Archive for the ‘roberto saviano’ Category

ZeroZeroZero

9 aprile 2013

Romanzi che ci difendono dal giornalismo
di Tiziano Scarpa *

Leggeremo una quantità di puttanate intorno al nuovo libro di Roberto Saviano, ZeroZeroZero. La prima, tempestivamente, arriva oggi da Enrico Deaglio su “il Venerdì di Repubblica”. Eccola: «Gomorra, il saggio-romanzo scritto per Mondadori, il libro che ha cambiato il modo di scrivere sulla realtà italiana, un calcio alla commedia, all’intimismo e ai cannibali».
In questa frase c’è tutta l’ideologia della nostra epoca. Consiste in un’idea esclusivamente giornalistica della realtà, della vita, del mondo. I giornalisti, come dice la parola con cui si autodefiniscono, sono gli specialisti del giorno. La loro è una forma particolare di imporre il tempo: lo presentano in forma di ordine del giorno, lo giornalizzano, lo impaginano. Nella versione giornalistica, il giorno che deve essere condiviso da tutti si presenta in forma di elenco delle notizie giudicate più importanti, incasellate in sezioni, messe in ordine gerarchico da quotidiani, notiziari, telegiornali, siti. Secondo quella particolare ideologia del tempo chiamata giornalismo, tutti dovremmo guardare con questo stesso occhio, tutti dovremmo ossequiare la stessa gerarchia di fatti, fenomeni, esperienze. La realtà è quella.
Chi testimonia l’esistenza di altro fa “commedia”, fa “intimismo”, fa roba da scrittori “cannibali” (a Deaglio sfugge completamente la capacità di spiegare la “realtà italiana” che si trovava nei romanzi e racconti più significativi degli anni cannibali, come Woobinda, Fango, Puerto Plata market, Io non ho paura). Per Deaglio esiste solo la realtà giornalistica.
La letteratura contrasta questa descrizione, questo tremendo falso ideologico che, con gli strumenti di una illusoria oggettività (illusoria perché impaginata, perché ordinata gerarchicamente), amplifica e rende reale l’ordine del giorno a forza di ripetizioni, grazie a un enorme apparato tecnoinformativo, onnipervasivo, che ribadisce e martella da mane a sera su pagine e schermi di ogni genere.
(more…)

Ancora su Saviano

16 novembre 2010
di Giovanni Giovannetti

Ci risiamo. Nella seconda puntata di Vieni via con me nuovamente Saviano allude ed elude. Dice anche fesserie (come Carmelo Novella anche Pino Neri avrebbe coltivato il pensiero di una 'Ndrangheta lombarda autonoma dalla Calabria quando è vero il contrario: dopo l'uccisione di Novella, Neri torna alla Regola e alla subalternità con la terra "madre") o, senza batter ciglio, elude il corpo centrale della recente inchiesta antimafia: anche il nord registra l'assalto della 'Ndrangheta alla politica, un assalto riscontrabile a Pavia ben più che a Rho o a Bollate o a Buccinasco.
Pavia, città in cui l'interesse privato – criminale o semplicemente illegale – vince su quello pubblico; città in cui le decisioni sono prese fuori dalle sedi istituzionali; città in cui certa massoneria sembra il collante tra criminalità, speculatori e politici (e magistrati? E altri servitori dello Stato?). Città in cui il consigliere comunale Dante Labate era in affari nell'immobiliare Vittoria con il capo dei capi Pino Neri; città in cui Carlo Antonio Chiriaco, il direttore sanitario dell'Asl incarcerato, più che medico si rivela immobiliarista.
Ieri sera Saviano ha citato Pavia, senza tuttavia fare nomi, né analisi, né riflessioni, nulla. Nulla sull'assalto al sistema sanitario lombardo (all'ospedale San Paolo di Milano ci è anche scappato il morto “suicidato”, quel Pasquale Libri residente a Pavia e parente del boss Rocco Musolino). E quando allude a un politico lo scrittore cita senza nominarlo Angelo Ciocca della Lega nord, uno che – stando alle carte – figura molto meno coinvolto dei Labate, dei Trivi, dei Greco, dei Bobbio Pallavicini, dei “Peppino”, dei Filippi e degli Artuso (sono assessori, consiglieri comunali, rappresentanti del Comune nei cda delle municipalizzate), per tacere di innominati o innominabili come quell'avanzo di galera di Chiriaco, dell'onorevole Giancarlo Abelli, o del consigliere regionale Angelo Gianmario.
Capisco, il tema della politica e delle sue articolazioni massonico/affaristiche traffichine e criminali è assai spinoso e scivoloso, e tuttavia facile da raccontare, specie a Pavia, città dove qualcuno ha abbassato la guardia già prima del 2009 (dopo 14 anni di governo del centrosinistra, nel 2009 la spunta il centrodestra).
In conclusione: quanto paga l'antimafia che si fa spettacolo? Vediamo forse lievitare la civile indignazione ravvivata dalla percezione del pericolo? Vediamo forse meno isolati i pochissimi tra noi che localmente fanno controinformazione o se ne stanno occupando?
Ribadisco: a Pavia mille persone per Saviano, poche decine agli altri incontri, quasi nessuno al Consiglio comunale aperto di lunedì 8 novembre dedicato alle infiltrazioni mafiose nella politica e negli appalti, ovvero la mafia che più ci riguarda, quella sottocasa. Per citare Gaber: è partecipazione? oppure è star sopra un albero ad autoassolversi con l'antimafia delegata a Saviano. Lo scrittore benedetto sia da Fini che da Bersani; lui, ecumenico, al punto da non disturbare la massoneria e il Pdl (coinvolti), da attaccare blandamente la Lega (meno coinvolta), da tacere i nomi.

