconda puntata è uscita il 17 febbraio): i negativi sottratti del Salò? Cicala li certifica «Non più necessari» (e le scene malamente raffazzonate per interpositivo? e la scena finale del ballo collettivo a cui Pasolini tanto teneva?). Quanto alle “pizze” di Salò usate come esca, per Cicala sono «interpretazioni», un modo per trascinare «dentro il caso PPP una nuova congerie di personaggi insondabili: futuri esponenti della banda della Magliana, biscazzieri di borgata, mediatori fantasma, poliziotti infiltrati nel sottobosco criminale…»
“Congerie di personaggi insondabili” o insondati? “Interpretazioni” o fatti collegabili tra loro? Del «mediatore fantasma» vengono indicate le sole iniziali: S.P., ovvero l’arcinoto Sergio Placidi. Sul resto, proviamo a fare ordine dando voce a quanto ha più volte riferito Maurizio Abbatino, una figura apicale della tremenda banda della Magliana, e non di meno uno degli gli autori del furto alla Technicolor.
Poco dopo la visita alla Technicolor qualcuno telefona a Pasolini e nei giorni a seguire, come ricorda Abbatino, lo scrittore si recherà personalmente nella bisca di Franco Conte (il committente del furto; un personaggio vicino alla destra eversiva romana) per negoziare la restituzione dei negativi di Salò. Lo dice Abbatino, lo ha confermato il critico cinematografico Gian Luigi Rondi a Unomattina (Rai 1) il 2 aprile 2016, commentando il film di David Grieco La macchinazione: subito dopo quel contatto, ricorda Rondi, Pasolini «mi telefonò e mi disse “che cosa posso fare? Qui mi parlano della banda…”»
La Magliana? A detta di Cicala, nel 1975 la banda della Magliana «non era ancora costituita». Lo spieghi però ad Abbatino, che ne era stato il fondatore: per l’ex criminale, poi collaboratore di giustizia, la banda della Magliana «c’era fin dai primi anni Settanta e nell’ambiente era già chiamata così». E questo è un fatto. Sempre Abbatino segnala che nella bisca di Conte, proprio lì, la banda teneva le sue riunioni.
Rondi a Pasolini: «Gli ho detto “stai attento, non frequentare quella gente”, e difatti quella gente arrivò di sua iniziativa, senza che lui la chiamasse». Pasolini era disperato, «“ho fatto un lavoro molto impegnativo e ora non ho più nulla”. Gli hanno detto “te lo diamo il primo novembre all’idroscalo di Ostia, tu vieni a tarda sera”». Si aggiunga che in quell’ottobre 1975 Pasolini riferisce all’amico e sodale Sergio Citti di aver raggiunto un accordo e d’avere un appuntamento con loro la sera del primo novembre ad Acilia. Come ricorda Rondi, «lui andò tranquillamente con la sua macchina ed è accaduto quello che è accaduto».
Insomma, Cicala scrive che dei negativi rubati Pasolini «non aveva più bisogno» mentre Rondi, citando Pasolini, afferma l’esatto contrario. Ad ogni buon conto, è indubbio che Pasolini si era speso per tornarne in possesso. Ed è ancora più evidente che l’inferiore qualità delle scene ricavate dall’interpositivo (un nuovo negativo ottenuto per contatto da un positivo) e il possibile recupero delle immagini finali del ballo (quest’ultima definitivamente perduta) potevano giustificare, eccome, quel dannato viaggio ad Acilia o all’idroscalo di Ostia. All’autore di Salò hanno detto che i negativi trafugati glieli avrebbero resi gratuitamente, o quasi: che portasse qualche spicciolo «per il disturbo»; spiccioli come i contanti che Pasolini quella notte recava con sé, sotto il tappetino della sua Alfa Romeo GT 2000. Ma è un’imboscata e lo ammazzano.
Al dunque: chi ha ucciso Pasolini? Per Cicala non sono stati i fascisti («elevata a movente dell’omicidio – scrive – la tesi della vendetta fascio-nostalgica appare facilotta») e chissà se è vero, ma negli ambienti post-criminali e in quelli della destra eversiva di allora i nomi si sanno e a volte si fanno. Quanto all’apertura di nuove indagini, annota Cicala, «Evitiamo al poeta questo ennesimo oltraggio».
Oltraggiosa a noi pare invece la cancellazione del “concorso con ignoti” della sentenza d’appello su Pelosi (4 dicembre 1976): una messinscena pensata a tavolino e resa “credibile” da indagini approssimative quando non pilotate. Oltraggioso è semmai il mancato perseguimento della verità sulla morte di Pasolini e di molti altri in quegli anni, dalle vittime di piazza Fontana a Milano nel 1969 a quelle dell’aereo di Ustica nel 1980, in un Paese civilmente fragile. E a dirla tutta, la verità su un delitto impunito dovrebbe interessare a chiunque, anche a Cicala, perché – lo si legge nella petizione di Maccioni – «verità e giustizia non sono una concessione, ma un diritto. Senza scadenza».