(qui Saviano)

Condividere il rischio. Siamo tutti Saviano?

28 ottobre 2008

di Helena Janeczek

 

Dopo le ultime notizie su un possibile attentato a Roberto Saviano in stile “Strage di Capaci” far saltare con l’esplosivo le macchine blindate sull’autostrada NapoliRoma e dopo l’intervista di “Repubblica” in cui dice di voler lasciare per un po’ l’Italia per riprendersi la sua vita, si è scatenata una gara di solidarietà di dimensioni impressionanti. Iniziative sui social network, letture collettive in piazza di Gomorra a Roma e Milano, cittadinanze onorarie, striscioni degli ultrà esposti allo stadio, un appello firmato da sei Premi Nobel che nella prima giornata raccoglie le adesioni di centomila persone. E molto altro, molto di più.
È qualcosa di imprevisto e di straordinario soprattutto laddove è divampato dal basso, dalle persone che hanno letto il libro o l’hanno comprato o che hanno soltanto visto Saviano in tv e ne hanno fatto quel che è ora: un simbolo di lotta alla mafia, un simbolo di coraggio. E probabilmente di qualcos’altro, perché i simboli veri non sono come i cartelli stradali che stanno per una cosa sola, ma si caricano e irradiano significato. Ed è fin troppo facile obiettare che per aderire a un appello via rete o anche trovarsi in una piazza lontana dalla provincia di Caserta non ci vuole molto coraggio, né si mette in moto un cambiamento, né si fa qualcosa di concreto per togliere una persona dal pericolo in cui si trova. Sono soltanto gesti simbolici che rispondono proprio su quel piano a chi, appunto, è diventato un simbolo.
Esistono alcuni che pensano che Saviano sia diventato quello che è adesso grazie al marketing editoriale o all’influenza dei media o a entrambi. Ma nulla si sarebbe messo in moto senza il libro né tanto meno avrebbe raggiunto queste dimensioni senza pubblico perché è quest’ultimo, in un movimento di feed back circolare, che continua ad alimentare le ristampe e tener aperti gli spazi su televisioni e giornali.
Quindi ha ragione Saviano quando dice che non è stato il suo libro a innescare una reazione da parte della camorra, ma il successo del suo libro, la trasformazione del suo libro e di lui stesso in qualcosa che riveste un valore simbolico per moltissime persone.
Pasolini scriveva che il successo è l’altra faccia della persecuzione e queste parole acquistano nel caso di Saviano una verità sinistra.
Credo che la realtà del pericolo che corre derivi ormai in una misura non meglio quantificabile dal valore che ha assunto, dalla notorietà raggiunta persino oltre ai confini dell’Italia.
È un fatto inaudito. La visibilità doveva avere un effetto protettivo, fargli – come si dice
da “scorta mediatica”, comunicare ai nemici di Saviano che se lo toccano, la reazione scatenata peggiorerà pesantemente le condizioni per condurre i propri affari in segreto e in silenzio. Secondo quella logica tradizionale nell’ambito delle mafie, ammazzare Saviano non conviene: piuttosto si aspetta un tot di anni, quando non avrà più la scorta e l’attenzione pubblica, quando quest’ultima lo avrà almeno in parte dimenticato. Allora lo si distrugge, preferibilmente con diffamazione, querele, mosse trasversali, e se proprio non bastasse, con le armi. Ed è ovviamente uno scenario sempre presente e non escluso dalla situazione attuale. Cosa che fa capire che cercare di destreggiarsi fra la troppa esposizione e il possibile oblio, debba essere per Saviano come navigare fra Scilla e Cariddi.
La logica della visibilità come protezione ormai non vale più senza riserve. I capi Casalesi in carcere si sono visti riconfermare gli ergastoli, le loro mogli – anche quella del latitante Antonio Iovine – sono state arrestate, Casal di Principe è presidiato dalla Folgore come un territorio occupato. Erano, fino al successo di Gomorra, un clan sconosciuto o di cui l’opinione pubblica non si interessava già a partire da Napoli. Ora qualsiasi loro azione, persino quelle non strettamente sanguinarie, rimbalza su giornali e telegiornali. Hanno poco da perdere, e l’idea che una volta tolto di mezzo Saviano, tutto tornerà come prima – magari non subito, ma basta aspettare- sembra possedere, a questo punto, una logica più stringente e una maggiore attrattiva. A questi uomini che si vedono come un potere assoluto, poter mostrare con un solo omicidio che detengono più potere di Stato, Premi Nobel, masse nazionali e internazionali, essere in grado di scatenare un putiferio anche politico, deve fare non poca gola.
Per questo, l’istinto e il buon senso suggeriscono di non scartare lo spauracchio della riedizione della Strage di Capaci soltanto perché il pentito ha poi smentito l’informazione sul presunto attentato raccolta da un poliziotto. Nella migliore delle ipotesi mi pare rappresenti quello che il clan avrebbe voglia di fare.
Chiunque abbia visto le interviste fatte da Repubblica tv o quelle di Matrix o delle Iene, si è reso conto che pure per il territorio dominato dai Casalesi, Saviano è un simbolo. Soltanto che è un simbolo negativo. A Casale – ma molto spesso anche a Napoli – Saviano è colui che è ti fa arrivare una sanzione se giri senza patente o senza casco, colui che è diventato famoso e venerato rovinando l’immagine della propria terra e affibbiando ai suoi abitanti l’immagine di mafiosi o di collusi, colui che si è arricchito senza aver fornito lavoro anche se nero o sporco, e non ha sganciato tangenti o soldi per i terreni trasformati in tombe di rifiuti tossici.
Magari quel che abbiamo visto o letto non è tutta la verità, magari c’è qualcuno che in segreto la pensa diversamente, ma non importa. Importa che quelle dichiarazioni rappresentino la versione a cui da quelle parti occorre o conviene conformarsi. Persino il parroco di Casale ha lanciato un anatema contro Saviano perché infanga il nome dei bravi e onesti paesani.
Basta aggiungere che accanto a un consenso negativo popolare intorno a Saviano, ci sono proprio nei luoghi che per primi dovevano essere scossi dalla sua denuncia, molti che si sentono sempre di più gettati nell’ombra dal fascio di luce che sembra ricadere tutto sul simbolo. Questi si trovano nello spettro di chi conduce la battaglia antimafia: dai magistrati ai testimoni di giustizia, dagli agenti delle forze dell’ordine ai militanti delle associazioni e così via. Giornalisti lamentano che Saviano avrebbe preso dai loro articoli e dalle loro inchieste, cosa che non avrebbe dato alcun fastidio se il libro l’avessero letto in 5.000 (la prima edizione di Gomorra aveva esattamente questa tiratura) e nemmeno in 50.000. Sarebbe infatti stato impossibile e grave se l’autore non avesse fatto tesoro delle informazioni raccolte anche aldilà della propria esperienza personale, ed è perfettamente normale che chi riporta semplicemente una notizia, non abbia bisogno di citare nessuna fonte: questo, a maggior ragione, per un libro che si colloca a cavallo fra saggistica e romanzo, fra esposizione di fatti e dati e narrazione.
Ciò che non scorgono queste persone – o che la loro frustrazione fa passare in secondo piano – è che si tratta del più classico meccanismo del divide ut impera, tra l’altro messo in moto senza nessun burattinaio, e che a isolare Saviano ci si crea un danno da soli facendo il gioco dell’avversario. Inoltre non sembrano vedere la cosa più banale e primaria, ossia che, pur nell’ombra di Saviano, l’attenzione a quel che fanno non sia mai stato tanto alta: mai così tante opportunità di pubblicare libri, fare film ecc sulla camorra (e persino sulla ‘ndrangheta fino ad allora quasi totalmente ignorata dall’attenzione pubblica), mai così tanto spazio nei mezzi d’informazione su arresti e inchieste, mai tanto impegno da parte dello stato nel territorio Casalese.
Ma già qui si intravede una sorta di equivoco. La Folgore che è a Casal di Principe – uso l’esempio come immagine esemplare, aldilà della valutazione sulla sua efficacia – non gira contemporaneamente a Platì e nemmeno a Secondigliano, e ammesso anche che si riuscisse a dare un colpo durissimo al clan dei Casalesi, non si avrebbe di certo ottenuto una vittoria su tutte le altre mafie che magari anzi godono dello sforzo concentrato da una parte come il proverbiale terzo fra i litiganti.
L’equivoco nasce dai piani di rappresentazione. Su quello basilare sembra trattarsi di una lotta fra Saviano e i Casalesi o, al massimo, fra Saviano e lo Stato e i Casalesi. Sembra che i Casalesi oggi “tirano” esattamente come un tempo facevano notizia solo i Corleonesi. In quest’equivoco che si autoalimenta ci casca pure l’editoria che pubblica libri sui Casalesi a cui sembra interessata solo una nicchia.
Perché, in realtà, al celebre scrittore londinese, alla casalinga di Voghera o allo studente di Treviso che cosa gliene importa alla fine di un dato clan campano? Non moltissimo, se non avesse intenzione di uccidere Saviano e se nella sua vicenda non fosse simboleggiato molto altro.