Banale, stupido inquinamento dell’aria

3 febbraio 2023

di Paolo Ferloni

Due aggettivi sgraziati per un sostantivo che oggi è peggio di una parolaccia, è un ricorrente insulto alle popolazioni della povera, pur se ricchissima, pianura padana.
Sempre rammento quando in un’assemblea popolare a Corteolona, dopo l’incendio che nel gennaio 2018 distrusse per parecchie ore rifiuti e gomme in un capannone, molti interventi accorati – femminili, in particolare – lamentarono che non si sa niente della qualità dell’aria, le autorità non informano, nessuno ci avverte sui pericoli per la salute. Lamenti ed accuse rivolti a enti, cioè a sindaci, province, regioni che non dicono e non fanno. Ebbene, va detto con forza che non è vero: ci sono misure, analisi, studi, pubblicazioni, statistiche, libri e tutto quanto la scienza contemporanea sa fare ci è ormai ben noto, se si vuole. Basta lèggere, occorre informarsi. E di documenti e informazioni ce ne sono e se ne trovano un sacco. Anche se li ignora il presidente della Lombardia.
Per quanto riguarda l’aria, due giorni fa è stato pubblicato da Legambiente il rapporto Mal’Aria di città 2023 con il modesto sottotitolo cambio di passo cercasi. Ne ha parlato la stampa nazionale e quella locale, si veda ad es. su “La Provincia Pavese” del 31 gennaio 2023 la pagina intera curata con attenzione da Stefania Prato, dal titolo “Aria malata di smog…Pavia tra le 29 città più inquinate d’Italia”. Per i buoni pavesi non ci sarebbe nient’altro da aggiungere, se non suggerire la lettura integrale del breve rapporto, sono solo 23 pagine con tabelle di dati sulle polveri sottili e gli ossidi di azoto (https://www.legambiente.it/wp-content/uploads/2021/11/Rapporto_Malaria_2023.pdf).
Ma per capire bastano anche le prime tre righe di esso: «Decresce troppo lentamente l’inquinamento atmosferico nelle città italiane mettendo a rischio la salute dei cittadini che cronicamente sono esposti a concentrazioni inquinanti troppo elevate».
Da qui si capisce che c’è una decrescita felice, di polveri e di ossidi d’azoto, ma è troppo piccola, è troppo lenta. C’è a Pavia, sì, come a Cremona e a Mantova e a Milano, ma ci sono anche i morti in soprannumero dovuti all’aria inquinata, come ha avvertito nell’Ottobre 2022 la Agenzia Europea dell’Ambiente, si veda (https://www.eea.europa.eu/themes/air/health-impacts-of-air-pollution), sottolineando il legame tra esposizione a polveri sottili (PM 2,5 e PM 10) e tumori, diabete di tipo 2, obesità, malattia di Alzheimer, demenza e malattie degli apparati respiratorio e cardiovascolare.
Assieme alle note caratteristiche geofisiche del bacino del Po, cronica emergenza, criticità acute, poco o nessun rispetto delle norme uniscono le città delle regioni settentrionali in una generale tendenza al minimo intervento ed alla paziente quanto stupida sopportazione.
Il Rapporto per la verità avanza alcune intelligenti proposte, sull’esempio di grandi città straniere. Ma a meno che non sopravvenga una serie di poco probabili quanto auspicate precipitazioni a ripulire l’atmosfera che i nostri motori, industrie e camini sporcano sistematicamente, l’esperienza ci consiglia un sereno scetticismo.