La libertà di parola, la fiducia nella verità e nella possibilità di dirla, il coraggio delle proprie azioni e convinzioni. E forse anche il meccanismo per cui la denuncia di certi clan reali, con nomi e cognomi, riesce a toccare per esteso le corde di chi in Italia si confronta con dinamiche “mafiose” in generale, cioè praticamente tutti. Credo che in questo paese vecchio, attanagliato da mille paure supposte o reali – dagli stranieri al pedofilo della porta accanto, dal latte contaminato alla recessione –, privo di fiducia nel proprio futuro e nella possibilità di uscire dal marciume, l’esempio di Saviano incontri soprattutto il desiderio di essere diversi da come si è realmente: non impauriti, asserviti, rassegnati. Eppure l’investimento simbolico su di lui sembra giocare un ruolo ambivalente. Ci si appaga nell’identificazione e nella preoccupazione per Saviano e si continua grosso modo a vivere come prima. D’altronde, cosa si potrebbe fare?
Purtroppo dire «siamo tutti Saviano» non basta, anzi l’effetto è in parte anche contrario a quello desiderato. Perché alla fine solo Saviano è Saviano, solo Saviano è quello sotto scorta, minacciato di morte, ricusato dal parroco di un paese che non ha pronunciato nulla di simile nei confronti dei boss. E voglio ribadirlo: Saviano non è ovviamente l’unico potenziale bersaglio delle mafie e non è l’unico a vivere sotto scorta, ma è un bersaglio privilegiato proprio in quanto simbolo. Più ci si schiera dietro al suo nome, più lui diventa simbolo e come simbolo diventa unico, diventa solo. E il fatto che così pochi lo appoggiano proprio laddove dovrebbe invece essere appoggiato primariamente, non fa che accrescere la pericolosità di questo meccanismo.
Chiunque abbia letto l’opera di René Girard centrata sulla funzione del capro espiatorio o conosca il mito e il rito del Re del Bosco analizzati dal Ramo d’oro di Frazer ha dimestichezza con la logica per cui figure investite collettivamente di un valore positivo e persino salvifico, siano per questa stessa ragione, destinate al sacrificio.
Ma come si fa a strappare una persona reale, non un simbolo, dal pericolo che sta con troppa evidenza correndo anche in questo senso?
Su Nazione Indiana abbiamo da sempre pensato che il modo migliore di stare vicini a Roberto era continuare a dare spazio alle tematiche che ha portato alla ribalta, anche e soprattutto se a scriverne erano altri, e cogliamo l’occasione per ribadire che Nazione Indiana è uno spazio aperto per chiunque voglia proporre un contributo. I Wu Ming con spirito simile hanno lanciato lo slogan di “desavianizzare” Saviano. Carla Benedetti e Giovanni Giovannetti sul sito de “Il primo amore” propongono di “Condividere il rischio” facendo e ospitando inchieste su temi non solo legati alla criminalità organizzata.
Tutto questo è giusto, però non illudiamoci: ormai non basta. Tutta l’attenzione e la maggiore facilità di accesso ai circuiti della comunicazione – dai blog, alle case editrici, ai telegiornali – che la fama di Saviano e del suo libro hanno innescato anche a beneficio di altri scrittori, giornalisti, documentaristi ecc., non hanno cambiato nulla su un certo piano. Si sono moltiplicate le voci di denuncia, ma Saviano è diventato sempre più simbolo.
D’altronde, non si può dire alla gente: tutto questo è certamente anche bellissimo, ma per favore state attenti. Da un lato perché nessuno si sveglia la mattina dicendosi «adesso di sto ragazzo che ho visto ieri sera a Matrix faccio il mio simbolo di un Italia migliore o di chi “ha le palle”». Del resto, le stesse persone – che siano scrittori famosi o gente comune non importa – hanno reagito con affettuoso buon senso alla sua dichiarazione di volersene andare, dando la priorità al suo desiderio di riavere una vita decente. Non è che perché uno è simbolo che non ci si rende conto che è prima di tutto una persona in carne ed ossa.
Ma soprattutto, pur con tutta la necessità di vederne gli aspetti rischiosi e ambivalenti, è giusto riconoscere che i bisogni simbolici sono bisogni profondi e reali, e il fatto che emergano con la loro portata utopica primaria, contiene in sé qualcosa di positivo: aldilà di ogni ricaduta concreta, di ogni possibilità che il semplice sentirli ed esprimerli possa bastare come appagamento e quindi diventi funzionale al mantenimento delle cose come stanno, e ovviamente aldilà di ogni manipolazione e strumentalizzazione della quale possono essere oggetto.
Eppure, pur con tutta la consapevolezza dei limiti e dei rischi, non basta fermarsi a questo. Bisogna cercare di capire quel che hanno fatto Gomorra e il “fenomeno Saviano” un po’ più concretamente.
Gomorra non è soltanto in assoluto il primo libro sulle mafie – inclusi quelli dedicati a Cosa Nostra, inclusa il volume intervista a Giovanni Falcone – ad aver ottenuto una simile diffusione in Italia e nel mondo. Gomorra ha soprattutto cambiato il modo di rappresentare e di vedere le mafie. Non più fenomeno locale, ma presenza ubiqua e interconnessa del mondo globalizzato. Non più intreccio fra potere criminale e potere politico, ma supremazia del potere economico al quale tutto il resto è subordinato. Quel che talvolta viene mosso come critica a Saviano, ossia aver riservato un ruolo marginale all’aspetto della collusione politica, è in realtà la condizione di partenza perché si fosse potuto verificare questo mutamento collettivo di consapevolezza.
Gomorra ha fatto questo:spostare lo sguardo dal sangue e persino dalla politica al business che è ovunque e rappresenta il cuore del potere criminale. Ed è, aldilà delle mafie, un grande e necessario aggiornamento ai tempi nostri, dove recentemente gli stati e la politica non hanno potuto fare altro che cercare di tamponare i disastri creati dall’economia, stavolta finanziaria.
Lo sguardo di Gomorra è la sua più grande novità. Ogni polemica su quel che Saviano possa aver preso da altri o su quel che «si sapeva già», manca il bersaglio perché non si rende conto che è stato Saviano, solo Saviano, a scorgere in quella materia una portata universale e trovare lo strumento per fare breccia con la sua visione delle cose e con la forza di coinvolgimento del suo racconto. Nessuno prima d’allora era arrivato a mostrare soprattutto questo, a far pervenire soprattutto questo come messaggio, a dirti: «non chiederti principalmente se Totò Riina si è baciato o meno con Andreotti, ma domandati piuttosto chi costruisce casa tua, come vengono raccolti i pomodori con cui fai la salsa, dove e come vengono smaltiti i rifiuti che butti nel bidone dell’immondizia».
Non erano cose di cui si interessava il lettore comune o il pubblico dei media, non erano nemmeno cose che sembravano riguardare da vicino i cosiddetti intellettuali, inclusi quelli impegnati. Pasolini probabilmente ha pagato con la vita il suo lavoro su Petrolio e il suo Io so che riguardavano comunque grandi intrecci fra politica e interessi multinazionali, non il subappalto del piccolo cantiere, non la proprietà di una pizzeria, non il racket subito dal negoziante. In breve: non il nostro quotidiano.
Su tutto questo c’è stata una sensibilizzazione che forse è l’inizio di qualcosa che cambia. I giornali non danno solo quell’attenzione a camorra e Casalesi di cui prima godevano solo i mafiosi siciliani (e comunque, per qualsiasi motivo, è preferibile essere informati su due organizzazioni criminali piuttosto che su una sola), ma concedono uno spazio prima impensabile a questioni come le mani dell’ndrangheta sui lavori per l’Expo di Milano (vedi gli articoli su “Corriere” e “Stampa”).
Noi non siamo Saviano e possiamo fare ben poco per tutelarlo. Ma, senza nessun eroismo, possiamo continuare ad allargare il solco che ha tracciato, continuare a ritenere che ogni indagine sul reale ci riguardi, possiamo trasformare tutto questo in una duratura e normale consapevolezza capace di non essere soltanto qualcosa di effimero: leggere – o scrivere – poesie e inchieste, articoli di cronaca e romanzi. Cambiare definitivamente postura rispetto a questo. Capire che le nostre democrazie sono congegni imperfetti e fragili, i cui valori e il cui funzionamento possono essere messe in scacco non solo dall’ascesa al potere di un dittatore; che non bisogna arrivare al regime totalitario, per finire per perderne di fatto dei grossi pezzi. Questo paese ne è un esempio particolarmente mal messo, ma la questione di fondo non riguarda solo l’Italia e il suo meridione. E al tempo stesso non dobbiamo nasconderci lo sgomento e il senso di impotenza che ci coglie quando scopriamo che Caserta sembra più lontana da Roma, più altrove, che Parigi o Milano.
Sapere che si possa fare poco. Ma farlo. Di modo che se Saviano se ne va per un po’ da un’altra parte, qualcosa di quel che ha aiutato a seminare continui a crescere e a radicarsi anche laddove non c’è mai stato uno specifico interesse per le mafie.
E infine, anche se il coraggio è quella cosa che non ci si può dare da soli, sarebbe bello se fossimo capaci a tirarne fuori un po’ di più: ovunque, in qualsiasi campo. Non per Roberto Saviano, soprattutto per noi stessi.