Porajmos, la più che rimossa “Shoah tzigana”

28 gennaio 2023

di Giovanni Giovannetti

La grande poetessa svizzera Mariella Mehr, zingara, riteneva che bisognasse favorire l’ascesa in Europa di una élite culturale propria, così da ridare voce e credito al popolo Romanì.
Per esempio, quando nei media e nel senso comune si parla dell’Olocausto, istintivamente si pensa agli ebrei e solo agli ebrei, dimenticando che anche gli zingari, fra gli altri, furono dai nazifascisti derubricati a non-umani. Ad ogni 27 gennaio, ricorrenza della Giornata della Memoria, prevale quindi il ricordo della Shoah, termine che vuole indicare lo sterminio di sei milioni di esseri umani di religione ebraica. Una enormità, che va ad eclissare la memoria di altri genocidi, come appunto quello del popolo zingaro (Rom, Sinti, Jenisch).

Gli indifferenti

L’élite culturale zingara invocata da Mehr tuttora fatica a manifestarsi e di conseguenza la memoria dell’Olocausto – la più grande tragedia del Novecento, una delle più cupe pagine della storia dell’umanità – parrebbe affare che riguarda i soli ebrei.
Lo dico con tutto il garbo e il rispetto che un argomento così delicato richiede: chi è in condizione di farlo – e cioè tutti coloro che, a differenza del mondo zingaro, hanno accesso ai media – dovrebbe anche ricordare quanto meno la “Shoah zingara”, ovvero l’altrettanto efferato massacro di centinaia di migliaia di zigeuner nei lager nazisti di Auschwitz e Treblinka e in quelli balcanici di Jasenovac in Croazia, con il pieno appoggio dell’Italia fascista, e di Semlin presso Belgrado. Erano anche loro usati come cavie negli esperimenti “scientifici”; e molti zingari (uomini, donne, bambini) nemmeno videro i campi di sterminio perché, fuori da ogni contabilità, vennero uccisi davanti a casa loro.
Tutto questo è potuto accadere nello stesso clima di colpevole silenzio, nella stessa apatia morale e con la stessa ammorbante indifferenza di chi, in Italia come nel resto d’Europa, ha lasciato che si discriminassero e poi si deportassero e si uccidessero milioni di ebrei.
In Romania nel biennio 1941-’42 il governo filo-nazista di Ion Antonescu deportò 25mila zingari in Transdniestria, una zona compresa tra la Moldavia e l’Ucraina sovietica occupata dai tedeschi. In pochi hanno fatto ritorno e quasi tutti i Rom rumeni oggi in Italia hanno in famiglia uno di questi lutti.
Si ritiene che almeno 700mila zingari siano stati massacrati dentro e fuori i campi di sterminio, il 70 per cento dell’intera popolazione. Questo genocidio i Rom serbi lo chiamano Porajmos, un percorso di morte condiviso, assieme agli Ebrei, con circa 9mila omosessuali e transessuali, 1500 testimoni di Geova e un numero imprecisato di disabili, malati di mente, comunisti e pentecostali. Di questi ultimi (una declinazione del protestantesimo) il sottosegretario all’Interno Guido Buffarini Guidi sosterrà che erano pratiche religiose «contrarie all’ordine sociale e nocive all’integrità fisica e psichica della razza». A loro aggiungeremo altri “indesiderati”, come i circa 45mila militari italiani che, deportati nei campi di lavoro coatto in Germania, da questi luoghi infami non usciranno vivi.
Come è potuto accadere? Per derubricare l’altro a nemico servono uno sguardo deumanizzante (così da negare i tratti costitutivi dell’umano, direbbe Chiara Volpato) e la creazione del “falso conflitto”: noi-loro (o noi o loro), ovvero la menzogna della conflittualità che vede l’altro relegato a non-umano alieno e inanimato, tanto da legittimare il peggiore arbitrio: ieri con zingari, omosessuali e soprattutto ebrei. Oggi con ebrei, omosessuali e soprattutto zingari.