Viva la camorra

23 ottobre 2008
dal blog di Sandro Ruotolo

Caro amico ti scrivo

21 ottobre 2008
una breve risposta di Giovannetti a Giuseppe Caliceti

 

Scrive Giuseppe Caliceti: «Mi hanno colpito e fatto piacere gli interventi di Antonio Moresco, Carla Benedetti e Giovanni Giovannetti su “Il primo amore” [e contemporaneamente su “Direfarebaciare”] a proposito del caso Saviano per la loro solidarietà a Roberto e per la loro sincera volontà di fare qualcosa per lui. Mi hanno commosso. Personalmente la penso come Antonio che gli dice, semplicemente, che fa bene ad andarsene dall’Italia. Ma capisco anche cosa intendono Carla e Giovanni quando propongono di fare, nel nostro piccolo – cioè nel territorio in cui viviamo, nei settori di lavoro che meglio conosciamo e più frequentiamo – come Roberto». L’intervento continua; la versione integrale, dal titolo L’anomalia italiana, è sul sito del “Primo amore”.

Caro Giuseppe, quasi tutta l’editoria e, quel che è peggio, quasi tutta l’informazione – non solo quella televisiva – è «saldamente in mano al potere economico e politico di una certa parte politica». Sappiamo chi manovra l’industria “culturale”. Sappiamo anche presso quale editore è uscito Gomorra: è quella stessa Mondadori che si appresta a pubblicare anche i Canti del caos di Antonio Moresco. E questo perché sopravvivono sacche di resistenza anche all’interno del “sistema comunicazione” così come nella rete, nei giornali, nelle radio e nelle televisioni. Forse sopravvivono perché Berlusconi pensa che i libri siano sovrastruttura; che i soli a contare siano Emilio Fede e la De Filippi. Come stiamo vedendo, al contrario, certi libri possono essere la goccia che scava la roccia. E sono quelli – destinati a durare – che lentamente ma implacabilmente danno luogo al cambiamento. Gli speculatori e gli affaristi hanno grancassa e trombe? Sta a noi far vibrare mille e più campane. Lo ribadisco: basterebbe essere cittadini consapevoli che non si limitano a votare, ma che agiscono localmente, pensando globalmente; cittadini disposti a dare quel tanto che è loro possibile. Sono vecchie e semplici parole d’ordine, più attuali che mai.

Un abbraccio. Giovanni

Per Saviano: condividere il rischio

19 ottobre 2008
di Carla Benedetti

 

Non basta dichiarare a Roberto Saviano solidarietà a parole, non basta lodarlo, non basta leggere in piazza pagine di Gomorra. Non basta nemmeno dire che egli è tutti noi. Ogni parola, anche sincera e intensa che noi possiamo pronunciare o scrivere in sua difesa o in sua lode è certo una cosa buona, ma non è proporzionale al rischio che egli sta correndo e continua a correre per aver osato sognare un paese diverso da questo, per aver avuto il coraggio e la libertà di appellarsi alla responsabilità civile e umana dei suoi concittadini. 

L’unica cosa proporzionata al suo fare è fare come lui. Perciò sottoscrivo la proposta di Giovanni Giovannetti. «Dieci cento mille scrittori, giornalisti e intellettuali che raccontino le pratiche e le culture mafiose nei luoghi in cui vivono, ognuno con gli strumenti a sua disposizione…. Sporcarsi le mani, condividere il rischio, praticare l’assunzione di responsabilità. Nel nostro piccolo, qualcuno di noi lo sta già facendo. Non potranno ucciderci tutti».

Sul blog del Primo amore abbiamo creato una categoria apposita. Si chiama «Condividere il rischio». Questo sito è  disposto a pubblicare le inchieste e gli articoli di chi vuole aderire a questa condivisione di rischio.

Vorrei anche che ci impegnassimo a promuovere un’iniziativa pubblica come quella che organizzammo a Milano tre anni fa assieme a Roberto, allora ancora un ignoto e coraggioso cronista-scrittore. Facciamo un secondo “Giornalismo e verità”, questa volta senza di lui, ma con lo stesso spirito, proseguendo e allargando il lavoro e inondando questo devastato paese con la sua stessa libertà e coraggio di prefigurare alternative all’esistente.  

Alla proposta di Giovanni vorrei però aggiungere una cosa,  provare a estenderla. La condivisione di rischio può andare più in là dell’inchiesta sulle mafie. Credo che anche chi non fa inchieste, anche chi si muove in altri ambiti e con altri strumenti  abbia un compito altrettanto cruciale. Perché il punto davvero importante è riuscire a prefigurare alternative all’esistente, avere la libertà e il coraggio di pensarle, con tutti gli strumenti che abbiamo a disposizione.

Saviano non ha fatto solo inchieste e denuncie. È anche riuscito a trasmetterci  il senso di un’intollerabilità per ciò che sta accadendo, e persino a farci sentire intollerabile la nostra stessa abitudine a considerarlo inevitabile. E su questo  possiamo tutti lavorare condividendo il suo rischio. Non è vero che siamo impotenti  di fronte a ciò che ci si presenta con il volto plumbeo e menzognero dell’ineluttabile. Non è vero che contro i poteri di morte che ci opprimono da ogni parte non si possa fare niente. «La paura è l’alibi maggiore» – scrive Saviano – e «non avere più paura non sarebbe difficile. Basterebbe agire, ma non da soli». Dalla possibilità che i suoi concittadini reagiscano, e con loro tutti gli italiani, mettendo in moto responsabilità civili e umane, riattivando energie buone ma a lungo sopite e represse, rigenerando forme di collettività e strutture di pensiero alternative, dipende ora la sua vita. Riuscire a lavorare in questa direzione vorrebbe dire fare qualcosa di proporzionale a ciò che egli ha fatto e continua a fare.

Vorrei tornare su questo argomento in un prossimo intervento, e spiegarmi meglio. Per il momento riporto le parole di Saviano dalla Lettera a Gomorra uscita su «Repubblica» del 22 settembre scorso: «Come abbiamo fatto a divenire così ciechi? Così asserviti e rassegnati, così piegati? […] Non posso credere che riescano a resistere soltanto pochi individui eccezionali. Che la denuncia sia ormai solo il compito dei pochi singoli, preti, maestri, medici, i pochi politici onesti e gruppi che interpretano il ruolo della società civile. E il resto? Gli altri se ne stanno buoni e zitti, tramortiti dalla paura? La paura. L’alibi maggiore. Fa sentire tutti a posto perché è in suo nome che si tutelano la famiglia, gli affetti, la propria vita innocente, il proprio sacrosanto diritto a viverla e costruirla. Ma non avere più paura, non sarebbe difficile. Basterebbe agire, ma non da soli. La paura va a braccetto con l’isolamento. Ogni volta che qualcuno si tira indietro, crea altra paura, che crea ancora altra paura, in un crescendo esponenziale che immobilizza, erode, lentamente manda in rovina. […] Chiedo alla mia terra se riesce ancora ad immaginare di poter scegliere. Le chiedo se è in grado di compiere almeno quel primo gesto di libertà che sta nel riuscire a pensarsi diversa, di pensarsi libera. Non rassegnarsi ad accettare come un destino naturale quel che è invece opera degli uomini. […] Bisogna trovare la forza di cambiare. Ora, o mai più».