Un popolo di troppo

Se nella Germania nazista e nell’Italia fascista gli zingari erano considerati l’emblema dell’asocialità, non di meno le discriminazioni ai loro danni si prolungheranno nel dopoguerra.
Il 5 settembre scorso si è spenta Mariella Mehr, una delle voci più alte della poesia europea del nostro tempo nonché luminoso punto di riferimento per chiunque tra noi ha mosso anche solo un dito in favore dei diritti delle minoranze etniche e degli oppressi: Mariella Mehr, di etnia Jenisch, apparteneva infatti alla minoranza più discriminata e vessata del suo Paese. Sì, perché dal 1926 al 1974 (avete letto bene: 1974!) nella socialisteggiante Svizzera 600 bambini Rom sono stati sottratti alle famiglie e le loro madri sterilizzate nell’ambito dell’operazione Kinder der Landstrasse, che si proponeva l’estirpazione del «fenomeno zingaro». Questa attività ha avuto fra le ultime vittime proprio Mariella: nata nel 1947, sottratta bambina alla madre, come la madre e la nonna ha subìto l’allontanamento del figlio ed è stata resa sterile: un tormentato percorso tra orfanotrofio, istituti psichiatrici, violenze, stupri, elettroshock di cui troviamo traccia nei romanzi della “trilogia della violenza” (Il marchio, Labambina, Accusata). Tutto questo ha avuto fine solo dopo la denuncia pubblica da parte di Mariella, sostenuta da alcune femministe.
Non più forni crematori, ma «fosse stato per il sindaco, i Rom li avrebbe messi sopra un treno e mandati via». Sono parole di un primo cittadino italiano già membro della Commissione etica di un partito “progressista” che, nel 2008, nuovo secolo, parlava di sé in terza persona. L’anno prima, lo stesso sindaco – un dirigente scolastico – aveva sentenziato che «nessuno di questi bambini verrà prossimamente inserito nelle scuole perché farlo costituirebbe un incentivo per le famiglie a radicarsi sul territorio», disdegnando così la Costituzione, i diritti universali dei minori e il buonsenso.
Un popolo “di troppo” si aggira per l’Europa e anche a sinistra vi fu chi sconsideratamente minacciò deportazioni “sopra un treno”.

Vecchi e nuovi pregiudizi

Nel maggio 1945, lacera, sporca, incattivita, Liliana Segre, reduce dall’inferno di Auschwitz-Birkenau (è tra i pochi sopravvissuti), può fare ritorno a Milano. Ma il portiere della sua abitazione al numero 55 di corso Magenta non la riconosce, e la allontana: «Via, via le zingare…», dirà.

Incredibile, ma l’anti-ziganismo e la romofobia – il pregiudizio razziale oppure quello dettato da istintiva paura – abitano in noi, nel “falso conflitto” con stranieri, diversi e poveracci, o con chi semplicemente la vede in modo diverso, trasformati in valvola di sfogo, per dirla con Bauman, «delle nostre inquietudini, della nostra insicurezza, del nostro disagio verso i problemi autentici».
E non da ora. Gli anni Cinquanta e Sessanta sono infatti decenni in cui in Italia (limitiamoci al nostro Paese) assistiamo al lento processo di sedentarizzazione e di perdita delle identità culturali zigane, percorso che ha portato al progressivo avvicinamento alle città degli zingari italiani e balcanici (fuggiti in Italia dopo la presa del potere da parte di Tito in Jugoslavia e di nuovo negli anni Novanta, per salvarsi dal conflitto), con la loro ghettizzazione in enormi, periferici «campi per i nomadi», ovvero aberranti luoghi di convivenza forzata che hanno limitato i processi di inclusione e il pieno accesso al sistema dei diritti. Una grande occasione sprecata. Finita l’epoca romantica del nomade giostraio o dedito al riciclo dei materiali di recupero, si sarebbe dovuto investire su scuola e lavoro, e su patti di reciprocità. Invece hanno avuto spazio i pregiudizi e i processi di marginalizzazione più autodistruttivi (nei campi si registrano forme elevate di tossicodipendenza). La strategia del rifiuto e dell’abbandono, insieme allo sgombero dei campi-ghetto senza disegnare un’alternativa, ha potuto solo spostare il problema, poiché sospinge Sinti e Rom tra i «perdenti radicali» di cui ci ha parlato Enzensberger, con il pericolo di vederli reclutati dalla criminalità.
Ecco, a superare i vecchi e i nuovi steccati potrebbe concorrere un maggiore coinvolgimento dei Sinti e dei Rom nei riti della sfera pubblica, specie quelli, come il Giorno della Memoria, che li riguardano più direttamente e in profondità. Un degno passo lo ha fatto il presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel suo discorso del 27 gennaio. Si spera che a lui possano accodarsi altri, anche dalle Sinagoghe, nel comune vincolo a ricordare che lega tutti, proprio tutti i popoli e le minoranze perseguitate e discriminate di questa nostra Terra.