Quello che segue è un passo di Simone Weil tratto da Prima radice. «Il rischio è un bisogno essenziale dell’anima. L’assenza di rischio suscita una specie di noia che paralizza in modo diverso da quanto faccia la paura, ma quasi altrettanto. […] La protezione degli uomini contro la paura e il terrore non implica la soppressione del rischio; implica invece la presenza permanente di una certa quantità di rischio in tutti gli aspetti della vita sociale; perché l’assenza di rischio indebolisce il coraggio al punto di lasciar l’anima, in caso di bisogno, senza la benché minima protezione interiore contro la paura. È necessario soltanto che il rischio si presenti in condizioni tali da non trasformarsi in un sentimento di fatalità».

Condividere il rischio

18 ottobre 2008
di Giovanni Giovannetti
 
Che fare, in solidarietà a Roberto Saviano, in forma concreta e utile? Fare come lui. Dieci cento mille scrittori, giornalisti e intellettuali che raccontino le pratiche e le culture mafiose nei luoghi in cui vivono, ognuno con gli strumenti a sua disposizione. Un’inchiesta collettiva condotta sotto un cartello comune, per denunciare le metastasi delle mafie e della cultura mafiosa dentro la politica, l’economia, la finanza – al nord più che al sud – e in tutti gli altri centri di potere istituzionali e culturali, senza tacere nomi e cognomi. Sporcarsi le mani, condividere il rischio, praticare l’assunzione di responsabilità. Nel nostro piccolo, qualcuno di noi lo sta già facendo. Non potranno ucciderci tutti.
 

Vattene Roberto!

18 ottobre 2008

 

 

 

 di Antonio Moresco

 Caro Roberto,

ho letto che desideri andartene dall’Italia e mi hanno colpito le parole sincere, giuste e belle con cui lo dici. Tu hai vissuto, negli anni della giovinezza, un’esperienza difficile e straordinaria. Stai pagando un prezzo altissimo per il tuo gesto ma hai potuto vedere nello stesso tempo qualcosa che a pochi altri – uomini e scrittori – è stato dato di vedere. Hai scatenato un’ostilità senza pari ma anche entusiasmo e affetto senza pari. Un semplice ragazzo nato in un paese del nostro sud oppresso da un dominio che è parte di una macchina di ben più vaste dimensioni e portata, sconosciuto fino al giorno prima, armato solo del suo coraggio e della forza della nuda parola, ha saputo mettere in moto un terremoto nella nostra coscienza nazionale e accendere una concreta speranza di riscatto.
Molti, uomini e donne, ragazzi e ragazze, ti sostengono sinceramente e appassionatamente, ma ci sono anche quelli che nascondono dietro di te – il meraviglioso ragazzo che ha osato sfidare il drago – la loro sudditanza alle stesse logiche nei campi altrettanto nevralgici della politica, dell’economia, della cultura e dei media, tanto non costa niente e per di più ci si sente giusti e buoni. Come se il mondo che tu hai portato alla luce fosse una piaga che si ferma alle porte della Campania, qualcosa di residuale e di esterno rispetto alla quale è facile sentirsi superiori.
Giornali e televisioni ti hanno dato un grande sostegno e una grande visibilità, indispensabili nel momento che stai vivendo, e così uomini politici e istituzioni. Molti si sono riempiti la bocca di parole di lode per la tua battaglia. Ma ti hanno anche schiacciato – come uomo e come scrittore – su quest’unico target e su quest’unico ruolo.
Vattene, Roberto! Stiamo vivendo in un paese e in anni intossicati e plumbei e un eroe può sempre fare comodo a molti. Se tu te ne vai, il tuo non è un gesto di diserzione ma di vicinanza a te stesso e alla tua umana bellezza. La nostra vita, personale e di specie, è dentro qualcosa di infinitamente più grande. Non c’è solo questo piccolo, orribile cerchio. Quanto hai fatto finora e tutto quello che il tuo libro ha mosso continua a mettere radici e a fruttificare. Salvati dai nemici, ma salvati anche dagli amici e da tutto il resto. Più sarai lontano e più ti sentiremo vicino. Porterai con te tutta la tenerezza, l’amore e l’orgoglio delle persone che ti hanno visto nascere e che si aspettano da te una vita ancora lunga, libera e ricca.
Ti abbraccio forte, Antonio.


ilprimoamore.com